IL MATTINO

24 febbraio 2005

 

Il Mediterraneo...

 

 


Ma allo stesso tempo le unisca, anche se quest’unione va compiuta con l’aiuto dell’immaginazione. Le città del Mediterraneo si danno forza le une con le altre. Non solo perchè si somigliano, ma perché a ognuna manca qualcosa che l’altra ha. Non sono città compiute, hanno bisogno che le si completi temporaneamente nella mente prensile di viaggiatori e di esuli. Ecco perché queste città attraggono chi lavora con l’immaginazione. Ma com’è difficile raccontarle, se davvero ci si prova! Quanto è difficile trovare l’equilibrio tra lo sguardo dell’autoctono e quello dello straniero. Solo se le si conosce avendone scontato sulla propria psiche la difficile povertà e nel contempo le si rimane distanti ad almeno un centimetro di estraneità, solo allora forse si avrà qualcosa di reale da raccontare. Cosa dire, ad esempio, delle tante abitazioni malconce, le une sulle altre, senza spazio, stratificazione su stratificazione, spesso ignare del mare non lontano. Eppure umane, a volte troppo umane, colme di storie violente e amorose. Il Mediterraneo e le sue città sono sempre più all’ordine del giorno. Il Mediterraneo delle illegalità palesi e sconfortanti, delle guerre (soprattutto di quella arabo-israeliana, fonte e focolaio di molte altre) e dei soprusi; ma anche il Mediterraneo degli scambi, delle navi che partono, del mare che accoglie sia i vivi sia i morti. Grande pietà del mare, che dà sepoltura liquida ai corpi dei disperati, di chi non è riuscito a toccare con i propri piedi stanchi la costa ed è affogato nel lento strapiombo dei fondali come in una misericordiosa bara comune. Le città del Mediterraneo, e Napoli in prima linea, sono città del paradosso. Vi si uniscono l’arretratezza e lo slancio della conoscenza, lo squallore e la bellezza. Sono città dove il tempo può fermarsi o mettersi a correre, immote e piene di destrezze. Città più dense che porose, pullulanti di aggressivi e mortali vicoli ciechi. Per comprenderle non bisogna averne paura, anche se la paura è legittima. È inutile fargli il contropelo, è necessaria semmai un’arte paziente dell’ascolto. Quanto quest’arte sia praticata e praticabile è sempre il tempo e il desiderio degli uomini e delle donne a stabilirlo. Di certo, una città come Napoli ne ha un bisogno assoluto. Fa quindi piacere che Galassia Gutenberg abbia scelto come tema di discussione generale della sua sedicesima edizione proprio il Mediterraneo. E fa piacere che l’università Orientale, scrigno d’ingegni ancora tutto da conoscere e da mettere a disposizione della città, abbia contribuito a dare un fondamento bibliografico al tema, indicando cento libri utili a meglio comprenderne le rotte. Non c’è che applaudire e dire: finalmente! Infatti, se c’è un futuro possibile dell’Europa - un futuro circolare - questo futuro è legato a quanto le coste e le città mediterranee conteranno nella composizione complessiva dell’Unione europea. Adesso, però, l’arte dell’ascolto bisogna praticarla davvero, mettersi al lavoro sul serio, e soprattutto sapere collaborare e rendere comuni e disponibili forze e conoscenze. Abbiamo un disperato bisogno di condivisione. Anche per riuscire a raccontare storie veritiere, che ridiano dignità a noi stessi e ai luoghi che abitiamo, storie che intreccino il tessuto connettivo delle comunità e che mescolino con libertà le etnie e le religioni. Le navi devono moltiplicarsi, le strade liquide del mare slanciarsi nella connessione implicita e invisibile. Gli orizzonti devono slargarsi. E soprattutto le domande mediterranee - le domande di un auspicato Mediterraneo della cultura - devono essere poste con precisione. Elias Khuri, direttore del supplemento letterario del quotidiano libanese «an-Nahar» (suoi scritti sono in catalogo da Einaudi e Mesogea), ne suggerisce due: «Possiamo chiedere all’Europa mediterranea di rinunciare ai suoi fantasmi colonialisti? Possiamo chiedere al mondo arabo di rinunciare alla sua paura e alle sue diffidenze?». Si tratta, ricorda, di due vecchie domande che aspettano una nuova risposta. E ricorda quel che ha annotato Farouk Mardam-Bey : «I politologi finiranno col dover riconoscere che ciò che avvicina di più noi mediterranei non è, o non è ancora, la ricerca di interessi comuni, ma la convinzione assoluta, definitiva, radicata in ciascuno di noi, che non c’è altro olio che l’olio d’oliva». Bisogna prenderla come una battuta paradossale o come la semplice constatazione di un’evidenza? Da sempre, il Mediterraneo è stato l’elemento liquido che unisce le terre. Ricordiamocelo. Come mediterranei del Sud dell’Italia, tutti dobbiamo lavorare perché anche l’ancora delle nostre città siano già levate. E perché le città-navi siano pronte alla navigazione, dentro e fuori di sé. Silvio Perrella