CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

17 marzo 2005

 

 

Gli Stati Uniti le la svolta imperiale dell’”era Bush”

Specialista di politica estera americana, lo studioso tiene una lezione alla Fondazione Laboratorio Mediterraneo

 

 

di Fabio Petito

 

Grande conoscitore degli Usa e della sua Politica estera, Michael Cox è tra i pochi specialisti europei stimati e ascoltati su entrambe le sponde dell’Atlantico. Oggi, alle 17, alla Fondazione Laboratorio Mediterraneo terrà una conferenza sulla Grand Strategy americana nell’era Bush: un tema che non poteva mancare nel ciclo di incontri dedicato dalla Fondazione alla politica internazionale nel Mediterraneo (rappresentato, per l’occasione, da Rafael Dochao-Moreno, responsabile per il 3° volet del Processo di Barcellona).

Una delle caratteristiche più interessanti della vita intellettuale americana dal secondo dopoguerra è stata la costante preoccupazione riguardo alla questione del potere degli Usa.

“ Non che questa ossessione debba sorprenderci particolarmente, però. Dopo tutto, secondo gli americana, la storia ci insegna che l’ordine è impossibile senza il disimpegno di una gran quantità di potere da parte di un singolo, conscio egemone: quando le grandi potenze non riescono a guidare  - come la Grand Bretagna nel 1914 e gli Stati Uniti nel periodo fra le due guerre mondiali – l’inevitabile risultato è il caos e il disordine. Dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti si misero a costruire una nuova “pace globale” e di fatto riuscirono ad unire vecchi nemici, mobilizzare la propria gente, contenere le ambizioni di politica estera di altri, e tenere in piedi l’economia mondiale attraverso iniezioni costanti e massicce di spese militari, il che tenne in vita un modello capitalistico che fino ad allora era piuttosto incerto. Infatti, la pax americana non solo sembrò servire gli interessi degli Usa, ma produsse una quantità di beni pubblici che aiutarono anche altre nazioni. Dunque, per circa vent’anni quello che fu buoni per gli Stati Uniti fu anche buono per la maggior parte del “mondo libero”.

A partire dagli anni ’70, attualmente, sull’onda della sconfitta in Vietnam, si cominciò a parlare sempre di più del “declino Americano”.

“Sì, è vero. La tesi era che le condizioni dell’egemonia americana non fossero più presenti, in gran parte a causa del declino nella competitività Usa e del deficit in crescita, e che questo avrebbe avuto delle conseguenze per l’ordine mondiale. Ammettendo che gli Stati Uniti potessero  - anzi dovessero – essere paragonati alle altre grandi potesse del passato, alla fine degli anni ’80, Paul Kennedy si spinse dunque fino ad affermare che l’era americana era finita: provati da quelle che lui notoriamente chiamò “sovra-estensione imperiale” gli Stati Uniti non avevano altra alternativa che ridurre le spese legate alla sicurezza nazionale, ritirarsi da alcune posizioni all’estero, e condividere il peso della leadership mondiale con gli altri paesi. Agire in altra maniera, secondo Kennedy, avrebbe costituito una follia: l’era americana era finita e gli Stati Uniti stavano diventando, se non lo erano già, un “paese normale”.

Negli anni ’90 la tesi “declinista” comincia però ad essere duramente criticata da vari autori.

“esatto: da un lato l’inaspettato crollo dei sistemi comunisti in Europa, dall’altro l’altrettanto significativa fine del miracolo economico giapponese e, infine, uno dei boom economici più lunghi della storia americana  non solo tolsero forza alla tesi del declino, ma forzarono i critici a sollevare ed affrontare la domanda forse più revisionista di tutte: se gli Stati Uniti non stava accadendo ciò che era accaduto nella storia a tutti gli altri imperi, forse allora c’era davvero qualcosa di speciale nel sistema americano, forse gli Usa erano davvero un’eccezione alla regola d’ora del declino delle grandi potenze. Secondo questi autori, dunque, un altro “secolo americano” sembrava schiudersi: come disse uno studioso americano, l’egemonia americana era arrivata per restare e prima ci fossimo abituati a questa cruda realtà, meglio sarebbe stato”.

E come si è trasformato questo dibattito in seguito all’attacco all’11 settembre?

“Dopo l’11 settembre, l’amministrazione Bush che era stata eletta anche in virtù di una agenda di politica estera decisamente cauta (pur se già essenzialmente egemonica), è non solo andata in guerra per due volte,ma ha espanso i propri interessi al punto che non sembra esserci luogo al mondo in cui essa non abbia una posta in gioco  - dell’Africa orientale alle Filippine, all’Uzbekistan e all’Ucraina. La svolta verso questo “globalismo muscolare” è stata davvero eccezionale è stato il dibattito sviluppatosi tra i sostenitori e critici di tale politica. Poiché se l’America stava imbarcandosi in una “crociata” mondiale per sconfiggere il terrorismo internazionale allora si poteva cominciare ad immaginare l’immaginabile, ossia che il paese stesse diventando, o era già diventando, qualcosa di più che semplicemente un’altra grande potenza: forse, un impero?”.

E quindi lei un sostenitore dell’adeguatezza della nozione di “impero” per comprendere gli Usa nell’area dell’amministrazione Bush?

“Certo, un impero con alcune caratteristiche tipicamente americane. Quale miglior parola può descrivere il vasto sistema che l’ordine internazionale americano, con la sua moltitudine di alleati dipendenti, il suo esteso network di intelligence, i suoi cinque comandi militari, le sue portaerei di guardia in ognuno oceano, e il suo controllo del 30% dell’economia mondiale? In realtà, la “svolta imperiale” dell’era Bush è stata forse meno sorprendete del fatto alcune persone abbiano cominciato ad usare la parola impero, in un paese come l’America che si è storicamente percepito come anti-imperiale e dove l’idea di impero suona sicuramente come un-American. Però, se gli anni ’60 il termine era stato monopolio della sinistra radicale avezza ad attaccare il potere americano nel mondo, nell’era post-11 settembre il termine è soprattutto in voga presso la destra neo-conservatrice. Certo, il presidente Bush può ripetere il vecchio mantra che “l’America non ha alcun impero da estendere”, ma questo è esattamente ciò che i neo-conservatori pensano che l’America debba fare: imporre la propria forma di “pace” su un mondo disordinato. Chiamatelo unitelarismo, o risposta necessaria a nuove minacce, ma assomiglia tanto ad una politica imperiale. La parola che non si era osato profferire per più di una generazione è ora ricomparsa prepotentemente nel dibattito politico”.

Eppure, con buona pace dei neo-cons, ci sembra che i segni di un declino dell’impero Americano” non manchino: quali sono a suo parere i problemi principali che l’amministrazione Bush deve affrontare?

“Innanzitutto l’America sarà anche la sola superpotenza mondiale ma questo non significa che può permettersi di agire da sola e pensare di intrattenere buone relazioni con gli altri paesi. Quando le coalizioni si formano in base alla paura invece che al consenso, allora c’è sempre qualcosa di sbagliato: gli imperi più sicuri della storia infatti sono stati quelli che hanno guidato più che costretto, che hanno ispirato affetto più che sospetto. In secondo luogo, nel mettere al riparo la nazione da latri possibili attacchi terroristici l’America sembra essere diventata una società assai meno aperta e accogliente, se questo processo continuasse, però, l’anti-amerinismo già rampante sarebbe destinato a crescere ancor di più. Inoltre, pochi americani sentono davvero di essere coinvolti nello “sporco affare” di costruire un impero- questo significa che non appena le cose cominciano ad andare male – come succede sempre per qualunque impero – l’opinione pubblica preme subito per cercare una “strategia di fuga”. Come Dick Cheney e altri hanno suggerito in privato ( e per usare un’ espressione dello stesso Cheney), ad esempio, ci sono delle ragioni molto buone per avere un’orma permanente nella sabbia di una regione chiave come il Medio Oriente. Tuttavia, questo non è quello che crede il popolo americano, educato a pensare che se le altre nazioni conquistano, la loro libertà. Da ultimo, sebbene il sistema capitalista Usa continui ad avere ingenti risorse e un’ottima capacità di rigenerarsi, niente di questo può essere più dato per scontato; e a rendere le cose ancora più dure, l’Europa inizia a costituire una vera e propria sfida economica. Dunque, in un certo senso, gli imperialisti moderni di Washington non avrebbero potuto pensare ad un maggior momento in cui iniziare a costruire il loro “nuovo” impero americano”.