IL MATTINO

31/08/2006

 

Addio Mahfuz, voce dell’Egitto

di Pietro Treccagnoli

 

Il Nobel a Nagib Mahfuz inaugurò un momento magico per la letteratura non occidentale. Era il 1988, e fino ad allora tutto quanto non provenisse dall’Europa (Est e Russia compresa) o dal Nordamerica era archiviato alla voce esotismo. Perlomeno in Italia, perché altrove si era meno provinciali. Comunque sia, il premio allo scrittore egiziano, al quale si accompagnò il francese Goncourt al marocchino Tahar Ben Jelloun, aprì la mente alla nostra editoria sonnecchiante. Da allora del narratore cairota sono stati pubblicate dozzine di volumi. Un fiume in piena, come il suo Nilo. E trattandosi, all’inizio, di un Carneade, si sprecarono paragoni con i maestri della letteratura ottocentesca, tra i quali il più azzeccato fu quello di Dickens delle piramidi. Di fatto, l’importanza di Mahfuz è tutta nel rinnovamento della letturatura mediorientale, a colpi di realismo e intensa coralità. Lo scrittore, morto ieri a 94 anni, per i postumi di una caduta avvenuta a metà luglio, è stato l’importatore di modelli che rompevano le consuetudini dei narratori arabi che non erano andati molto più in là della novellistica e della poesia epica o religiosa. Alla fine degli anni Quaranta, quando mezzo pianeta cominciava a liberarsi dal colonialismo, Mahfuz impose, con successo, romanzi rivoluzionari per il mondo islamico e tradizionali (con qualche spruzzata, ovviamente, di esotismo) per l’Europa. Esemplari sono le prime pagine di uno dei suoi libri più famosi, Vicolo del Mortaio (del 1947, edito in Italia da Feltrinelli): in un bar della stradina cairota arriva la prima radio del quartiere e il vecchio cantastorie è costretto a sloggiare. È la modernità che viene dall’altra parte del Mediterraneo, come una piacevole e problematica invasione, e costringe una società in decadenza a uscire dal suo guscio protettivo ma incocludente. Il lungo successo popolare di Mahfuz rimase racchiuso nel mondo arabo e costruito con romanzoni sfornati uno dietro l’altro (dopo le prime opere degli anni Trenta, ispirate all’epoca dei faraoni), tra i quali Il caffè degli intrghi, la sua prima opera edita in italiano dalla salerninana Ripostes. Il culmine della sua opera è universalmente ricosciuto nella cosidetta Trilogia del Cairo (Il palazzo del desiderio, Tra i due palazzi e La via dello zucchero, tutti editi dal napoletano Pironti) che risale a metà degli anni Cinquanta del Novecento e narra delle vicissitudini di una vasta famiglia: il padre-padrone (ma buono), la madre succube (e dolcissima), i figli persi tra la ribellione e il falso moralismo. La Trilogia, come tanti altri libri di Mahfuz girano tutti attorno a temi eterni: l’amore, la famiglia, la fuga, l’amicizia, declinati e ampliati nelle forme che solo la voce di Sharazad sa moltiplicare. Tranne qualche raro romanzo, tutti i suoi libri sono ambientati al Cairo, unica grande passione dello scrittore, che non lasciò la capitale egiziana neanche per andare a ritirare il premio che gli accademici di Stoccolma gli assegnarono (primo e, finora, unico vincitore di lingua araba). Mandò le figlie, che hanno poi continuato ad assisterlo, devote, fino agli ultimi giorni. Senza essere ideologico, Mahfuz ha raccontato i malesseri di una società che vive di forti contrasti. Senza essere provocatore, come fu inteso Salman Rushdie, ha spiegato i limiti di una visione esclusivamente religiosa del mondo. In paesi come l’Egitto bastava (e basta) anche meno per essere considerati blasfemi. E già nel 1967, un suo romanzo, Il rione dei ragazzi, che raccontava realisticamente la vita quotidiana del Cairo, fu censurato nel suo Paese, un’interdizione che arrivò dalla massima autorità islamica, l’università di al-Azhar. Fu pubblicato in Libano e poi in tante edizioni pirata. Solo di recente (e dopo il Nobel) è stato stampato anche in Egitto. Con il tempo, e solo per la sua fama (perché nella vita pubblica Mahfuz è sempre stato riservato e poco propenso a prendere posizioni massimaliste) lo scrittore è stato identificato come un bersaglio dagli integralisti, dai famigerati Fratelli Musulmani. Il governo egiziano, già nel 1989, gli aveva offerto una scorta, ma lui aveva rifiutato, perché non voleva che la sua vita tranquilla, fatta di passeggiate, lunghe chiacchierate al bar e il lavoro nel quotidiano cairota «al-Ahram» ne fosse turbata. Ma nell’ottobre del 1994, in coincidenza con l’anniversario dell’assegnazione del Nobel, fu vittima di un gravissimo attentato. Era appena uscito di casa e stava salendo nell’auto che lo avrebbe portato alla sede del giornale, dove aveva mantenuto un suo ufficio, quando l’attentatore, fingendosi un suo ammiratore, lo aggredì. Si salvò per miracolo. Il motivo che armò la mano di un sicario, che con un coltello gli recise buona parte della carotide, fu ancora una volta Il rione dei ragazzi. Mahfuz si salvò. Vennero arrestati e processati sette estremisti islamici. «Abbiamo scelto il coltello» confessarono alcuni di loro «perché volevamo torturarlo a lungo prima di farlo morire». Qualche mese più tardi, due dei fondamentalisti furono condannati alla pena capitale e impiccati Mahfuz, sarebbe vissuto altri dodici anni, ma ormai da tempo la vena narrativa si era esaurita, ha continuato a scrivere articoli quasi fino alla fine, come tutti i narratori di razza. Ma il meglio l’aveva già dato e il mondo che lui aveva raccontato si è dissolto con i decenni. A salvarlo dall’oblio, al destino di lacrima nella pioggia, saranno i suoi libri.