IL DENARO

11 febbraio 2005

 

 

 

L’Islam di Ramadan

di Donatella Trotta

 

Donatella Trotta Tariq Ramadan ama definirsi un «musulmano europeo» (per parafrasare uno degli ultimi titoli dei 21 libri che ha pubblicato). Vale a dire, uno che usa citare spesso il proprio caso come esempio paradigmatico di quella «identità multidimensionale o multipla», figlia della contemporaneità, che egli ravvisa come unica prospettiva contro le identità «chiuse e predefinite, trappole culturali che portano ad essere ghettizzati», dice. Brillante icona di una modernità liquida o fluida, islamista svizzero poliglotta, classe 1962, origini egiziane (suo nonno materno, Hassan al-Banna, fondò nel 1928 il movimento dei Fratelli Musulmani), doppia appartenenza culturale con le sue lauree in teologia islamica e letteratura francese e due dottorati di ricerca (di cui uno con una tesi su Nietzsche), Tariq Ramadan è nato e cresciuto a Ginevra, dove vive con moglie e quattro figli e insegna, girando nel contempo il mondo come maitre-a-penser - molto controverso all’interno della cultura e della politica interculturale contemporanea - esponente di un riformismo islamico «non razionalista, ma fedele ai testi sacri tenendo conto del loro contesto, che varia col tempo e con le culture. Perché a mio avviso - precisa lui - non c’è fedeltà al testo, o fede, senza movimento o evoluzione». Ieri, Ramadan era a Napoli, ospite della Fondazione Laboratorio Mediterraneo-Maison de la Méditerranée per l’avvio di un progetto quinquennale di cooperazione euromediterranea che ha riunito una ventina di interlocutori stranieri e italiani impegnati a confrontarsi sul tema «Mediterraneo, Europa e Islàm: attori in dialogo». Già molti anni fa due studiosi, Dassetto e Bastenier, vedevano l’Islam come «nuova frontiera dell’Europa». Oggi si discute di Euroislàm, o Umma europea del XXI secolo. Lei preferisce parlare di «rivoluzione silenziosa dei musulmani europei». Cosa intende? «Gli europei devono capire che l’Europa, negli ultimi 20 anni, è molto cambiata, costringendo a ripensare la propria identità. L’Islam, con i suoi circa 17 milioni di musulmani solo in minoranza praticanti, è diventata la seconda religione del Vecchio Continente. Ed è così in atto una rivoluzione intellettuale nel modo di percepire la propria appartenenza culturale e religiosa, in quel nuovo contesto che io chiamo cultura islamica europea: nella quale i musulmani, non più semplici immigrati ma cittadini europei a tutti gli effetti, si sentono a casa in Europa e ne rispettano le leggi eppure sono anche pienamente musulmani. Abbiamo una responsabilità condivisa di fronte a questo dato, che può essere visto come pericolo se non si ha fiducia nell’Islam, o come opportunità, se si crede nella ricchezza delle diversità». Nei rapporti con l’Islam, sull’immaginario collettivo occidentale pesano però come macigni eventi come l’11 settembre 2001, la strage di Bali, di Madrid e della scuola di Beslan e, ora, il rapimento in Iraq di Giuliana Sgrena. Lei come giudica questi fatti? «Li condanno in modo inappellabile, pur distinguendo la diversità dei contesti. La violenza, i rapimenti, gli attacchi suicidi non sono giustificabili per nessuna ragione, nel nome della religione islamica: sono un tradimento del suo messaggio. Ma proprio nel nome di quel messaggio bisogna anche andare alle fonti di un problema globale, dando spazio a voci che altrimenti urlano e risposte a domande di giustizia sociale, democrazia, tutela dei diritti politici minimi. Dobbiamo insomma essere tutti più coinvolti, dentro e fuori dell’Islam, perché anche il silenzio può generare violenza. Per questo, attualmente, sto collaborando con ”Il Manifesto” per la soluzione del caso Sgrena, inaccettabile sia a opera di gruppi militanti politici che di sciacalli in cerca di denaro». Ma su quale terreno secondo lei si può giocare in Europa la partita del dialogo, rispetto a nodi reciproci come la modernità e la secolarizzazione? «Il mio punto di vista è che la modernità non appartiene a nessuna specifica civiltà in particolare, ma è quella capacità di fronteggiare le sfide dei tempi tutelando i diritti essenziali delle persone: libertà di coscienza, culto, espressione, parola; giustizia; suffragio universale; sovranità dello Stato di diritto, ecc. Il problema allora non è quello dell’integrazione tra due modelli contrapposti, con un’identità che deve inglobarne un’altra, ma semmai di intersezione di valori comuni e principi universali, trovando ciascuno all’interno della propria tradizione le soluzioni per risolvere i problemi posti dalla contemporaneità. Il rispetto di quei valori e principi è il terreno possibile da condividere. Il mio compito, fare da ponte tra queste realtà in modo aperto, inclusivo e non esclusivo, presupposto al dialogo». Uno degli equivoci dell’approccio culturalista alle diversità è l'accettazione dell’intollerabile, come la lapidazione delle adultere, l’infibulazione e le violenze sul corpo femminile. Qual è il suo impegno su questo? «Sto preparando una moratoria internazionale contro le punizioni corporali, la lapidazione e la pena di morte per portare a piccoli passi certe comunità islamiche, convinte che tutto ciò sia prescritto dai testi sacri, a un cambiamento di mentalità. È un cammino pedagogico lento ma necessario, perché al di là di alcuni temi facilmente condivisibili ci sono terreni come queste questioni dove è difficile trovare un accordo comune». Suo fratello Hani, direttore di un discusso Centro islamico a Ginevra, ha un approccio diverso. Lei stesso è stato accusato in Francia di antisemitismo e il Dipartimento americano per la sicurezza le ha di recente revocato il visto di ingresso in Usa per presunte «relazioni pericolose» con al Qaeda. Qual è la sua posizione? «Con mio fratello dissento radicalmente su moltissime questioni, ma la consanguineità ci permette almeno di dialogare. I francesi sono ossessionati da una percezione postcoloniale dell’Islam che li spinge a visioni fantasmatiche, che mi etichettano come il guru degli immigrati delle periferie quando il mio pubblico di riferimento è tutt'altro che marginale, ma sono studenti e professori che vengono ad ascoltare le mie conferenze. Il problema sono le pressioni politiche e i pregiudizi, che pesano anche nel caso americano: una vergogna, esecrata dalla comunità accademica internazionale come un attentato alla libertà di pensiero. A tutt’oggi (e sono passati sei mesi da quel diniego) non c’è uno straccio di prova sui fatti contestatimi, negati peraltro dall’Intelligence svizzera: non ho mai avuto rapporti con al Qaeda e i suoi membri, mai conosciuto Osama bin Laden né organizzato incontri con i suoi vertici. Il fatto è che critico la politica israeliana di Sharon, sono sempre stato contro la guerra in Iraq e tutto questo dà fastidio».