“Corriere della sera”

 

28 giugno 2002

 

 

Oltre i confini della vecchia Europa

 

di Predrag Matvejevic’

 

Confondere la civiltà europea con la civiltà universale è una tentazione ben nota in Europa. Dare a una realtà concreta e contingente un significato quasi assoluto è un errore comune. Europa dell’Est è stata una designazione più politica e ideologica che geografica e culturale, imposta dalla Seconda guerra mondiale e dalla Guerra fredda. L’Altra Europa è anch’essa una nozione mal definita, forse di proposito. Che cos’è altro in questa parte dell’Europa e che cos’è europeo in questa alterità? Nessuno ha risposto a questa domanda, non so nemmeno se sia mai stata formulata. Occorrerebbe pensare l’Europa prendendo in considerazione i valori della cultura e della civiltà che la caratterizzano. Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda a un tempo banale e imprescindibile: «Quale Europa?». L’abbiamo sentita, tante volte, in diversi contesti, dall’Europa del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht e dell’euro. Forse è utile rievocare alcuni termini in cui quella domanda era posta e salvare dall’oblio alcune idee dei nostri predecessori. Alcune di esse hanno conservato tutta la loro attualità: «L’Europa sarà seria o non sarà... Sarà più scientifica che letteraria, più intellettuale che artistica. Per molti di noi questa lezione sarà crudele». Così ci ammoniva Julien Benda nel suo Discorso alla nazione europea , scritto alla vigilia di una guerra che sarebbe stata europea prima di diventare mondiale. Potremmo modificare alcuni accenti di tali messe in guardia o apportarvi, nello stesso spirito, qualche aggiunta.

Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo mondo dell’Europa colonialista, meno egoista dell’«Europa delle nazioni», più Europa dei cittadini e meno Europa degli Stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Una Europa più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano (nel senso che i dissidenti dell'Est davano a questo termine) e meno capitalista senza volto.

L’Europa dei valori non permetterebbe che si chiedesse, per entrare nell’Unione Europea, di passare per la Nato: è un tipo di purgatorio che avrebbe rifiutato. E’ legittimo chiedere quale sarebbe l’«Altra Europa», che si trova di fronte a queste alternative. Nella maggior parte dei cosiddetti Paesi dell’Est il postcomunismo non è ancora riuscito a superare i regimi che si dicevano comunisti (...). Le transizioni di questi Paesi durano molo più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. Il cattivo odore dell’ancien régime ristagna ancora in molte zone. Si tratta di una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole.

Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia senza pervenire a fornirne un’apparenza appena credibile: tra passato e presente si determina uno iato, tra presente e avvenire si svolge l’ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione e un residuo di assoggettamento. Da più di otto anni, io chiamo questo non luogo ambiguo con il nome di «democratura». Vi si fanno spartizioni senza che rimanga granché da spartire. Si è creduto di conquistare il presente e non si riesce nemmeno ad avere ragione del passato. Vi nascono certe libertà senza che si sappia sempre cosa farne, rischiando di abusarne. In questi Paesi è stato necessario difendere un patrimonio nazionale - e oggi bisogna, in molti casi, difendersi da quello stesso patrimonio. Altrettanto dicasi per la memoria: si doveva salvaguardarla - ed essa sembra adesso voler punire quegli stessi che l’avevano salvata.
So bene che non si possono generalizzare queste constatazioni un po’ forzate: ciò che vale per l'Albania o per certe componenti dell’ex Jugoslavia, non può essere applicato allo stesso titolo per la Bulgaria, la Romania o la Russia. La situazione bulgara, romena o russa non è comparabile con quella dell’Ungheria, della Polonia o, soprattutto, con quella della Repubblica Ceca o della Slovenia. La Croazia si trova fra i due gruppi, dietro la Slovenia, prima della Serbia e il Montenegro, di una Macedonia esaurita o della Bosnia esangue. Io le auguro un avvenire degno di lei. Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera tragedia.
La Mitteleuropa è per sicuro uno spazio più sereno. Vi rimangono comunque le tracce e le cicatrici della storia moderna: i postumi della Guerra fredda, l’incertezza del postcomunismo, le identità incompiute e l’irritabilità delle coscienze nazionali, il timore di una nuova egemonia esercitata dai vicini unita a un sentimento di impotenza, la natura degli Stati che si sono appena formati e delle ideologie che si riaffermano, i conflitti nazionali o etnici che hanno infuocato i Balcani e che rischiano di estendersi: tutti questi fattori sono doppiamente legati al passato e al presente. Non bisogna stupirsi se a volte l’Europa centrale si abbandona ai ricordi malinconici, lottando con difficoltà contro il provincialismo che la minaccia, mal preparata a dare un nuovo splendore alle tradizioni di un tempo.