"IL DENARO"

3 marzo 2001

CINEMAMED: UNA NOUVELLE VAGUE MAROCCHINA

Continua il Festival arabomediterraneo: dopo Palermo e Bologna, Edimburgo

di Michele Capasso

Napoli, 1 marzo 2001. Enzo Giustino, sulle pagine del "Corriere del Mezzogiorno", indica il Mediterraneo come "unica prospettiva del Mezzogiorno". Alcuni giorni fa, partecipando ad un seminario del Centro Mezzogiorno-Europa di Andrea Geremicca, avevo illustrato ad amici come Pasqualina Napoletano, Gilberto Marselli, Massimo Rosi, Adriano Rossi ed allo stesso Giustino l’importante cammino percorso negli ultimi 7 anni dalla nostra Fondazione, puntualmente registrato, passo dopo passo, sulle pagine di questo giornale.

Quella istituzione europea, auspicata da Giustino, con "sede in una città meridionale, con la finalità di presiedere al processo di costruzione dell’area economica e al tempo stesso centro di cultura e di informazione, ma soprattutto, di incontro tra coloro che dovranno essere i protagonisti di una nuova realtà economica, culturale ed istituzionale" esiste già nei fatti: la Fondazione Laboratorio Mediterraneo, con sede a Napoli, svolge attività di connessione in rete per il dialogo interculturale tra i Paesi delle due Rive e, con le sue sezioni autonome che racchiudono istituzionalmente Stati, Regioni, Città, Università ed organismi della Società civile, ha accolto l’invito dei suoi membri e coniuga cultura e scienza con sviluppo economico e progresso condiviso. Pertanto è a disposizione di tutti – ed in particolare delle istituzioni economiche napoletane e del Mezzogiorno - per incrementare misure e interventi che favoriscano la creazione di un’area di libero scambio.

Edimburgo, marzo 2001. Continua il nostro Festival sul Cinema dei Paesi Arabo mediterranei. Dopo Palermo e Bologna la città scozzese. Un grande successo di pubblico e di critica. Specialmente per il cinema marocchino.

Tracce di un nuovo cinema arabo, che si spinge verso durate non convenzionali (alle ancora troppo rigide imposizioni della distribuzione) dentro le quali rielaborare sensibilità figurative, sguardi multipli, tensioni dell'anima da riprodurre in immagini che contengono la necessità, l'urgenza di costruire sempre più un discorso complesso e multiforme nel rapporto tra il campo e il fuori campo. Sta qui, su questa linea che ci fa vedere molto e al tempo stesso ci lascia desideranti e piacevolmente insoddisfatti (per quello che non si riesce a vedere, che bisogna - provare a - immaginare), la sfida di parte del cinema arabo contemporaneo, di quel cinema arabo che cerca di non patire più schemi e riferimenti obbligati, avventurandosi negli spazi di un nuovo vedere e sentire. Strategia estetica e produttiva, schegge di factory e splendori indipendenti per ridiscutere percorsi narrativi per superare appiattimenti visuali.

Non è quindi un caso se le tracce (e ormai sono qualcosa di più, segni continuativi che evidenziano un cammino nel quale l'atto iniziale, isolato, si trasforma in gesto da ripetere e rafforzare) più interessanti provengono dal Marocco, ovvero dalla cinematografia araba (tra quelle solidamente affermate) che - nel lungometraggio, salvo rari casi, come Mektoub (1997) di Nabil Ayouch, Kuius al-has (Cavalli di fortuna, 1995) e Tresses (2000), entrambi di Jillali Ferhati - fa fatica a liberarsi di eccessive pesantezze di linguaggio. E' così che il Marocco, da alcuni anni, esprime una agguerrita nouvelle vague di autori di cortometraggi, alcuni dei quali hanno già raggiunto visibilità internazionale nei maggiori Festival (da Cannes a Torino, da Rotterdam a Venezia). Nomi come quelli di Faouzi Bensaïdi, Yasmine Kassari, Laila Marrakchi, Hassan Legzouli, Mohamed Ulad-Mohand rappresentano bene e con diversità di sguardi l'approccio a una narrazione corta che lancia segnali innovativi e talvolta sperimentali. Sono cineasti che disegnano una visione parziale e soggettiva del reale, che lo reinventano guardando ai generi e alla sensualità del gesto filmico che seduce, al quale consegnare un volto, una porzione di terra, un'espressione, un movimento. E' un cinema, quello fatto da questi registi, che parte da un presupposto da dilatare nel tempo, attorno al quale elaborare una forma immediatamente riconoscibile (che manca in buona parte dei lungometraggi). Ecco dunque storie che parlano di una banda di ragazzini o della caccia ai cani randagi, dell'annuncio di un tragico evento o dell'amicizia e di una convivenza particolari. Storie prese e manipolate, così come i luoghi nei quali si svolgono.

In questo contesto, il lavoro più originale lo sta svolgendo Faouzi Bensaïdi, studi a Rabat e Parigi, regista di opere teatrali, attore sia sul palcoscenico sia sul set (è uno degli interpreti principali di Tresses, dove ha il ruolo di un personaggio naïf che ama gli uccelli e che con la sua sincera dolcezza si pone in contrasto con i cinismi, gli opportunismi, le rivalità sessuali e politiche, le vendette che lo circondano e devastano le menti e i corpi della maggioranza delle persone e della società). Sono finora tre i film con i quali Bensaïdi (che sta preparando il suo primo lungometraggio, Mille mois) si è posto all'attenzione all'interno del panorama cinematografico di questi anni (e non solo del cinema arabo): La falaise (1997), Le mur (1999), Trajets (2000). Una sua dichiarazione a proposito di Trajets, co-produzione tra Francia e Marocco, si può estendere anche agli altri suoi due testi ed è significativa per comprendere il suo percorso creativo: "Notte, pioggia, ambienti chiusi, personaggi solitari. L'importante per me era rendere quest'atmosfera di oppressione che avvolge tutto il film. Il lavoro sul fuoricampo è fondamentale. Spesso i personaggi non sono al centro dell'immagine: ciò che s'intuisce di loro è più importante di quello che viene mostrato. Nel film c'è anche la voglia di filmare il Marocco di oggi, moderno, affascinato dalle nuove tecnologie (telefoni cellulari, neon, telecamere nascoste...) ma ancora sotto l'influenza di una mentalità tradizionale"

I personaggi solitari (anche quando fanno gruppo, come in La falaise), il senso di oppressione e la presenza fisica del fuori campo (qualcosa che incombe, dentro l'inquadratura o ai suoi lati, come il senso diffuso del pericolo, della stabilità/instabilità dei corpi su una moto o su un muro, ancora in La falaise o in Le mur) sono segni inequivocabili che rendono facilmente distinguibile l'opera di Bensaïdi, attraversata da elementi, spesso ricorrenti, sui quali si trovano sospesi, gettati, proiettati i personaggi di queste storie minimali scritte in buona parte con il piano sequenza. Una scogliera, un muro, una strada, e i loro bordi, mettono in relazione o separano i corpi in film inscritti nella fisicità, nel colore o nel bianconero (La falaise), nella disperazione esistenziale e nella solitudine (Trajets) e in un eccesso di realismo (a tale proposito La falaise è più esemplare di Le mur perché in quest'ultimo il segno del grottesco e del gag teatrale è palese e non mediato). Bensaïdi arriva a costruire dei meccanismi fortemente visivi, dove la parola, il dialogo (come in La falaise) non sono più necessari, dove il piacere del filmare porta sia a un senso estetico molto raffinato e alle soglie del manierismo sia alla consapevolezza di far scaturire nuovi tragitti minatori dentro quelle inquadrature così scolpite nei loro set, punti di sosta fisica e di fuga mentale.

L'esplorazione degli spazi è la caratteristica anche di altri autori, un segno distintivo che si rintraccia nel corpo di questa nouvelle vague marocchina.