“CORRIERE DEL MEZZOGIORNO”

 

25 giugno 2002

 

 

Il Mediterraneo fragile illusione

La speranza di un “mare di pace”

 

 

di Massimo Galluppi

 

Malgrado la solennità dell’evento, la presenza di politici e diplomatici qualificati, la serietà dei discorsi e la sobrietà del cerimoniale, l’inaugurazione della Maison de la Méditerranée avvenuta a Napoli sabato 24 giugno induce ad alcune amare considerazioni. Sulla distanza che separa la rassicurante leggerezza delle parole pronunciate dalla terrificante brutalità delle notizie provenienti da Israele e dai «Territori Occupati». Su quanto sia fragile la speranza di un Mediterraneo «mare di pace», crocevia di culture diverse, di traffici e di condivisi disegni di crescita economica e civile. Sui limiti e le ambiguità di quello che nell’arido linguaggio dell’eurocrazia bruxellese si chiama il partenariato euro-mediterraneo, ovvero il negoziato tra i paesi delle due rive – Nord e Sud – del Mediterraneo che per il 2010 prevede la nascita di una grande area di libero scambio; premessa non necessaria ma possibile di una comunità economicamente integrata.

Limiti e ambiguità che riguardano, innanzitutto, il profilo politico del negoziato. Ossia, l’obiettivo dichiarato esplicitamente nel 1995 a Barcellona (e nell’aprile di quest’anno riconfermato al vertice dei ministri degli Esteri di Valencia) di sottoscrivere un patto multilaterale «di pace e sicurezza» nel Mediterraneo. Un obiettivo che per i governi europei significa essenzialmente lotta contro il terrorismo di matrice islamica per il quale, invece, i paesi arabi non sono disposti ad impegnarsi. Non perché non lo vogliano o perché non si rendano conto che il fondamentalismo è un pericolo anche per loro. Ma perché non possono farlo; non con i modi e nei tempi auspicati dagli Europei. Almeno non fino a quando la questione palestinese non troverà una soluzione soddisfacente. O fino a quando l’Europa non sarà in grado di interpretare una parte all’altezza delle sue ambizioni in questa tragedia. Una garanzia che gli Europei – privi di una politica estera degna di questo nome e incapaci di influire sulle decisioni di Israele e degli Stati Uniti – non sono in grado di dare. Possono – come hanno fatto a Valencia – condannare la politica israeliana e dimostrare la loro simpatia per Arafat. Tutte cose che non sono e non saranno mai sufficienti.

Più promettenti le prospettive del partenariato economico. Per sette lunghi anni il negoziato inaugurato a Barcellona non ha partorito granché, ma dopo l’11 settembre i governi europei (con una sottolineatura che non c’è nella politica americana) sembrano avere preso coscienza del fatto che il terrorismo si combatte innanzitutto eliminando le condizioni economiche e sociali che ne fanno una prospettiva politica credibile per le masse diseredate e le élites frustrate nel Terzo Mondo. In effetti questa percezione della realtà ha prodotto qualche risultato: sono stati siglati accordi che si trascinavano da lungo tempo (con l’Algeria e con il Libano). Si è data pratica attuazione agli impegni a suo tempo assunti con la Giordania. È stata coinvolta nel negoziato – seppure con il ruolo di osservatore – la Libia. Sono ripresi i contatti con la Lega Araba. A Bruxelles comitati di esperti studiano con rinnovato ardore le possibili conseguenze sociali dell’integrazione economica con l’Europa. E, così via.

Tuttavia le condizioni strutturali che rendono problematico lo sviluppo delle relazioni economiche tra le due sponde del Mediterraneo non sono cambiate. Per i paesi della riva Sud la zona di libero scambio prevista per il 2010 è una possibilità ma anche un rischio. Il loro tessuto produttivo è fragile e interi comparti artigianali e industriali potrebbero non reggere di fronte alla concorrenza delle imprese europee. È vero: la conferenza di Barcellona ha predisposto flussi finanziari e meccanismi di garanzia transitori che dovrebbero consentire un atterraggio morbido alle economie più esposte ai rischi dell’integrazione.

Ma non è detto che ciò che ha generato buoni risultati in Europa negli anni ’50 e ’60 possa funzionare in paesi caratterizzati da un alto livello di instabilità politica, da regole di mercato poco trasparenti, dalla voracità di burocrazie civili e militari onnipresenti e dall’assenza di una borghesia capace di affermare la propria volontà egemone. Per non parlate del fatto che, dopo il collasso dell’Impero sovietico, i paesi della riva Sud del Mediterraneo hanno perso per i mercati dell’Unione Europea parte della loro importanza a vantaggio del Sud-Est asiatico e dell’Europa orientale.

Detto questo, il dialogo euro-mediterraneo è una strada praticabile, una speranza reale, una cosa seria. La storia – si sa – è piena di sorprese. In ogni caso, dobbiamo apprezzare gli uomini e le donne di buona volontà che fanno ciò che è giusto fare anche quando i risultati della loro azione non sono scontati. Forse, nel mondo islamico contemporaneo le radici del fondamentalismo politico non sono così profonde come appaiono. Forse, a differenza di ciò che è stato in Irlanda per cattolici e protestanti, Israeliani e Palestinesi non avranno bisogno di altri «seicentocinquant’anni di lotta» (David Grossman) per convincersi che nessuno può vincere la guerra che stanno combattendo. Comunque sia, a coloro che hanno voluto a Napoli la sede centrale della Maison de la Méditerranée, onore al merito. Insieme con un augurio di buon lavoro, e di buona fortuna.