"IL DENARO"

18 aprile 1998

La forza del futuro nelle parole del Papa

di Michele Capasso

Venerdì 10 aprile 1998. Una tempesta di vento e pioggia sferza Roma. Giovanni Paolo II, nonostante la stanchezza, decide di andare avanti. Porterà la croce, dolente in volto, sotto la pioggia insistente, seguito da migliaia di persone che affollano tutto il percorso di questa via Crucis, dal Colosseo al colle Palatino. Dedicata al dialogo con gli ebrei ed al coraggio delle donne, questa cerimonia assume un significato particolare per una serie di circostanze: la coincidenza del calendario che vede la festività di Pasqua celebrata lo stesso giorno da ebrei, cristiani e musulmani; la firma, dopo trent’anni e tremila morti, del trattato di pace nell’Ulster; la ricerca di pace nel Medio Oriente avvertita ormai come una necessità vitale. "Non fu il popolo ebraico ad uccidere Gesù, ma i peccatori di tutto il mondo". Con queste parole il Papa apre la processione del Venerdì Santo e sottolinea come l’eco di quel grido di morte – "sia crocifisso" – riverberi "lungo la storia" e in "questo secolo che finisce: Auschwitz, Gulag, Sangue nelle risaie d’Asia e nei laghi d’Africa, in Algeria, in Bosnia. Migliaia di bambini negati, prostituiti, mutilati…, paradisi massacrati". Il Papa, con passo lento e instabile, porta la croce nell’ultima stazione: sembra riunire in se le colpe e i peccati delle tre religioni monoteiste. La discolpa degli ebrei, l’apertura verso i musulmani e l’appello affinché i cristiani d’Oriente e d’Occidente sappiano ritrovare "l’unità nella povertà e nel perdono" fanno di questo Papa un paladino del dialogo tra fedi e popoli. Venerdì 10 aprile, ore 20,40. Enzo Biagi presenta il suo special televisivo da Gerusalemme. Accoppia sapientemente immagini storiche della crocifissione con quelle d’attualità: l’olocausto, Hiroshima, la fame in Etiopia, un missionario italiano colpito dalla lebbra in Amazzonia. Laicità e religione si fondono nel segno della pace: la crocifissione di Gesù rivive negli scempi, ma anche negli atti d’amore e di coraggio di questo secolo. Notte di venerdì 10 aprile. Dopo trent’anni anni è pace nell’Irlanda del Nord. Dopo tre giorni e tre notti di trattative i capi degli otto partiti dell’Ulster firmano un accordo che, si spera, potrà cambiare la storia dell’Irlanda: il 22 maggio un referendum deciderà se l’accordo è valido. Due forze invisibili si sono scontrate in Irlanda: quella inamovibile dell’odio e del settarismo che ha condizionato gli eventi degli ultimi decenni e quella irresistibile della speranza nel futuro: i giovani pretendono la pace per ottenere benessere, per godersi l’Europa. Alla fine il futuro potrebbe vincere sul passato. Il condizionale è d’obbligo perché la violenza, in Irlanda, potrebbe ricominciare e, come in Bosnia, rendere il problema intrattabile.

Tuttavia un progetto di pace esiste. Yasser Arafat gioisce: "Speriamo che l’accordo di Belfast apra la strada per la pace e la coesistenza nella nostra regione". E invoca Blair che con il suo prossimo viaggio in Medio Oriente accende le speranze dei palestinesi. Ma il Medio Oriente è diverso dall’Irlanda. Per due motivi. Il primo è che l’Irlanda fa parte dell’Unione europea, la cui esistenza è fondamentale poiché ha tolto veleno al conflitto prevenendo la guerra in Europa; è da non sottovalutare, inoltre, il miracolo economico irlandese legato al sapiente utilizzo dei fondi strutturali europei. Il secondo motivo sta nelle circostanze che a Belfast – diversamente dal Medio Oriente – la trattativa ha visto protagonisti anche i responsabili degli "uomini armati": quasi tutti i gruppi paramilitari erano presenti, come se Hamas e i coloni ebrei firmassero un trattato di pace con Arafat e Netanyahu. Speranza o sogno irrealizzabile, per il momento, in Israele. E non solo. Il Mediterraneo continua ad essere un focolaio di guerre e conflitti: è crisi tra la maggioranza greca e la minoranza turca a Cipro; nel Kossovo la miccia innescata tra albanesi e serbi rischia di far esplodere i Balcani; nel Medio Oriente si perpetuano gli scontri che, di fatto, hanno congelato il processo di pace. È curioso constatare come queste crisi "intermediterranee" siano affidate, nei fatti, per un tentativo di risoluzione, agli Usa: i turchi non vogliono più sentir parlare di Unione europea dopo esserne stati esclusi dall’allargamento, e trattano con il mediatore americano Holbrooke; a tutti sono note le pressioni e i condizionamenti degli Usa su Israele e sullo stesso Arafat; la crisi bosniaca e quella balcanica sono state risolte – in realtà è stata fermata solo la guerra – a Dayton. Il "Washington Post" di alcune settimane fa, in un editoriale, espresse disappunto: "Perché tocca sempre a noi americani? Grecia, Cipro e Turchia sono Europa: è possibile che l’Ue non solo non riesca a risolvere i suoi problemi politici ma li aggravi?" Una strizzata di orecchie che, tranne "La Repubblica" e "Le Monde" non è stata riportata da alcun giornale europeo: tutti "assorbiti" dallo show della moneta unica. Un evento storico, per carità! Ma che non può essere fine a se stesso: di questo occorre rendersene conto immediatamente. È indispensabile abbandonare faziosità di appartenenze e pensare seriamente a costituire un’Agenzia dell’Unione europea per il Mediterraneo al fine di individuare e monitorare, in maniera stabile e continuativa, i bisogni dell’intera regione. Domenica di Pasqua. Mario Agnes, nel suo editoriale per l’edizione pasquale de "L’Osservatore Romano" titola: "Dalla follia della croce all’audacia della Resurrezione". E il Papa, nel suo messaggio ai governanti, alle istituzioni, agli uomini di buona volontà, alla Società Civile di tutto il mondo ribadisce con forza: "Sia vera pace". Comprensione, dialogo, convivenza pacifica: questi gli ingredienti per rinsaldare i delicati tasselli di un processo globale che richiede l’impegno costante di tutti "per percorrere insieme il cammino della pace, scongiurando quanto potrebbe ricondurre all’odio e alla violenza". L’anziano Papa commuove per tenerezza e tenacia. Sfidando la pioggia e ripercorrendo le tappe della via Crucis, ha voluto nuovamente richiamare credenti e non alle responsabilità della storia: per dare speranza e forza al nostro futuro.