18 gennaio 2005
Christopher Coker, professore di
Relazioni Internazionali alla London School of Economics, terrà oggi
pomeriggio alla Fondazione Laboratorio Mediterraneo una conferenza intitolata:
“Il Mediterraneo nell’immaginario occidentale: tra dialoghi dell’era moderna”.
In una disciplina che, come egli
ha scritto nella sua prefazione a Twilight of the West (1998), non ha
mai considerato la cultura “un fattore significativo nelle relazioni
internazionali”, Coker, con la sua tenace insistenza sul ruolo della filosofia
come fondamento e sintesi dell’immaginario collettivo di una comunità politica,
rappresenta una voce assolutamente originale. Ciò non toglie che il suo ultimo
libro (The Future of War: the Re-enchantment of War in the Twenty-First
Century, Blackwell, 2004) sia considerato un punto di riferimento obbligato
per chi non voglia riflettere sul rapporto tra guerra e politica nel quadro
delle relazioni di potenza che caratterizzano, dopo il trauma dell’11
Settembre, il mondo complicato e pericoloso in cui viviamo.
Lei sembra credere nella centralità della dimensione culturale delle relazioni internazionali. Perché abbiamo bisogno di quella che lei e altri definiscono una “storia concettuale” (conceptual history) per analizzare le prospettive di dialogo nella politica internazionale del Mediterraneo contemporaneo?
“Innanzitutto, vorrei dire che
per me è un grande onore tenere questa conferenza a Napoli perché questo mi
consente di iniziare parlando di uno dei suoi figli più eminenti:
Giovanbattista Vico, un grande napoletano che trascorse la maggior parte della
sua vita da oscuro professore universitario lavorando al suo capolavoro, La
Scienza Nuova, un’opera per noi allo stesso tempo infinitamente lontana e
sorprendentemente vicina. Vicina perché ha aperto la strada a un nuovo e
radicale approccio filosofico allo studio della storia e tutti e tre i dialoghi
di cui parlerò oggi sono dialoghi con la storia che affondano le loro radici
nella filosofia.
Anche se Vico si riferisce a una
sola volta all’Islam nella sua ricostruzione delle origini della civiltà, per
noi la sua importanza consiste nel fatto che egli si è servito della filosofia
per designare una “storia concettuale” dell’umanità. E’ stato il primo filosofo
europeo a sviluppare una conoscenza filosofica della società, la cui importanza
risiede nel fatto che nel suo dialogo con il resto del mondo l’Europa è stata,
per citare Husserl, “un’idea filosofica immanente alla sua storia”. E’ questo
che ha reso “europea” l’Europa. Tutti i dialoghi dell’Europa con il modo
esterno dopo l’Illuminismo sono stati fondati su ciò che Denis de Rougemont ha
definito “l’idea dell’Europa”. Perché l’Europa è essenzialmente una costruzione
culturale, per lo meno nell’immagine che essa ha su di se stessa. Vico ha
contribuito a tutto questo. Ciò che lo rende unico è che egli fu il primo
storico della civiltà a trattare questa materia in termini filosofici invece
che religiosi”.
E, tuttavia, il primo dialogo mediterraneo dell’era moderna, come lei lo chiama, quello cominciato con la rivoluzione francese e l’occupazione dell’Egitto da parte dell’esercito napoleonico, non sembra essere nato sotto i migliori auspici “dialogici”.
“E’ vero, lo storico egiziano
Abdul al-Rahman al-Jabarti lo visse come un evento “catastrofico” che si stava
abbattendo sul mondo islamico. Il dialogo era appena cominciato quando i
francesi furono espulsi dall’Egitto. Fu ripreso nel 1830 dopo il loro sbarco in
Algeria. Gli scritti di Tocqueville sulla presenza della Francia nel Nord
Africa, per quanto meno noti di quelli sull’America, sono una rappresentazione
accurata della “missione civilizzatrice” dell’Europa. Gli europei – scrisse
Tocqueville – avevano sopraffatto gli algerini “prima ancora di imparare a
conoscerli. In altre parole, il loro dialogo con il modo mediterraneo, fu un
monologo, o un dialogo a senso unico”.
Lo stesso Tocqueville paragonò
gli stessi europei a una forza della natura la cui volontà espansionistica
comportava la sparizione della cultura araba. Alcune decine di anni dopo, T.E.
Lawrence scrisse che il mondo arabo aveva avuto secoli di storia ma non ne
aveva tratto alcun insegnamento, che la loro storia era stata fatta per loro
altri – ossia dagli europei. Per la filosofia europea all’inizio del XX secolo,
specialmente per la fenomenologia, l’Europa avrebbe realizzato il suo “essere”
quando il resto del mondo fosse “diventato” europeo. Questo impulso
totalizzante può essere rintracciato nei grandi romanzi di Proust, di Mann e di
Joyce. Ciò che non era europeo poteva sopravvivere solo diventando parte del
progetto culturale europeo,. Come
sottolineava Husserl, la storia significa “l’europeizzazione delle altre
civilizzazioni”.
Se queste sono le premesse, in che cosa consiste il secondo dialogo dell’Europa con il mondo Mediterraneo?
“Il secondo dialogo dell’Europa
con il mondo Mediterraneo è stato antifenomenologico. Può essere associato al
lavoro di filosofi quali Emmanuel Levinnas a Paul Ricoeur che trovavano
intensamente egocentrica una filosofia
le cui parole guida erano “l’io”, “l’identità” e “l’essere”. Entrambi erano
critici di un ontologia che riduceva ogni cosa al proprio io”. La chiave del
problema – così essi argomentavano – non era “l’essere” ma il “divenire”
dell’Europa, attraverso il dialogo con il mondo esterno.
La prima voce di questo dialogo
mi sembra quella di un altro scrittore francese. Albert Camus. Nel corso di una
conferenza che egli diede ad Algeri nel 1937, Camus espose una tesi che
anticipava il tema del suo romanzo del 1951, “L’homme révolté”. Per
Camus il Mediterraneo rappresentava uno stile di vita che differiva
profondamente da quello del mondo protestante del nord Europa. Questa
dimensione rappresentava un tratto specifico del temperamento latino, il
rifiuto di sacrificare il presente e il futuro.
Poteva questa tonalità, questo
stile culturale radicamente diverso – si chiedeva Camus – essere rintracciato
nell’intersezione dei mondi cristiano e musulmano? L’essere “latino” scaturiva
da questo incontro storico. Per il grande storico del Mediterraneo, Fernand
Braudel, “la grande, perduta, opportunità della storia” si era presentata alla
fine del XV secolo quando la Spagna aveva cominciato a disinteressarsi del Nord
Africa e si era rivolta a Occidente
-verso l’Atlantico e la colonizzazione delle Americhe.
In realtà, il Mediterraneo di
Camus era una costruzione tutta europea. Tuttavia, egli ha colto un’idea molto
attuale: ossia che una cultura non è un dato, non più di quanto non lo siano
una società o una nazione. Una cultura è un insieme di relazioni: relazioni
internazionali al suo sistema di regole e di valori e relazioni con il mondo
esterno. Camus ha anche capito che l’identità culturale cambia nel tempo
insieme alla sua ri-percezione de l mondo e del posto che vi occupiamo. In
questo senso, ogni cultura è dialogica”.
Vi è poi un terzo dialogo che, forse, per noi è il più attuale di tutti nell’odierna situazione internazionale…
“Certo, vi è un terzo dialogo
che determinerà un futuro dell’Europa più di qualsiasi altra cosa. Per quanto
molto più comprensivo e inclusivo del primo, quello di Camus è ancora un
dialogo eurocentrico. Nella visone dello scrittore francese vi è ben poco
dell’interazione degli europei con i popoli della riva sud del Mediterraneo, il
che non ci deve sorprendere dato che queste interazione all’epoca erano molto
ridotte. Oggi non è più così, grazie ai migranti in cerca di un lavoro o di
asilo politico.
Il che ci consente di capire
perché la vecchia questione, dove comincia e dove finisce l’Europa, non è una
questione geografica. La storia ridefinisce continuamente le frontiere.
L’Europa è sempre stata una costruzione della sua coscienza storica più che una
banale espressione di tipo culturale, geografico o economico. Come de Rougemont
una volta ha scritto, “cercare l’Europa significa trovarla”.
Questo è il terzo dialogo
mediterraneo dell’epoca moderna. Come i nuovi europei dell’Europa Centrale e
orientale (che l’illuminismo ha escluso dalla storia dell’Europa) daranno una
nuova dimensione alla vita europea – un’altra voce, un altro discorso – è
probabile che lo stesso accada con il mondo islamico. Naturalmente dobbiamo
capire che la comunicazione tra le culture è più complessa di quanto
immaginassimo perché include un fattore determinate finora trascurato: quello
della traduzione. Ogni dialogo, da questo punto di vista, rimane sempre aperto.
L’Europa, per usare il linguaggio di Paul Ricoeur, è in corso di
“decontestualizzazione”. La grande sfida per gli europei è ricontestualizzare
l’idea di Europa man mano che si spostano le sue frontiere.
Ma non saremo solo noi ad essere
trasformati, lo saranno anche i nuovi migranti. Perché nel contesto dell’Europa
è probabile che anche l’Islam sarà ri-contestualizzato. Peter Mandeville ha
colto bene questo punto: l’Islam “viaggiante” (ovvero la diaspora islamica del
nord Africa) è un “viaggio” nell’Islam. E’ interessante notare come molti
religiosi e teologi dell’Islam in Occidente stiano incoraggiando i giovani
musulmani a impegnarsi nelle sfide poste dalla modernità. Dopotutto, la vita in
Occidente offre un’opportunità unica di rileggere, rivedere e riaffermare la
validità dell’insegnamento del Corano. Probabilmente il pensiero islamico più
radicale e innovativo proverrà in futuro dall’Occidente”.
Pensa che questo terzo dialogo sia compatibile con quello che l’Unione Europea ha iniziato con il “Processo di Barcellona” nel 1995?.
“No, non penso che lo sia.
L’Unione Europea è ancora espressione di una cultura universalistica che
pretende di trasmettere i suoi valori, per esempio grazie ad istituzioni quali
il Tribunale Penale Internazionale. Continua a proporre al resto del mondo un
modello, quello che lo studioso americano Jeremy Rifkin chiamava “il Sogno
Europeo”. L’Ue è convinta di rappresentare lo stadio più alto della modernità:
di qui il suo desiderio di “modernizzare” gli altri, come nel caso della
Turchia, a proposito della sospensione della legislazione penale turca
sull’adulterio.
Inoltre, continua a vedere se
stessa come la forma “più alta” della vita culturale. Lo testimonia la tenacia
con la quale Milan Kundera sostiene che i popoli europei sono ora
“antropologicamente incapaci di farsi la guerra fra loro”. Il termine
“antropologicamente” è significativo. E’ l’espressione di ciò che gli europei
considerano come lo stadio culturalmente più sviluppato della vita.
Critica del Tribunale Penale
Internazionale e, soprattutto, dei cambiamenti imposti dall’Ue al codice penale
turco: da un relativismo culturale così radicale promana l’idea che nulla è
cambiato da due secoli a questa parte nell’atteggiamento dell’Europa. Il che
significa che l’attuale dialogo euro-mediterraneo potrebbe essere non molto
diverso da quello di uno o due secoli fa.
In un certo senso non vi è
alcuna differenza. E’ un dialogo nominativo. L’Unione Europea sembra impegnata
a persuadere il mondo arabo dalla necessità di sottoscrivere il proprio sistema
di regole. Se poi questo dialogo sarà un po’ più fruttuoso di quello
dell’inizio del XX secolo è da vedere. Non mi farei alcuna illusione:
probabilmente la trasformazione dell’Europa sarà dolorosa e conflittuale,
caratterizzata da polarizzazioni sociali e, forse, da divisioni profonde. Non
so – nessuno lo sa – che cosa alla fine emergerà, ma non ho dubbi sul fatto che
la faccia dell’Europa cambierà profondamente. Se l’Europa è un’idea, allora
potremmo dire che gli europei non ne avranno di copyright ancora per molto
tempo. Tom Stoppard una volta ha ammesso: “Scrivo commedie perché il dialogo è
il modo migliore per contraddirmi” sarà forse questo l’esito del dialogo
mediterraneo? Un’Europa che si trasforma nell’opposto di ciò che i suoi Padri
Fondatori volevano? Questo è ciò che molti europei temono, anche se non tutti
sono disposti ad ammetterlo pubblicamente”.