IL MATTINO

03/09/2006

 

Il risveglio del mondo arabo

di Antonio Badini

 

Ci vorrà tempo prima di poter compiutamente valutare le conseguenze del conflitto in Libano ma non è azzardato affermare che le onde lunghe del cataclisma modificheranno verosimilmente lo status quo. I paesi che, come l’Italia, condividono con l’area interessi di sicurezza si stanno muovendo per far emergere le ragioni del dialogo. Il nostro governo ha saputo sinora più degli altri compiere con tempestività i passi corretti e si è candidato a svolgere non solo in Libano ma nell’intera regione una robusta funzione stabilizzatrice. La sfida è grande. Occorrerà uno sforzo continuo e capillare per influire sulle forze in campo e orientare gli sviluppi verso sbocchi gestibili sul piano politico. E tuttavia le premesse appaiono incoraggianti. Innanzitutto si è messo un freno alla marginalizzazione dell’Onu rispetto alle dinamiche di crisi mediorientale. La riconquistata centralità delle Nazioni Unite restituisce maggiore spessore alle prospettive di soluzioni negoziate delle controversie all’origine dei lutti e delle distruzioni che hanno turbato profondamente la coscienza mondiale. Solo l’Onu può infatti conferire legittimazione all’intervento esterno, incluso l’uso dello strumento militare. Sono ormai sotto gli occhi di tutti i grossi limiti dell’unilateralismo, dimostratosi inadeguato a imbrigliare «le forze del male» e a circoscrivere le crisi. Battono poi il tempo le dottrine sul cambio di regime e la cosiddetta democrazia globale, un processo certamente assimilabile, ma non sulla base di ricette preconfezionate, avulse dalle realtà socioculturali dei paesi destinatari. Altro fattore suscettibile di incidere favorevolmente è la decisione del governo libanese ad applicare integralmente la risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza con la concomitante richiesta che le altri parti coinvolte facciano altrettanto. Dopo oltre trent’anni, l’Armée del Paese dei Cedri torna a riassumere, sia pur gradualmente e col sostegno dei nuovi caschi blu, il controllo del territorio alla frontiera con Israele, sinora presidiata dalle milizie di Hezbollah. Il primo ministro Siniora si è inoltre impegnato a completare l’attuazione dell’accordo di Taef che prevede lo scioglimento di tutti i gruppi militari. È una misura che si indirizza in realtà solo al «partito di Dio», che è rimasta l'unica milizia a non aver ancora deposto le armi. Ma è anche di buon auspicio la decisione presa in questi giorni da Al Fatah, il maggiore partito storico palestinese, di accogliere il principio della formazione di un governo di unità nazionale con Hamas. Occorrerà ora trovare una formula accettabile sul riconoscimento di Israele da parte del partito fondamentalista, che apra la strada alla ripresa del dialogo di pace israelo-palestinese. E qui l’Italia, che con la sua strategia della «equivicinanza» gode della fiducia delle due parti, potrà svolgere un ruolo determinante offrendo la prospettiva di un pronto rilancio del «Quartetto» (Stati Uniti, Unione Europea, Nazioni Unite e Russia) ormai da lungo tempo in sonno. Niente sarà facile né scontato. E tuttavia, a ben guardare, al buon esito degli sviluppi in corso non vi è alternativa. Ecco perché si sta facendo strada la convinzione che un dialogo rafforzato, esteso gradualmente alla Siria e all’Iran, sia il solo antidoto al contrasto di chi, col ricorso al terrorismo, si pone l’obiettivo di sovvertire l’ordine internazionale. Sappiamo che ancora molti analisti propugnano la legge del taglione come la sola in grado di debellare il flagello della violenza e di far intendere al radicalismo islamista la voce della ragione. E tuttavia l’osservazione storica legittima più di un dubbio sulla congruità di siffatto approccio. Intanto ricordiamoci che dopo l’attentato alle Torri gemelle, che ha segnato una sorta di spartiacque tra l’azione politica e un rinnovato impulso ideologico nella gestione delle relazioni internazionali, si era a un passo dalla costituzione di una grande coalizione contro il terrore. Fu quasi generale all’indomani dell’11 settembre 2001 la sollevazione di riprovazione e di condanna, compresi l’Iran di Khatami e la Siria di Bashar, nei confronti di quella che apparve subito come la madre delle organizzazioni terroriste, cioè Al Qaida. Poi gli eventi presero purtroppo una piega diversa per ragioni che qui sarebbe troppo lungo evocare. Ma quel seme della convergenza forse non si è ancora inaridito. Di fatto avremmo tutti un gran bisogno che finalmente attecchisse. Da quel lontano 11 settembre le cose non sono andate sempre bene e tutto sommato il mondo non sembra oggi più sicuro di allora. Sono sorte decine di nuovi movimenti islamisti, che nulla hanno in realtà a che vedere con il vero Islam, che predica la tolleranza e la convivenza. Sono movimenti anarchici, usati e gettati dai «grandi vecchi» che talvolta li trattengono e se ne servono nel quadro di una contesa mondiale in cui si è affievolita l’etica della politica e sono di nuovo consentiti i colpi sotto la cintura. Se molti di questi gruppi sono votati esplicitamente alla violenza ve ne sono alcuni che la rigettano formalmente proponendosi però di radicalizzare il mondo musulmano. E ciò mentre salgono dalle istanze più avvertite della società islamica ben altri propositi, come quello lanciato negli scorsi giorni dal Nobel della Chimica, l’egiziano Ahmed Zewail, il quale ha esortato il mondo arabo a riappropriarsi della sua grande tradizione di civiltà per partecipare con spirito critico alla crescita del sapere e del progresso mondiali. Zewail non è certamente solo. Chi vive nelle società islamiche è testimone giorno per giorno dell’impegno civile e religioso per l’avanzamento delle riforme e l’affermazione dei valori della tolleranza. Può non avere torto chi sostiene che, quando i fenomeni non sono percepibili a distanza vuol dire che procedono troppo lentamente. Ma non è facile accelerare il ritmo del cambiamento quando l’orizzonte della regione è offuscato da così tanti rischi e pericoli. Aggiungere crociate non farebbe che precipitare la situazione dando un forte aiuto a coloro che sono chiusi al dialogo e ai processi di integrazione economica e di apertura politica. Le forze del cambiamento in realtà ci sono e battono colpi, ma l’Occidente non fa abbastanza per ascoltarne la voce. Naguib Mahfuz, Nobel della letteratura, scomparso a 94 anni in questi giorni, sosteneva che il «diverso» è come il «nuovo», cioè arricchisce e induce a vedere in noi se non ci sia qualcosa da migliorare. L’autore della «Trilogia», una saga di 1500 pagine, non si piegò mai alle intimidazioni. Mantenne la schiena dritta quando «Al Ahrar» censurò nel 1959 i «Ragazzi della Medina» e continuò a declinare la condivisione dei valori con l’Occidente anche dopo che un fanatico nel 1994 lo pugnalò alla schiena paralizzandogli la mano destra. Oggi ben pochi contestano l’eredità di Mahfuz, che al suo funerale ha avuto gli onori di stato. Così come pochi contestano il retaggio di Edward W. Said, autore del celebre saggio «Umanità e Democrazia», che è anche il suo più autentico testamento intellettuale. Said poneva lo spirito critico alla base del risveglio del pensiero arabo dandogli in tal modo l’autorevolezza per stigmatizzare le negligenze e le disattenzioni dell’Occidente sulle sofferenze del popolo palestinese. Si può ammettere che la letteratura non è sempre stata neutra o innocente rispetto alle passioni umane senza tuttavia arrivare a negare che nelle sue diverse espressioni, inclusa la poesia, essa ha saputo fungere a un tempo da bacino e fucina dell’universalità dei valori umani. Sono le vicende umane, di cui essa è eco e specchio, che hanno formato le grandi tradizioni e i modelli culturali e con essi la consuetudine, talvolta ispirata dai testi sacri, consuetudine che oggi sostiene, e spesso va oltre, il diritto positivo. Di qui l’importanza dell’impegno della classe intellettuale, degli studi comparati, del confronto continuo e aperto fra gli scrittori e i poeti delle due rive del Mediterraneo nel segno del protagonismo dell’uomo come autore della Storia. Chiunque creda nel dialogo deve poter sperare in una nuova rinascita congiunta del contributo arabo-islamico e della tradizione giudeo-cristiana al sapere umano e al patrimonio condiviso dei valori. Spetta a chi ha fiducia nel dialogo svolgere sulle due rive un compito di chiarimento e di divulgazione delle verità storiche, avendo tra l’altro a mente l’equazione verum/factum di Giambattista Vico. Si sa che cultura e società per quanto strumenti potentissimi non sono sufficienti a portare la pace e la stabilità nella regione. Le società civili possono tuttavia svolgere un ruolo importante con iniziative sinergiche all’azione dei governi. La conquista della fiducia è fondamentale per de-ideologizzare la politica e propiziare i processi di pace. Ognuno deve fare la sua parte e assumere le sue responsabilità. Fiducia! Ecco la chiave di volta per la conciliazione nel Mediterraneo. Comportamenti coerenti che la sorreggano, comprensione per le paure altrui e per gli errori che esse generano, ricerca degli interessi condivisi per un equo miglioramento delle condizioni di vita e delle aspettative di progresso, sono altrettanti pilastri della sicurezza politica, non quella basata sul gigantismo degli arsenali. Abbiamo visto i limiti della dissuasione militare, che non ha impedito l’aggressione alle forze israeliane da parte di Hamas e Hezbollah. Non sarebbe allora il momento di trarre le corrette decisioni? Il livello degli armamenti dipende dalla percezione della minaccia. Ma non si può sperare che misure di fiducia di ambo le parti, israeliana e araba, con l’intervento dei paesi amici che, come l’Italia, condividano gli interessi di sicurezza nella regione e i grandi valori della solidarietà umana, del progresso morale e della democrazia, possano correggere la percezione della minaccia e spingere attraverso una pace negoziata verso la costruzione di un futuro di fruttuosa convivenza? (L’autore è ambasciatore italiano in Egitto).