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CONVEGNO FONDAZIONE LIBERAL
“IL LIBERALISMO NEL XXI SECOLO”


“Il liberalismo nell’era della globalizzazione”

Dr. Cesare Romiti


Napoli, 7 giugno 1997

Non ci interroghiamo sull’impatto che il processo di globalizzazione dei mercati e delle imprese ha, ma soprattutto avrà sulle istituzioni democratiche. Ci chiediamo in che misura ne condizioni e ne condizionerà il ruolo, la libertà d’azione, l’esistenza stessa. Di globalizzazione, infatti, si parla molto, ma non sempre in modo appropriato. Anzi, direi che il più delle volte si tende a metterne in luce gli elementi più inquietanti, i rischi; assai meno si mettono in luce le sue opportunità e soprattutto i grandi spazi di libertà che ha aperto.

Ci sono alcune cose, allora, che occorre mettere in chiaro preliminarmente.

Primo: quello della liberalizzazione degli scambi e dell’integrazione delle economie non è né un fenomeno scoppiato all’improvviso, né la conseguenza di scelte che ci sono estranee. La globalizzazione la hanno voluta le democrazie occidentali, l’abbiamo voluta noi per allargare le basi del nostro sviluppo e per includere nel processo di crescita un sempre maggior numero di Paesi. Dal piano Marshall in avanti, passando per la creazione della Comunità Europea, questa è stata la strategia politica ed economica dell’Occidente: l’espansione dei confini, non il loro ridimensionamento. E’ stata una strategia vincente. Non solo perché ci ha permesso di accrescere il nostro benessere. Ma perché - come ci proponevamo all’indomani della guerra - ha portato più sviluppo e più benessere in vaste aree del mondo: dall’America Latina all’Asia fino addirittura a diversi paesi dell’Africa Nera. Questa - io credo - è vera solidarietà: dare a un sempre maggior numero di persone la possibilità di godere di migliori standard di vita, di mettere a frutto le proprie capacità e di conquistarsi - con la propria intelligenza e il proprio lavoro - un posto dignitoso nel mondo.

Secondo: l’integrazione economica ha favorito il rafforzamento, la diffusione, talvolta il ripristino, di sistemi democratici. Questo è vero a cominciare dalla stessa Europa. Non possiamo dimenticare che la difesa della libertà, in tutte le sue forme, è stata fin dalle origini fondamentale principio costitutivo della Comunità Europea e il discrimine per la partecipazione ad essa. E proprio il successo della Comunità ha stimolato, direi quasi sollecitato, l’affermazione della democrazia in altri Paesi europei: dalla Spagna al Portogallo alla Grecia per arrivare, in tempi Più recenti, ai nostri vicini dell’Est. Fuori dall’Europa, poi, come non constatare che, mentre nuove regioni entravano nel circuito dell’economia globale, in molta parte di essa avanzava anche la democrazia? Pensiamo all’Argentina, al Brasile, al Cile, alle Filippine, a Taiwan, al Sud Africa. Certo, tra i due fenomeni non c’è un legame di dipendenza univoca: basta ricordare il caso della Cina. Ma non c’è dubbio che l’integrazione economica favorisca lo sviluppo di sistemi democratici: al momento non c’è evidenza del contrario.

Terzo: l’integrazione ha dato un contributo essenziale a far sì che il mondo, in questi ultimi cinquant’anni, abbaia fatto un percorso di pace come mai non era avvenuto nella storia. Esistono certe arre di crisi e di conflitti anche sanguinosi. Ma le ragioni delle crisi e dei conflitti non hanno niente a che fare con la creazione di un grande mercato globale: essi sono quasi sempre legate a fattori etnici, culturali, religiosi.

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Detto questo, c’è un’altra questione che merita qualche considerazione più attinente al tema e agli obiettivi di questo convegno. Mi riferisco al ruolo che hanno oggi quei mercati che la globalizzazione ha enormemente ampliato.
Proprio questo ampliamento sembra averli trasformati, nella percezione comune, in qualcosa di “esterno“, di “inafferrabile” e governato da regole proprie, al quale i cittadini e i loro governanti sono comunque soggetti. I mercati sarebbero, in sostanza, qualcosa che priva i singoli individui e intere comunità della loro effettiva possibilità di incidere sul proprio destino. Se questa è la percezione, è naturale che cresca nella gente un certo senso di spaesamento, che le istituzioni perdano credibilità, che si diffonda la sfiducia nella classe politica come promotrice di libertà e depositaria del potere di guidare un Paese laddove i cittadini effettivamente vogliono andare. Avviene così che spaesamento, perdita di credibilità istituzionale, sfiducia nella politica tendano ad indebolire l’importanza stessa della democrazia. Nella confusione, si tende a pensare che “tanto il mercato decide tutto lui; e allora a che serve la democrazia?”. Questa sensazione è diffusa; ma dobbiamo dire anche che è del tutto errata. Per capire quanto sia sbagliata, però dobbiamo cercare di rimettere ordine nelle sequenze logiche e di riprendere il filo che lega l’apertura dei mercati e la globalizzazione con la democrazia. Questo filo non si è affatto spezzato. E allora, partiamo da considerazioni concrete: partiamo dalla realtà dell’Europa di oggi. Sappiamo che la crisi dell’Europa ha una causa ben precisa: la perdita di competitività complessiva dell’economia.
Una perdita che risale agli anni Settanta. Fu allora che nella democrazia europea cominciarono a farsi spazio tendenze di natura populistica, tese a mantenere la coesione sociale attraverso l’ampliamento della spesa pubblica. Vi erano anche importanti ragioni politiche a dettare questa scelta. Non dimentichiamo che c’era, in Europa, l’esigenza di difendere il sistema stesso della democrazia dalla diffusione del terrorismo, all’intero e, all’esterno, dalle minacce che provenivano dai confini orientali. Ma è un fatto che quelle decisioni spinsero verso l’alto l’inflazione e portarono ad un’espansione enorme del settore pubblico. Gli anni ‘80 – anni di forte restrizione monetaria – hanno visto stabilizzarsi l’economia sul fronte dell’inflazione; ma ben poco è stato fatto per ridimensionare la presenza dello Stato – gestore e per ridurre la spesa, che anzi – per effetto delle nuove tendenze demografiche e delle crescenti aspettative dei cittadini – non hanno cessato di aumentare. La globalizzazione dell’economia e il Trattato di Maastricht hanno messo a nudo tutte le debolezze, le rigidità, le inefficienze di questo sistema. Maastricht, in realtà, è stato di più che un momento di diagnosi: Maastricht ha proposto una terapia basata su un grande disegno di riforma. Certo, per stimolare e favorire quella riforma ha posto dei parametri oggettivi. Ma da qui a considerare l’unificazione economica e monetaria come il trionfo della democrazia e come espropriazione della politica dalle sue responsabilità, ce ne corre. A nessuno è stato imposto di sottoscrivere il Trattato: come fu per la liberalizzazione degli scambi all’indomani della guerra, anche questa volta si è trattato di una libera scelta dei parlamenti nazionali, talvolta addirittura ribadita da referendum popolari, come è avvenuto in Danimarca, Francia, Austria, Finlandia e Svezia. Ma, al di là di questo, ciò che vorrei sottolineare è che non c’è stata espropriazione della politica neppure sul “come” arrivare alla moneta unica. Potevamo scegliere di rendere più efficiente e competitivo il sistema economico, sostenendo il risanamento attraverso lo sviluppo. Potevamo scegliere di risanarci incrementando la tassazione, comprimendo così la crescita. L’una e l’altra erano scelte politiche. Di fatto è stata vincente la seconda, anche se – a mio giudizio – è stata una vittoria di Pirro. Lo è stata perché, in ogni caso, la riforma strutturale del sistema economico e sociale solamente rimandata e probabilmente quando ci si dovrà porre mano sarà più – non meno – traumatica. Lo è stata, una vittoria di Pirro, perché conseguita scaricandole responsabilità del risanamento su Maastricht, e quindi indebolendo agli occhi dell’opinione pubblica il valore ideale e politico del disegno di unificazione. Che cosa vede, infatti, il cittadino in questa Europa che sta faticosamente prendendo forma? Vede un crescente rigore fiscale, peraltro non adeguatamente compensato da un ammorbidimento delle condizioni monetarie (che pure sarebbe stato possibile, oltre che necessario). Vede un drammatico aumento della disoccupazione a livelli che non si conoscevano dagli anni della Grande Depressione. Vede aumentare le pressioni per un cambiamento sotto emergenza- il peggiore! – del welfare. Ciò che non vede è il coraggio della responsabilità, è il coraggio di portare avanti cambiamenti profondi chiaramente finalizzati ad un obiettivo di sviluppo. L’evidenza è che le classi politiche nazionali non hanno saputo sfruttare l’opportunità di Maastricht per rimettere in moto l’Europa. Non lo hanno fatto, ma avrebbero potuto. E possono farlo. Ed è proprio su questa “possibilità” che avvertiamo il valore della democrazia e che recuperiamo il senso del confronto tra concezioni politiche diverse. Il mercato, poi, giudicherà – come sempre – i fatti. Ma questo non significa assolutamente che “mercato” sia sinonimo di “regime tecnocratico”, estraneo ai principi della democrazia. Semmai, il mercato è un mezzo in più per valutare la validità delle scelte politiche. Forse non sarà molto preciso nell’immediato, quando guarda più alle quantità che alla qualità degli interventi; ma nel medio- lungo termine, no: allora diventa un indicatore oggettivo che permette di cogliere gli errori, quando ci sono , e di correggerli. Ed è così che si offre come supporto, come aiuto ai cittadini perché possano definire a ragion veduta il proprio orientamento, le proprie decisioni per il futuro. Altro che globalizzazione che annichilisce la libertà! Semmai è vero il contrario: la aumenta, perché aumenta le possibilità di confronto e di scelta, per i beni e così anche per la politica.


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E poiché la politica continua ad avere un ruolo centrale nel determinare i nostri destini, vorrei fare un’ultima considerazione sulle sfide imminenti che l’attendono, soprattutto qui in Italia. Oggi, all’indomani delle elezioni francesi, c’è chi mette in dubbio che la moneta unica si faccia davvero. Al momento, ogni possibilità è aperta. Una cosa però credo vada detta. La moneta unica ancora non esiste, ma fa già sentire i suoi effetti. Pensiamoci: sotto lo stimolo di Maastricht, il nostro Paese è molto cambiato. In cinque anni, siamo scesi da oltre il 10 a circa il 3% di deficit. La proprietà pubblica di un vasto settore dell’economia non è più un tabù, ma ha cominciato a ridursi. Non abbiamo più scala mobile e automatismi di sorta. Con tutte le nostre imperfezioni, con tutte le nostre carenze non siamo più quelli di prima. Dal ‘92 in poi, quando eravamo davvero a rischio di bancarotta, abbiamo saputo muoverci nella direzione giusta perché c’è stato chi ha saputo prendere le decisioni necessarie. Giunti a questo punto del cammino, non possiamo smarrirci e vanificare tutti gli sforzi che abbiamo compiuto finora. Dobbiamo andare avanti con decisione per completare quel risanamento che solo ci può permettere di tornare a crescere, creare posti di lavoro. Personalmente, resto sempre del parere che, se un anno fa si fosse programmato per l’Italia un approdo alla moneta unica più graduale e quindi con minori sofferenze per l’economia e per i cittadini, sarebbe stato meglio. Ma oggi, al punto in cui siamo, dobbiamo fare di tutto per entrare in Europa con i primi. Guai a mollare anche di un millimetro, anche perché non mi risulta che sia stata predisposta alcuna rete di protezione in caso di una non possibile partecipazione dell’Italia fin dall’inizio. Andiamo avanti per la strada intrapresa. E, per quanto è nelle nostre possibilità, facciamo di tutto per dare credibilità e prospettiva al progetto di un’Europa unita di cui finora siamo stati l’anello debole. Ma sia chiaro: nessun automatismo ci metterà in mano l’Europa unita, bensì solo una classe dirigente coraggiosa, di grande respiro e di grande visione. Essa dovrà certamente dare risposta ad un forte bisogno di coesione sociale. Ma c’è modo e modo di mantenere la coesione. Tornare a puntare sull’intervento indiscriminato dello Stato sarebbe la via più sbagliata: per i costi insostenibili e per l’inefficienza che graverebbero, soffocandola, sulla crescita. Dobbiamo guardare ad altro: dobbiamo cercare di rimettere in moto tutte le forze vive del Paese, tutte le capacità imprenditoriali che abbiamo, applicandole anche alle attività sociali e dando a queste gli obiettivi, il modo di organizzarsi e di funzionare, l’efficienza dell’impresa. Le vere risorse su cui dobbiamo puntare stanno dentro la società. Ma non le potremo fare emergere se le chiameremo a raccolta attorno ad un progetto puramente monetario. Dobbiamo ridare un senso, un traguardo, vorrei dire un “anima” ai nostri sforzi. Dobbiamo recuperare la ragione dello stare insieme per realizzare uniti un progetto capace di rendere credibile la prospettiva dello sviluppo, di valorizzare le nostre potenzialità, di fare avanzare la nostra democrazia. Dobbiamo tornare ad indicare degli ideali, e a fare di essi un punto di riferimento forte. In fin dei conti, ciò che ha caratterizzato la democrazia liberale in questi cinquant’anni in Italia e in Europa, è stata la sua capacità di allargare la partecipazione politica al maggior numero di persone e di soggetti sociali e di aggregarli intorno a grandi ideali di liberalità e di progresso.

Questo è uno straordinario patrimonio di civiltà che non dobbiamo disperdere. La grande responsabilità della politica.

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