IL MATTINO

30/03/2008

 

Solera nell’angoscia di un popolo diviso in due

«Muri, lacrime e za’tar» è il titolo del libro di Gianluca Solera (Nuovadimensione, pagg. 444, euro 18) che oggi alle 12 sarà presentato nella Sala Elettra. Con l’autore discuteranno Caterina Arcidiacono, Michele Capasso, Stefano Manferlotti e Marisa Savoia. Stefano Manferlotti In una sua poesia, riferendosi a non pochi paesi dell’America Latina, Pablo Neruda li chiamò «pueblos de larga agonía», «popoli di vasta angoscia». Ma se il poeta cileno fosse tuttora vivo e guardasse alla Palestina e ai fiumi di sangue che ne hanno intriso e ne intridono il terreno, nemmeno il passaggio a un superlativo assoluto gli basterebbe a definirne la pena. In ogni caso lo colpirebbe, come ben sa chiunque vi si rechi, il contrasto fra l’ancestrale bellezza dei luoghi, il bagliore emanato da nomi come Gerico o Betlemme, la fragranza delle piante che sono ancora quelle di cui scrisse Plinio il Vecchio, il profumo di sapone d’oliva, di tè, di tabacco al miele che sale dai mercati, e il tributo di vite umane imposto da una guerra che sembra non dover conoscere fine. Gianluca Solera (come lui stesso ammette in una delle pagine introduttive, l’origine ebreo-sefardita del cognome gli è stata a volte più utile di un lasciapassare) prova a fornire risposte nel volume Muri, lacrime e za'tar. Storie di vita e voci dalla Palestina. Solera, coordinatore della fondazione «Anna Lindh» per il dialogo fra le culture, non teme il giudizio (davvero risibile) di chi taccia di antisemitismo chiunque muova critiche alla politica israeliana nell’area e pertanto non nasconde la sua simpatia per la causa palestinese, ma ha cura, nelle tre parti di cui consta il volume (lo chiudono una postfazione di Luisa Morgantini, vicepresidentessa del Parlamento Europeo, e una preziosa appendice storica) di farla poggiare - in modo da conferirle forza - su testimonianze di prima mano attinte a entrambi gli schieramenti e su toni assai distanti dall’isteria e dal pregiudizio. Mentre città, villaggi, luoghi di culto, prendono forme e colori davanti agli occhi di chi legge, si odono parole che di volta in volta sorgono dallo scoramento, dalla delusione, dalla speranza. Le pronunciano persone che, se la parola non fosse usurata, non potremmo che definire straordinarie: don Raed Abushalia, parroco cattolico di Efraim, Jeff Helper, leader del movimento della pace israeliano, lo storico Ilan Pappe, dell’università di Haifa e tanti altri. Ma più limpide di tutte sono le voci delle donne che gridano contro la mortificazione quotidiana dei checkpoints e la crescente politica di apartheid del governo di Tel Aviv, come Amira Hass, Naila Ayesh, o Suad Amiry, la quale in un’intervista che è fra le sezioni più belle del libro riesce a trovare la forza di sorridere: «Quando un israeliano mi dice che sta soffrendo, faccio sempre la stessa domanda: ”Vuoi prendere il mio posto?”».