IL MATTINO

9 giugno 2005

 

 

Zhang Yimou «Porterò l’opera in America»

 

IL PREMIO ALLA CARRIERA

Il celebre autore di «Lanterne rosse» e «Hero» reduce da una «Turandot» a Parigi. «Mi piace il melodramma perché tocca il cuore della gente»

 

Di Titta Fiore

 

 


Qualche giorno fa Zhang Yimou, il grande regista cinese di «Lanterne rosse», «Hero» e «La foresta dei pugnali volanti», ha messo in scena nello stadio de France di Parigi una «Turandot» dai numeri impressionanti: quattrocento comparse distribuite sullo sterminato palco di quattrocento metri quadrati, quarantamila spettatori in una sola serata, tre milioni di euro di budget. E proprio lì, a Parigi, Zhang ha ricevuto anche il premio del Napoli Film Festival, il riconoscimento alla carriera che non avrà la possibilità di ritirare di persona, il 16 giugno. Pressato dagli impegni, infatti, il regista è già tornato a Pechino, al lavoro su nuovi progetti cinematografici, su nuove idee teatrali. E a fine giugno, racconta al telefono, porterà la sua spettacolare «Turandot» anche a Monaco, dopo averla allestita nella Città Proibita nell’88 e allo stadio olimpico di Seul nel 2002. Che cosa le piace del melodramma? «L’opera tocca il cuore della gente, commuove, focalizza l’attenzione degli spettatori sui sentimenti più che sulla trama, per questo m’interessa». Alla sua «Turandot» hanno partecipato l’orchestra e il coro del teatro Verdi di Salerno: com’è andata la collaborazione con i musicisti italiani? «Molto bene, sono stati bravissimi. Ho apprezzato il loro impegno». La prossima opera? «Non l’ho ancora scelta, ma so che l’anno prossimo vorrei allestirne una negli Stati Uniti. È da tanto che accarezzo questa idea, anche se per ora non c’è niente di concreto». Lei ha esordito nella regia lirica al Maggio Fiorentino, qualche anno fa. Ha nuovi progetti di questo tipo? «Non ho progetti in Italia, purtroppo. Forse in futuro potrei lavorare a un film con attori italiani, ne conosco alcuni che mi hanno favorevolmente impressionato». Quali? «No, i nomi non li ricordo, ho un cattivo rapporto con la memoria. Però è molto probabile che nel mio prossimo film ci saranno sia attori orientali che occidentali». Lei ha rivisitato il genere arti marziali con «Hero» e «La foresta dei pugnali volanti» rilanciandolo in Occidente e trasformandolo in un successo internazionale. Continuerà su questa strada? «È arrivato il momento di cambiare. Nel prossimo film racconterò la nuova Cina, di quella vecchia mi sembra di aver parlato fin troppo. E non mi piace ripertermi. Ora vorrei affrontare la realtà contemporanea delle grandi città, temi come le crisi generazionali o i problemi che affliggono i giovani. E in questo non sono certo il solo». Il nuovo cinema cinese punta sul sociale? «Molti registi, dal 2000 in poi, hanno cominciato a mostrare sullo schermo la realtà del paese. Mi sembra un fenomeno interessante. Ad esempio si vedono, nei film prodotti negli ultimi anni, giovani vittime della droga o dell’alcol, ragazzi che entrano in contatto con le culture e le mode occidentali e ne subiscono le influenze... Si racconta anche il malessere e la voglia di evadere». Il cinema occidentale non gode di buona salute, mancano i fondi quanto le idee e spesso ci si rifugia nei sequel per paura di rischiare sul nuovo. Il cinema orientale, invece, è molto propositivo ed effervescente e si condede il lusso, come ha fatto lei negli ultimi film, di mescolare musical e arti marziali, effetti speciali e tradizione. «E infatti io dovrei ringraziare chi mi ha preceduto rendendo le arti marziali un genere e una garanzia di successo. Quanto all’interesse di oggi per questo tipo di racconto epico, che dire... Forse, molto banalmente, il pubblico occidentale si appassiona a temi e a culture che non conosce. Per fortuna».