"IL DENARO"

21 giugno 1997

Carestie e libertà*

di Michele Capasso

Barcellona, 15 giugno 1997. Sto leggendo due libri di A. Sen, "Poverty and Famines" e "Hunger and Public Action" (Oxford, University press, 1981), in cui l’autore spiega la carestia ed esorta non tanto a valutare la disponibilità del cibo, quanto al possesso di "titoli" da parte dei gruppi vulnerabili, ovvero ai diritti sul cibo che tali gruppi sono in grado di farsi riconoscere.

I Paesi della sponda sud del Mediterraneo, accesso primario verso lo sconfinato continente africano, risentono ancora di alcune carestie e vivono con il timore che eventi del genere si ripetano: come le carestie nella fascia sub-sahariana, in Etiopia, che nel 1973 e durante i primi anni ottanta provocarono migliaia di vittime soprattutto tra i bambini. Eppure queste carestie si verificarono quando, a livello mondiale, vi era la massima disponibilità di cibo.

Occorre prestare attenzione ai mutamenti economici e politici attraverso cui particolari categorie vengono private della loro capacità di "disporre" del cibo. Il flagello della disoccupazione, ad esempio, se si diffondesse su vasta scala, investendo ancor di più i Paesi della sponda sud del Mediterraneo, potrebbe provocare una situazione di fame assai diffusa.

Quali le cause? Ne cito alcune: il crollo dei manufatti artigianali, l’elevato aumento del prezzo dei prodotti alimentari rispetto ai salari, l’incapacità di conseguire un reddito.

Appare chiaro che il fenomeno delle carestie – che, in epoca di sofisticate tecnologie, alcuni definiscono "arcaico" – è in realtà strettamente connesso allo sviluppo delle nuove tecnologie che, incrementando di fatto la disoccupazione, elevano il rischio del ripetersi di tali calamità. Progresso, disoccupazione, emigrazione, fame e libertà sono strettamente connessi tra loro.

Se da un lato le nuove tecnologie – lo sviluppo di sistemi multimediali e la loro diffusione attraverso il cablaggio delle città – semplificano la vita di noi cittadini, dall’altro producono disoccupazione, rendendo inutili attività che fino a ieri venivano svolte dall’uomo. Tutto ciò nasce non solo da un’esigenza indispensabile della società, ma soprattutto da un calcolo utilitaristico generato dalla legge dei mercati.

L’utilitarismo valuta quasi esclusivamente i risultati conseguiti e pochissimo la libertà nel raggiungerli. Oggi viviamo in un’epoca in cui non è difficile affermare che il calcolo utilitarista si pone contro la libertà. Il processo di globalizzazione in atto, specialmente nella regione mediterranea, vedrà nel prossimo secolo il diffondersi di una società multietnica per l’incremento di flussi migratori provenienti in gran parte dai Paesi della sponda sud. Questo fenomeno, se non sarà regolato da leggi elaborate non soltanto su basi utilitaristiche e di mercato, potrà provocare molteplici conseguenze ed innescare rigurgiti nazionalistici o fenomeni di fondamentalismo religioso, anche nei Paesi europei dove di giorno in giorno aumenta il numero degli immigrati.

Occorre trasformare in risorse questa gente che, ricordiamolo, lascia le proprie radici spesso solo perché "ha fame". Innanzitutto bisogna avere la capacità di accoglierli e rispettarli. Avere fame, dipendere da bisogni primari non deve significare la perdita della propria libertà.

La libertà significa soprattutto libertà dal bisogno, dalla fame. Non è questa la sede per analizzare quali siano i beni primari o le risorse minime di cui gli individui dovrebbero disporre, né per tracciare un rapporto tra "fame" e "libertà".

Desidero comunque focalizzare l’attenzione sui reali tipi di vita che le persone, specie nella regione mediterranea, possono scegliere di condurre e che riflettono diversi aspetti del "funzionamento umano". Alcuni di questi aspetti sono abbastanza elementari e si riferiscono al "godere di buona salute", "avere sufficiente cibo", "possedere un minimo livello di istruzione" e via dicendo. Altri sono legati alla capacità di una persona di scegliersi, in libertà, la propria vita. Una piena condizione della libertà dell’individuo va al di là delle capacità connesse alla vita privata: vanno valutati gli aspetti sociali non direttamente legati con la vita dell’individuo.

L’intervento sociale per ridurre la povertà e la fame deve considerare non soltanto i bisogni dovuti alla mancanza di beni primari e di risorse: occorre tener conto delle capacità e delle libertà dell’individuo nel contesto generale al fine di limitarne le diseguaglianze. Queste sono spesso determinate dalle migrazioni, dal sesso, dall’invalidità, dal colore della pelle, dalla posizione di ciascun individuo nella società. Sono le principali questioni del mondo moderno e si concentrano soprattutto nella regione mediterranea, dove esiste lo scontro/incontro tra diverse culture.

Oggi, più che mai, occorre scegliere i criteri per valutare le nuove povertà e i nuovi bisogni, ovvero l’esistenza di stati di privazione. È necessario considerare la povertà non solo in termini di basso reddito (che significa carenza di risorse), ma soprattutto in termini di insufficiente libertà di condurre una vita adeguata (che significa carenza di capacità) e anche, se non anzitutto, di conseguire i livelli di istruzione che consentono di essere nei processi di globalizzazione.

Per queste ragioni la Fondazione Laboratorio Mediterraneo ha deciso di dedicare a questo problema una delle sessioni del II Fòrum Civil Euromed: "Nuove povertà e nuovi bisogni". A Napoli, dal 12 al 14 dicembre 1997, esperti ed esponenti della Società Civile provenienti da vari Paesi europei e mediterranei si confronteranno su tematiche quali: "Migrazioni e società multietniche", "Solitudini tra comunicazione e mondializzazione", "Famiglie e trasformazioni sociali", "Le risorse dei giovani", "Le donne, agenti di sviluppo", "I giovani, la scuola e il mercato del lavoro; nuovi modelli di formazione professionale", "Il ruolo delle università", "Il valore della ricerca scientifica per lo sviluppo dell’occupazione".

Il flagello della disoccupazione e il problema del lavoro sono, in tale contesto – insieme all’inadeguata istruzione –, l’emergenza primaria da combattere per garantire un minimo di libertà e di pace nella regione euromediterranea.

Martedì 17 giugno 1997. Amsterdam. Diciotto milioni di disoccupati europei (ai quali bisognerebbe aggiungere gli oltre 50 milioni di disoccupati dei paesi della sponda sud del Mediterraneo) aspettano i risultati del vertice dei capi di stato e di governo. Tra un giro in bicicletta – che ha ravvivato Prodi – e una nottata a ricucire gli strappi di un’Europa fondata solo su brandelli di economia, il Consiglio d’Europa non decide nulla in merito. Ai disoccupati promette solo che si occuperà di loro. Come, quando e con quali mezzi non è dato saperlo. Compromesso, rinvio fino al 2000, flessibilità dei criteri. Sono queste le non-decisioni che lasciano perplesso Prodi, titubante Chirac, ed inducono il Premier danese ad indire un referendum sulle decisioni di Amsterdam.

La speranza di tutti noi era quella che nella capitale dovesse nascere la ‘grande’ riforma istituzionale, per fare dell’Europa un soggetto politico ed avvicinarla ad un’opinione pubblica spenta e delusa. Così si sarebbe potuto accelerare l’allargamento ai Paesi dell’est recuperando altresì la dimensione europea nel Mediterraneo. Quest’operazione è fallita. La lunga riunione tra i capi di governo e i ministri degli esteri ha prodotto piccole cose rispetto ad un grande progetto che si è smarrito lungo la strada: quello degli Stati Uniti d’Europa, attraverso il quale garantire occupazione e pace.

Il nostro mondo, con la forza che hanno i media, è sempre più "uno", ma resta anche "plurimo". È necessario costruire un’etica dell’economia. Occorre agire per attuare interventi strutturali in grado di produrre occupazione e libertà dai bisogni, rendendo gli individui "capaci" di possedere le risorse essenziali. Per noi europei e mediterranei è una strada obbligata.

Oggi si parla di tolleranza. Si "tollerano" gli stranieri, gli immigrati. È un nonsenso. In un futuro vicino, essi saranno cittadini a pieno titolo: non hanno bisogno di essere tollerati. Alla tolleranza preferisco il rispetto. Perché il rispetto è un diritto. Ogni essere umano ha diritto al rispetto che si deve alla dignità umana, e deve esigere di essere rispettato così com’è e quale desidera essere. Rispettare significa garantire all’individuo la libertà dal bisogno.

Cibo, istruzione, occupazione e libertà devono essere gli elementi primari per costruire una nuova società multietnica che, nel rispetto delle diverse identità e radici, potrà aiutarci a risolvere problemi planetari che, solo se uniti e liberi, potremo affrontare.