10 agosto 2005
I maggiori quotidiani italiani hanno ospitato in questi
giorni editoriali e lettere di precisazioni sull’Islam e le sue sfaccettate
inter-relazioni con l’Occidente. Il dibattito ha preso le mosse dai rilievi
critici rivolti dal vice direttore del Corriere della Sera, Magdi Allam,
all’accordo di cooperazione da me co-firmato con il presidente dell’università
egiziana Al Azhar per l’avvio di studi comparati con la partecipazione di
cattedratici di sei atenei italiani. Anche Il Mattino ha contribuito a chiarire
per i lettori i termini della divergenza pubblicando un mio articolo
nell’edizione del primo agosto e l’intervista a Magdi Allam in quella del
giorno dopo. Ma a parte il merito del contendere, è positivo che le valutazioni
esposte da firme di rispetto nelle pagine di Repubblica, di Avvenire, del
Giornale e dello stesso Corriere, abbiano evidenziato aspetti non inediti ma
certo ancora poco dibattuti e assai controversi. Fra tutti desta una
particolare attenzione la tesi illustrata in due editoriali sul Corriere dal
politologo Angelo Panebianco sulla scarsa congruità che il termine «moderato»
avrebbe nell’individuare la parte dell’Islam con cui il dialogo appare
conveniente. L’editorialista solleva come esempio della fallacia del termine il
caso dell’Arabia Saudita che a livello politico-diplomatico è aperta alla
cooperazione con l’Occidente, e quindi classificabile nell’Islam «moderato»,
pur tuttavia non essendo riuscita a impedire la nascita tra la sua popolazione
di cellule dell’Islam estremista.
In realtà la
continuazione del dialogo solo con coloro che l’Ovest considera come moderati
rischia di acuire i motivi di tensione con i paesi islamici (che si sentono
permanentemente sotto esame) e di creare per di più al loro interno inopportune
divisioni fra i governi, accolti come amici, e una parte delle élite religiose
e non, spesso sospettate di avallare, istigare e comunque non opporsi alla
violenza, e quindi parte dell’Islam da rigettare. E tuttavia non mi sembra
neanche così necessario chiedersi, come tende a fare il professore Panebianco,
quale altro steccato, se non il convenzionale moderatismo, si debba
prescegliere per essere comunque immuni dal pericolo di diffondere con la
propria offerta di collaborazione, i focolai di fanatismo religioso e
estremismo. Dialogare allora con chi? La storia dell’Islam ci dice che non
dobbiamo reinventare la ruota. Essa non manca di offrirci spunti di
riflessione. La stessa Al Azhar, per molti oggetto del sospetto, appare
tutt’altro che un sistema monolitico. L’esempio più illuminante dell’evoluzione
pluralista dei suoi studiosi può essere il grande letterato egiziano Taha
Hussein (1889-1973) che, cieco sin dall’età di tre anni e cresciuto in un
ambiente fondamentalista, introduce proprio ad Al Azhar il dubbio cartesiano
nell’approccio critico della storia della letteratura islamica, allora
dominante. Con ciò egli invita a riconoscere come acquisizioni del pensiero
umano concetti e assunti elaborati anche al di fuori del mondo islamico. Sempre
per restare ad Al Azhar cito altri due celebri scrittori: Mohamed Abdou
(1849-1905) e Rashid Ridda (1865-1935), i quali parteciparono alla Nahda (il
movimento della rinascita araba contemporanea) promuovendo la riforma delle
scienze islamiche quale veicolo della modernità. Che cosa i due studiosi
azariti intendessero per modernità lo spiega bene la celebre opera «L’Islam e i
fondamenti del potere» di Ali Abderraziq (1888-1966). Argomenta l’amato discepolo
di Abdu che i princîpi della fede musulmana e la ricerca intellettuale, inclusa
quella storicista, non sono necessariamente antinomici. E precisa: «Niente
impedisce ai musulmani di adottare le vie e i mezzi scelti da altre nazioni
quando in gioco é l’interesse generale della comunità». Il punto allora non é
tanto di verificare se da parte di singoli paesi islamici sono in uso politiche
ufficiali di collaborazione con l’Ovest ovvero alleanze delle diplomazie - che
possono essere di natura contingente - ma piuttosto se si trovano convergenze
tra Islam e mondo occidentale sui modi razionali (non fideistici) di perseguire
l’interesse generale delle rispettive comunità. E anche qui l’osservazione
storica ci illumina con gli esempi dello scambio di esperienze, di know how, e
di conoscenza, nei campi umanistici non meno che scientifici, che hanno
permesso in passato, e possono farlo in futuro, solide basi di ricerca
condivisa tra Occidente e comunità islamiche. Accettare che l’Islam costituisca
nel mondo musulmano la fonte dell’etica sociale non significa aprire il vaso di
Pandora perché anche in Occidente sono ancora moltissimi quelli che considerano
i valori cristiani quale fonte per i fondamenti etici della società e della
politica. Non potrebbe una più stretta collaborazione fra i diversi
sistema-valori, incluso ovviamente quello ebraico, andare a vantaggio di una
accresciuta dimensione spirituale nella società contemporanea? Convengo
comunque che il dialogo delle culture debba essere oggi sottratto alla morsa costituita,
da un lato, dalle sterili e salottiere iniziative della Commissione dell’Ue e,
dall’altro, dal carattere omologante impresso da alcuni neo-conservatori
americani. L’invito rivolto dal presidente Amato dalle pagine del Corriere a
non imboccare un nuovo maccartismo e le testimonianze di collaborazioni
costruttive di cui fa stato sempre nelle colonne del Corriere il direttore di
«Reset» Bosetti, lasciano intendere che la lotta alla violenza cieca e al
barbaro fanatismo si può condurre senza aprire nuove battaglie di religione.
Non potremmo allora chiamare terrorismo tout court gli atti di barbarie contro
civili inermi, visto che oggi le più alte autorità religiose, oltre che i
governi, di paesi musulmani, hanno delegittimato gli estremisti che si richiamano
arbitrariamente all’Islam?
*Ambasciatore
italiano al Cairo