"IL DENARO"

25 luglio 1998

La cooperazione alla base delle democrazie emergenti

di Michele Capasso

Algeri, 13 luglio 1998. Lamberto Dini è entusiasta. In meno di un giorno è riuscito a rilanciare i rapporti tra Italia e Algeria. Quest’atmosfera si respirava già a conclusione della Conferenza euromediterranea di metà percorso svoltasi a Palermo il 3 e 4 giugno scorso, quando la notizia fu anticipata. Dopo gli ultimi due anni caratterizzati da incomprensione tra Algeri e Roma, sembra proprio che sia in atto un riavvicinamento tra i due Paesi. Il terrorismo islamico, la recente imposizione della lingua araba come unica ufficiale (decisione che ha provocato la rivolta dei berberi), il pugno di ferro tra il generale Zeroual e la Società Civile ed altri ostacoli sembrano siano stati rimossi grazie alla mano tesa dell’Italia che di fatto intende traghettare l’Algeria verso l’Europa. È possibile?

Fatma Oussedik è perplessa: "Oggi le due rive sembrano essere, una per l’altra, delle cittadelle assediate, scenari di paura e di inquietudine. La realtà conflittuale del Mediterraneo, dunque l’ignoranza reciproca e il suo corollario, la paura, è stata causata da un processo intrapreso in Europa dal secolo dei lumi in poi, che potrebbe riassumersi nel concetto di "deritualizzazione". Questo processo, nato dalla Rivoluzione francese, dalle guerre europee e dalla colonizzazione, consiste nella trasposizione del rito nella simbolizzazione dello stato moderno. Il rito, cioè, ha delegato il suo senso alle istituzioni, investite della qualifica di ‘laiche’, è stato presentato all’individuo occidentale un universo cristiano glorificato dalla scienza. La religione – continua Oussedik – esprime i rapporti dei soggetti col mondo; essa è un universo materiale di costrizione e di necessità, una legge, ma è anche un universo simbolico che fornisce identità al soggetto". In questo scenario, solo l’idea dell’incontro e dello scambio permetterebbe di parlare del Mediterraneo come luoghi di condivisione tra diverse culture. "Per fare ciò – afferma Fatma – bisognerebbe che né io né voi avessimo dimenticato di appartenere a una sola comunità, quella mediterranea". In tale contesto, l’unica soluzione proposta dall’Occidente e dalle fasce arabe occidentalizzate è l’adesione generalizzata da parte dei Paesi arabi alle istanze del mercato, concepita come leva di accesso per i Paesi del sud all’ideologia dei diritti dell’uomo, alla ‘ragione’. Questo però non fa che costruire la frontiera più massiccia: quella dello scambio senza valore. Il progetto odierno del Mediterraneo è quello di scambiare la merce senza tener conto degli uomini e del loro rapporto col mondo, cioè senza permettere l’iscrizione dei loro segni d’identità in quello stesso scambio. Le popolazioni della riva sud, in questo modo, non possono integrarsi a quelle della riva nord che perdendosi. Così il mercato viene eretto a dogma e si tenta di imporre ai popoli che vivono al sud una concezione che è loro completamente estranea. In questo quadro l’islamismo reagisce proponendosi come una relgione-cultura di resistenza a questa imposizione: il potere politico infatti strumentalizza il sentimento religioso della gente facendo credere che la laicità sia irreligiosità, e quindi riesce a concentrare nelle sue mani il potere politico e religioso. D’altra parte, la questione dell’apertura all’altro sembrava affidata all’autoritarismo materiale e simbolico delle parti sociali occidentalizzate e del loro attacco incessante ai segni di appartenenza all’universo islamico-maghrebino. Per trent’anni i governi hanno sostenuto un solo modello di sviluppo economico, ma durante questi trent’anni il popolo algerino, per esempio, ha smarrito a poco a poco i propri simboli, i propri riti, la propria lingua, ciò che costituisce ogni identità. Solo il corpo è rimasto come veicolo di identità e di identificazione, così gli algerini si sono trovati a tracciare su di esso i segni violenti di un’identità negata, attraverso costrizioni di costume, posture fisiche e scorrimento di sangue. "L’incapacità di simbolizzare può generare perfino l’assassinio" afferma Fatma. Un altro argomento affrontato dalla Oussedik è quello del rapporto delle donne con la violenza, col sangue. Per Fatma l’idea di alcuni che le donne non abbiano niente a che fare con la violenza e che siano soltanto spettatrici è inaccettabile. Le donne esercitano la violenza prima di tutto a un livello definito ‘simbolico’: la violenza che le donne esercitano sui membri della famiglia, sui mariti e contro se stesse è quello dell’educazione, della trasmissione di valori acquisiti in un lungo apprendistato della sottomissione, dell’accettazione di non parlare, di lasciar fare. Sono proprio le donne che si tramandano, di madre in figlia, il silenzio, la sottomissione al maschio fino alla rivolta, che avviene solo per alcune e spesso troppo tardi. Un secondo livello della violenza è quello che riguarda proprio il sangue e la morte. In questo scenario complesso l’Italia ha lanciato la sua sfida mediterranea. Dopo l’intesa politica con la Libia di Gheddafi, il ministro Dini ricuce lo strappo con l’Algeria e rilancia le relazioni bilaterali. Il riconoscimento che l’Italia ha voluto dare all’Algeria, prima di ogni altro Paese dell’Ue, si basa sul concetto definito da Dini come "democrazia guidata". Il ministro degli Esteri si è detto convinto che una politica basata sulla cooperazione per le democrazie emergenti nel Mediterraneo sarà più edificante delle vecchie politiche basate sul confronto tra mondo industriale e Paesi in via di sviluppo. È una partita che l’Italia deve giocare perché, oltre alla geopolitica, è in gioco una posta economica e politica che non possiamo consentirci di perdere.