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ARTISTE “SVELATE”


Islamiche, cristiane, buddiste o induiste sono le protagoniste di questa esposizione che a Roma approda per la prima volta nella sua formula originaria - 72 opere firmate da 51 artiste provenienti da 21 paesi islamici - dopo essere stata parzialmente presentata in altre sedi museali in Italia, su iniziativa della Fondazione Laboratorio Mediterraneo di Napoli, nel 2004 al suo decimo anno di attività. L’ultima tappa di questa mostra – il Lussemburgo – avrebbe dovuto segnare la partenza delle opere oltre oceano per una serie di eventi negli Stati Uniti, ma il Presidente della Fondazione, Arch. Michele Capasso, sensibile all’invito ricevuto dal Complesso del Vittoriano, ha ottenuto dal Presidente della Royal Society of Fine Arts di Amman, Wijdan Ali, Principessa membro della famiglia reale e pittrice ella stessa, di poterne prolungare la stagione di presentazione in Italia.

Stracciando i veli o, in senso traslato, Rompendo le barriere è evento significativo – ne è prova d’altronde l’interesse della critica e del pubblico ad oggi riscosso in tutte le sedi, in Italia e all’estero, dove ha avuto luogo – che trascende il significato di esposizione di gruppo e diventa messaggio, affermazione, presa di coscienza, ribellione, dialogo che supera le barriere di lingua, razza e religione, dove il termine islamico – come sottolinea il Presidente della Royal Society of Fine Arts di Amman – deve essere assunto nel suo significato, non religioso ma culturale, di riferimento ad una civilizzazione di grande rilievo nella storia dell’umanità.

Di generazioni e paesi diversi, le 51 artiste adoperano mezzi di espressione pittorica i più variati che possono essere inseriti nei filoni più eterogenei della pittura contemporanea : rappresentano oggi una realtà spesso sconosciuta o misconosciuta che sta lentamente acquistando una sua definita fisionomia nel panorama artistico internazionale e che merita di essere promossa e conosciuta all’estero, fuori dei paesi d’origine, soprattutto –ma non soltanto – per il significato simbolico sottolineato dal titolo stesso dato all’esposizione, quello stracciare i veli della sottomissione e della dipendenza della donna dell’Islam, proclamando il suo diritto di cittadinanza nel mondo dell’arte e rompendo le barriere create dall’ignoranza e dalla mancanza di dialogo.

Astrazione, figurazione, arte concettuale, manierismo, folclore, gestualità, espressionismo lirico, simbolismo, surrealismo - termini questi che di solito si rincorrono nelle presentazioni che accompagnano le mostre d’arte – sono termini tutti riconducibili all’una o all’altra delle artiste presenti in questo vero e proprio Salon d’Art che, come la maggior parte delle rassegne di questo tipo non ha un tema portante o un comune denominatore artistico che individui i partecipanti, nel caso specifico convocati a rappresentare i loro paesi d’origine e qualificati soltanto dal fatto di essere donne artiste del mondo islamico.

La presentazione di questa mostra-evento deve limitarsi ad offrire un panorama delle opere esposte, ed eventualmente classificarle riportandole a schemi prestabiliti, senza esprimere giudizi puramente critici sulla loro qualità, in primo luogo perché non si saprebbe in base a quale metro costruire questo giudizio trattandosi di opere che appartengono ad un mondo e ad una cultura conosciuti solo marginalmente, ed in secondo luogo perché sarebbe fuori luogo pretendere un medesimo livello di valori in un’esposizione che si presenta quale Salone d’Arte, con in genere una sola opera per ogni artista, pretesa questa mai avanzata nei confronti di manifestazioni similari organizzate in Europa con artisti europei. Sarebbe d’altronde limitativo prendere in considerazione un’iniziativa quale questa della quale si dovrebbe soprattutto sottolineare il fine ultimo di eliminare pregiudizi e superare barriere tradizionali, lasciandosi condizionare da un’attenzione alla mera qualità della pittura ignorandone il significato più profondo di manifestazione destinata a far conoscere in una sua dimensione diversa, che è quella dell’arte, la donna del mondo islamico, stracciando i veli che la nascondono ai nostri occhi e le impediscono di affermarsi, oggi, talvolta nel suo stesso paese, e nel mondo intero.

Una carrellata sulle opere di questa mostra smonta innanzi tutto alcuni pregiudizi spesso avvalorati anche da testi di critici occidentali che non riconoscono alla pittura figurativa diritto di esistenza nel mondo islamico, dimenticando che la pittura islamica che, come noto, non contempla la raffigurazione non va identificata con la pittura dal mondo islamico. Lo dimostra la presenza nella mostra di Tina Ahmad (1950) del Bangladesh, della saudita Fahda Bint Saud (1953) e della palestinese Mounira Nousseibeh (1943) dalla pittura tradizionalmente figurativa fortemente rappresentativa dei luoghi e costumi dei paesi d’origine; di Suad Attar (1939), irachena, con le sue evocazioni mitologiche e ambientazioni popolari; di Thuraya Baksami (1952), del Kuwait, con le sue proposte emblematiche legate alla figura; delle algerine Baya (1931-1999) che ancora giovanissima incantò con i suoi favolosi uccelli ed animali lo stesso Picasso e Houria Naiti (1948), espressionista dalla ricca tavolozza cromatica che si oppone all’l’immagine stereotipa della donna araba; della giordana Karima Bin Othman (1972) che presenta un corredo di maschere legate ad umane tipologie; della sudanese Kamala Ibrahim la cui drammatica pittura risente fortemente, anche a prima vista soltanto, dell’arte di Bacon dall’artista studiata durante i suoi soggiorni di studio a Londra; dell’egiziana Rabab Nimer ( 1940), già nota in Italia per avervi soggiornato quale artista e moglie del Direttore dell’Accademia d’Egitto a Roma, una presenza inquietante dalle simboliche ed enigmatiche forme umane e animali; della libanese Juliana Seraphime (1934) le cui opere vivono in un’atmosfera decisamente surrealista-fantascientifica; e della turco-giordana Faherlnissa Zeid (1901-199l), versatile e prolifica artista dal ricco curriculum, nota tanto per i classici ritratti ispirati allo stile bizantino che segnarono l’inizio della sua carriera quanto per le composizioni astratte dell’ultimo periodo.

Elementi figurativi sono rinvenibili, anche se meno protagonisti ma pur sempre evidenti, nelle opere di Mariam Abdul Aleem, egiziana (1930), che inquadra i suoi segni in forme-cornici realizzate con elementi organici; della libanese Etel Adnan (1925), alla ricerca di una relazione tra scrittura ed immagine; della pakistana Mehr Afrore (1948) che su fondi trattati come superfici monocrome staglia prepotenti simboli femminili; della turca Tomur Atagok (1939) che frammenta, seziona e trasforma in simbolici messaggi le figure, in prevalenza donne, che invadono le sue tele; della palestinese Rana Bishara (1971) che crea composizioni astratte tridimensionali partendo dall’elemento figurativo della foglia del cactus; di Miriam Bourdebala (1960), pittrice e scenografa tunisina, che su fondi trattati con sabbia disegna forme dai segreti messaggi che stimolano l’immaginazione di chi le osserva; della irachena Lisa Fattah (1941-1999), nata in Svezia, educata in Italia e Spagna e quindi in Iraq dove con il marito iracheno ha sposato la causa del suo popolo d’adozione trasferendo nelle sue composizioni parole e segnali di rabbia interiore e di incontrollabile passione; della palestinese Jumana Husseini (1930), emigrata a Beirut ed in seguito a Parigi, pittrice di miraggi ed immaginari orizzonti che nascono da simboli calligrafici; della pakistana Nazr Ikramulla (1939), attualmente in Canada, che mette a fuoco eventi politici, una vera documentazione dell’attualità, servendosi delle tecniche più diverse, dalla stampa laser all’acquarello, dal pastello all’incisione e al collage; della tunisina Rym Karoui (1967), le cui composizioni sono affollate da elementi calligrafici e figure riprese dalla tradizione naive e dai graffiti delle caverne; dell’irachena Leila Kawash (1945) che lancia messaggi di protesta contro le frontiere blindate servendosi di opere dai colori delicati e quasi trasparenti che includono scritti in prosa, versi e collages fotografici; di Maisoon Qasimi (1958), degli Emirati Arabi, autodidatta, che contrappone nei suoi dipinti primi piani di figure espressioniste a calligrafie astratte che ne animano lo sfondo; della pakistana Nahid Reza (1947) che dipinge simboli orientali del pensiero e del desiderio femminile con tecniche proprie dell’arte occidentale; la malese Nirmala Shanmughalingam (1941), che con impegno sociale e politico ha dipinto i conflitti in Viet Nam, Afghanistan e Libano utilizzando anche testi trasferiti sulla tela in lingua originale; e delle palestinesi Laila Shawa (1940), che per la causa della mancanza di libertà del suo popolo si batte con una pittura suggestiva tessuta di graffiti e scritte, e Samia Zaru (1938), non meno impegnata politicamente , che inserisce nelle sue forti e colorate composizioni elementi di ricami e tessuti del suo paese.

Una pittura gestuale ricca di colore e creatività espressiva è rappresentata nella mostra dalle opere di tre artiste di diversa provenienza, la giordana Nawal Abdullah (1951), con la sua visione di un mondo tra sogno e realtà, Kanak Chakma (1963), del Bangladesh, che dipinge figure femminili nell’ambiente che le circonda, e Rabha Mahmoud (1949), dell’Oman, le cui donne, nonostante l’esistenza “velata”, sono rappresentate in costante movimento e vivacemente dipinte.

Numerose sono anche le artiste che si dedicano alla ricerca astratta, tutte caratterizzate da un cromatismo violento, e spesso azzardato, che riflette i colori dei loro paesi d’origine. Di seguito le ricordiamo: Balqees Fakhro (1950), del Bahrain; Samia Halabi ( 1936), Palestina; dal Marocco Sohad Lachiri (1946) e Najia Mehadji (1950); la siriana Laila Muraywid (1956); la giordana Hind Nasser (1940), le cui opere in gran parte riflettono la natura nelle sue varie forme, con accenni di oscure immagini campeggianti su aree di colore; l’egiziana Naima Shishini (1929) , pittrice e pedagoga internazionalmente nota; le giordane Suha Shoman (1944), le cui opere astratte sono attraversate da circuiti di linee che creano forme, Rula Shukairy (1957) dalle composizioni quasi monocrome, con un uso bilanciato di luci ed ombre, Dodi Tabbah (1952) che crea effetti di teatro delle ombre con elementi geometrici, e Wijdan (1939), pittrice, scrittrice e storica d’arte, le cui composizioni astratte, caratterizzate da una tecnica molto personale di sovrapposizione di colori graffiati ed incisi, diventano messaggi di denunzia contro le offese alla dignità umana perpetrate nel mondo intero; la malese Sharifah Fatimah Syed Zubir (1948) , le cui forme in movimento fluttuano in un mistico labirinto di colori accesi e vibranti; e la turca Su Yucel (1961), colorista d’istinto che nell’olio e nell’acquarello crea appassionate sinfonie di colori in gradazione.

Le indonesiane Umi Dachlan (1942) e Heyi Ma’maun (1952) sono, la prima, una delle più importanti pittrici astratte del suo paese che utilizzando nelle sue composizioni l’oro e il metallo esprime la radice orientale della sua creatività, e la seconda artista nelle cui opere enigmatiche e poetiche predominano fondi scuri quasi monocromi. Possono anche essere considerate artiste astratte con riferimenti alla figurazione la yemenita Amna Nusairy (1967) che si ispira ai motivi decorativi delle ceramiche e dei tessuti del suo paese prestando attenzione alla forma grafica di oggetti ornamentali, e la irachena Hana Malallah (1960) che anche utilizza materiali organici – carta, cartoni, tessuti ed altre materie - nelle loro originali forme e colori, trasformando alla fine composizioni all’apparenza meramente astratte in emblematici riferimenti a problemi umanitari.

Anche il mezzo puramente fotografico contaminato da una particolare tecnica di ritocco pittorico trova ospitalità in questa mostra, utilizzato dalla palestinese Samira Badran (1954) che lo utilizza per descrivere la penosa situazione del suo paese.

Chiudiamo questa carrellata di presentazione con i nomi di due artiste iraniane, Simin Maykadeh (1947) e Haideh Sharifi (1963) che rappresentano correnti diverse entrambe affermate nel paese. La prima, che ha studiato in Inghilterra e negli Stati Uniti, ha una pittura che è evidente risultato di un intrecciarsi di differenti culture : una figurazione che unisce il senso del monumentale e dello stilizzato con estese campiture di colore a trasmettere l’immagine del silenzio. La seconda parte dallo studio dell’arte islamica utilizzando nelle sue tecniche miste elementi architettonici e decorativi che si stagliano su fondi animati dai caratteri della calligrafia araba.

Osservazione che serve a meglio inquadrare il significato di questa mostra indipendentemente dalla qualità pittorica delle singole opere, tutte di proprietà della Jordan National Gallery of Fine Arts fondata nel 1980 dalla Royal Society of Fine Arts di Amman, è la seguente: la quasi costante presenza nelle opere esposte di un impegno politico e sociale che le alimenta e vivifica, anche in quelle composizioni che a prima vista potrebbero sembrare interessanti soltanto da un punto di vista meramente estetico. Questo ultimo in effetti è quello meno preso in considerazione dalle artiste quale finalità del loro operare, e si limita in ogni caso ad essere un mezzo per additare ed affrontare i problemi che le accompagnano nella loro vita di donne e di artiste. E che almeno in alcuni paesi continuano ad impedirne la crescita. Quando nel novembre 2001 il Presidente della Rete Mediterranea della F.A.M. (Femme – Art – Méditerranée ) Sig.ra Aliki Moschis-Gauget presentò il progetto di una mostra di questo tipo alla Principessa Wijdan Ali per correggere la distorta immagine della donna islamica nel mondo, mostra ufficialmente inaugurata a Rodi, sede della F.A.M., nel 2002, e da qui partita per sedi museali in Asia, Europa e Stati Uniti, non era prevedibile il successo che l’iniziativa avrebbe riscosso. Se ne avvertiva però la necessità per permettere alla donna artista di paesi dell’Islam di affermare la propria creatività e far conoscere il suo impegno per arricchire il patrimonio culturale dell’umanità manifestando il suo disagio, le sue aspirazioni, la sua volontà di contribuire alla pace nel mondo. Ed è questo impegno che fa di queste opere un insieme unitario e ne giustifica la promozione all’estero, in paesi per la prima volta messi in contatto, su scala così vasta, con una realtà diversa, affascinante e conturbante, intrigante e coinvolgente quale quella che viene qui presentata.



Carmine Siniscalco
Curatore edizione romana di “Breaking the Veils”

Studio S-Arte Contemporanea, Roma

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