10 febbraio 2005
di Massimo Galluppi
Il settimanale Time lo ha
classificato tra i cento intellettuali più significativi del 2003, definendolo
uno dei “più autorevoli pensatori islamici della seconda e terza generazione di
immigrati musulmani in Europa. Per Bernard-Henri Lévy – il più noto e mediatico
degli intellettuali francesi – è, invece, un ipocrita esperto del “doppio
linguaggio”, lucido, attivo, medotico, “ben deciso a utilizzare tutti i mezzi
di cui dispone” per favorire la conquista e l’islamizzazione “a tappe”
dell’Europa (Le Point, del 28 ottobre 2004). L’oggetto di un giudizio così
controverso è Tariq ramadan (42 anni, cittadino elvetico, nato e cresciuto a
Ginevra da padre egiziano emigrato in Svizzera per ragioni politiche,
professore di Filosofia e di Islamistica all’Università di Friburgo) che oggi
sarà a Napoli per partecipare alla seduta del Comitato Scientifico
Internazionale della Fondazione Laboratorio Mediterraneo. Va detto, a scanso di
equivoci, che il comitato è composto da diciotto membri, molti dei quali
(Ramadan è fra questi) scelti tra i membri del Gruppo dei saggi designati a suo
tempo dalla Commissione europea per definire le linee del dialogo
euro-mediterraneo delle culture e che il suo presidente è John Esposito,
fondatore e direttore del Center for Muslim-Chiristian Understanding University.
Il chi, tuttavia, non risolve il problema di chi sia realmente Tariq Ramadan.
Negli Stati Uniti Ramadan è
centrato nell’inchiesta, promossa dalle famiglie delle vittime dell’attentato
al World Trade Center, per i suoi presunti legami con Al Qaeda, ma finora
nessuno dei fatti di cui è accusato è mai stato provato. La controversia sul
suo nome è, però, esplosa dopo che il Department of Homeland Security
gli ha negato il visto d’ingresso, imponendogli di assumere la cattedra
offertagli per un anno dalla prestigiosa università Notre Dame di Chicago. Sia
negli Stati Uniti che in Francia, dove la sua popolarità fra la gioventù di
origine magrebina è enorme, sulla persona di Ramadan pesa il fatto di essere il
nipote Hassan al-Banna, fondatore nel
1928 del primo, importante movimento islamista, quello dei “Fratelli Musulmani”
e di avere un fratello dalla personalità molto discussa, segnalatosi per la
perfezione ad un libro favorevole alla lapidazione delle donne adultere.
Ramadan ha, però sempre negato di considerarsi l’erede spirituali dei “Fratelli
Musulmani” o di avere contatti con ciò che resta di quel movimento. Quanto al
fratello non vi è nessuna prova che egli ne condivida le idee estremiste. Un
test della serietà delle accuse che in Francia gli sono state rivolte si può
ricavare dalla condanna per diffamazione comminata ad un giornale di Lione che
lo aveva definito una persona “in apparenza inoffensiva ma in realtà molto
pericolosa” basandosi sul fatto – questa era tra le prove una delle più
consistenti - che un giovane islamista
arrestato nel 2002 aveva seguito con assiduità le sue conferenze.
Tuttavia non vi è solo questo.
Nell’ottobre del 2003 Ramadan ha pubblicato sulla rivista on line, Oumma.com,
un articolo, Critique des (nouveaux)intellectuels communautaires, che
rifiutato sia da Le Monde che da Liberation, attaccava un gruppo
di se stimati intellettuali francesi, tutti classificati come ebrei (anche se
uno di loro non lo è affatto) e tutti accusati di avere accantonato il loro
conclamato universalismo per concentrarsi su “analisi sempre più condizionate
da un’intenzione comunitaria” ignorando sistematicamente tanto “la politica
repressiva dello Stato di Israele” in Palestina, quanto “le discriminazioni che
subiscono i loro cittadini musulmani” in Francia.
Un’accusa – fondata sull’assunto
che degli intellettuali francesi decidano le loro posizioni politiche in quanto
ebrei – che ha fatto scandalo perché ha riproposto un’immagine dell’ebreo che
la coscienza europea contemporanea associa alla propaganda nazista. Il tutto
reso più evidente da alcuni passaggi che sembrano evocare le argomentazioni –
sistematicamente fondate sulla menzogna o su relazioni causali mai dimostrate –
della destra nazista europea da cent’anni a questa parte. Come quando Paul
Wolfowitz – definito “sionista notorio” – viene elevato al rango di
“architetto” della strategia americana in Iraq, o quando B.H. Lévy viene
bollato come un sostenitore della guerra alla quale invece si è sempre opposto.
Oppure quando il suo libro sull’assassinio del giornalista americano (e ebreo)
Daniele Pearl e sul probabile coinvolgimento dei servizi segreti pakistani nel
suo rapimento viene presentato come “una campagna contro il Pakistan, uscita
dal nulla e quasi anacronistica”, comprensibile soltanto se la si collega nel
contesto della strategia politico-diplomatica israeliana volta a promuovere
un’alleanza tra Israele e l’India.
Va subito detto che Ramadan
rifiuta nel modi più deciso sia l’accusa di antisemitismo che quella di essere
un fiancheggiatore dell’estremismo islamico. E lo fa con argomentazioni
chiarissime che contrastano nettamente con l’ambiguità con la quale per decenni
molti intellettuali della sinistra europea hanno cercato di conciliare la loro
fede nel comunismo con la lealtà verso le istituzioni della democrazia
parlamentare. Non vi è un tema fra quelli che caratterizzano l’odierno
dibattito politico e culturale sull’Islam si cui Ramadan, nelle varie
interviste rilasciate a giornali o riviste europee e americane, non abbia
assunto una posizione che anche un liberale doc considererebbe “politicamente
corretta”: condanna dell’antisemitismo e di ogni forma di razzismo,
riconoscimento del valore irrinunciabile del pluralismo, rifiuto della violenza
come strumento di lotta politica e del
terrorismo, negazione di ogni visione del mondo avvelenata dalla
contrapposizione delle religioni e delle culture, obbligo per i musulmani che
vivono in occidente di rispettare lo Stato laico e le sue leggi, compresa
quella francese sul velo anche se non condivisa, e così via. Naturalmente resta
irrisolto il problema del doppio linguaggio. Anche se egli respinge nel modo
più categorico questa accusa, è possibile che Ramadan parli in un modo con
l’élites intellettuali dell’Occidente e in un altro con i giovani francesi di
origine magrebina delle periferie francesi. Lo sostiene Caroline Fourest, in un
libro di 420 pagine ( Frére Tariq) costruito utilizzando le
registrazioni dei suoi discorsi nel quale si afferma che il suo Islam non è
quello moderno di cui discute con i suoi interlocutori occidentali ma un Islam
“fondamentaliste e reazionario” di cui alimenta la crescita a detrimento di
quello moderato e liberale.
Questa la situazione. Il
problema è se, in assenza di prove circostanziate, questi comportamenti (veri o
presunti) possono essere interpretati come un servizio reso al terrorismo
islamico. Se non sia vero che la “doppiezza” di Ramadan sta nell’ambiguità che
un intellettuale che fa politica assume nel momento in cui, rivolgendosi al suo
“popolo”, ne valuta i sentimenti e le emozioni. Se è giusto pretendere da lui
che tenga conto del contesto in cui l’ebraismo europeo ha vissuto negli ultimi
cento anni senza chiedere agli intellettuali francesi da lui chiamati in causa
di non ignorare il contesto nel quale egli si muove quando parla ai giovani
arabi che vivono in Europa e si confronta con il senso di frustrazione che
avvelena la loro vita di emarginati e con la loro difficoltà a capire la natura
dei legami che legano l’Occidente a Israele. In tutto questo vi è almeno una
parte della complessità che rende il dialogo tra l’Europa e il mondo arabo islamico
così difficile ed è per questa ragione che è bene che di questo dialogo faccia
parte – come coraggiosamente ha stabilito la Fondazione Laboratorio
Mediterraneo – anche un intellettuale e un politico come Tariq Ramadan.