LA REPUBBLICA

09/06/2006

 

La fuga nella Jihad dei giovani arabi

di KHALED FOUAD ALLAM

Si potrebbe dire che Al Zarqawi sia morto due volte: la prima volta quando, all’inizio di quest’inverno, una faida interna ad Al Qaeda tentò di emarginarlo, si dice per la sua crudeltà. Ma le rivalità fra gruppi e leader carismatici sono un elemento del funzionamento delle società arabo-islamiche; nello studiare il fenomeno della assabiyya (spirito di corpo) Ibn Khaldun, filosofo arabo del XIV secolo, dimostrò come la violenza nelle società arabe fosse espressione delle rivalità fra i gruppi. Gli arabi hanno sempre sognato l’unità, ma raramente sono riusciti a realizzarla. L’analisi di una figura come quella di Zarqawi rivela la crisi asfissiante in atto nel mondo arabo e delle sue società: il suo è stato un percorso analogo a quello di molti altri, di tutta una generazione che è il prodotto della storia degli ultimi trent'anni del mondo arabo e musulmano. I giovani militanti dell'islam radicale fuggono qualcosa; è difficile credere che siano animati unicamente da un'utopia politica, poiché in realtà sono il prodotto dell'enorme disagio delle società arabe: società immobili, bloccate, impaurite dal cambiamento sociale, culturale, economico. Da oltre vent'anni il militantismo dell'islam radicale si nutre di situazioni psicologiche e sociali divenute vere patologie.  Così per molti anni l'Afghanistan ha risucchiato l'emarginazione sociale e psicologica di un'intera generazione, quella degli odierni trentenni e quarantenni, che allora partivano per l'Afghanistan, la Bosnia o altre zone critiche per sfuggire un mondo, e inventarne un altro che non è mai esistito. L'indottrinamento di quei giovani ha avuto facile gioco: quando il processo democratico dei propri Paesi è bloccato, non si crede più alla democrazia. Essi sono così caduti nella trappola di chi li ha convinti che la democrazia è un prodotto dell'occidente e non può essere conforme alla loro cultura. In termini sodali, la lotta, il militantismo, la violenza dell'islam radicale hanno sostituito un vuoto di cittadinanza e di status: diventare mujahid (combattente) in nome della fede significa costruirsi un ruolo, un grado in una società parallela, un riconoscimento interno al gruppo. Si vede bene come questi gruppi funzionino da contrappeso alle loro società di appartenenza. Nell'Algeria degli anni '90 circolava il libro di uno dei maggiori jihadisti d'Afghanistan, Abdullah Azzam, dal titolo "La mia lotta in Afghanistan". Dalla generazione degli anni '90 quel personaggio fu considerato un eroe, un eroe negativo cui molti più tardi si ispirarono, primi tra tutti i terroristi che insanguinarono l'Algeria nello scorso decennio. Ma la violenza del terrorismo nell'islam è anche il prodotto di un altro elemento. Chi visita le periferie delle grandi città del mondo arabo è colpito dalla situazione di enorme disagio, dal degrado urbano, dalla povertà che coabita con il consumismo. Questa peri-urbanizzazione iniziala negli anni '70 ha prodotto un  malessere sociale generalizzato, e ha creato una subcultura che si è tradotta nella delinquenza giovanile o è stata risucchiata dall'islamismo radicale. Bisognerebbe ragionare sulle città e sugli esseri che le abitano, città in cui tutto appare sottosopra, dove le antenne paraboliche coabitano con i venditori ambulanti, il computer con l'analfabetismo, l'occidente con l'oriente. E qui ci troviamo di fronte a un'insormontabile contraddizione: quella ili esseri umani che sono quasi obbligati a scegliere fra un modello tradizionale in cui non possono più identificarsi, perché la loro cultura si è comunque occidentalizzata nel corso del ‘900, e una personalità di ricambio che però in sé non esiste, e poiché essa non esiste l'individuo può abbracciare l'islamismo. Perché nel periodo in cui viviamo, dove tutte le forme di identità sono esacerbate, qualunque capitolazione culturale di fronte all'occidente viene considerata dall'islamismo come un'abiura alla propria identità. E’ per questo che Zarqawi, come altri, non è il prodotto della storia recente del mondo arabo-islamico. E se in occidente le forme della contestazione sociale si sono tradotte in movimenti letterari o poetici, come ad esempio la beat generation, in quei Paesi hanno preso la forma della devianza: nel nostro caso del terrorismo politico come espressione di un negativismo sociale. Bisognerebbe interrogarsi su che cosa significhi oggi avere vent'anni nel mondo arabo. Il disagio del cambiamento in atto è tale che si passa senza mediazione dall'infanzia all'età adulta: non c’è posto per l'adolescenza e per Ie sue pulsioni contestatrici. Così esse si traducono spesso in violenza. Tale terribile situazione traduce il malessere di una generazione che si ribella non solo contro il mondo ma, senza rendersene conto, anche contro se stessa. La democrazia è anche questo: la capacità di far crescere degli individui. Mi torna in mente una frase di Paul Nizan, compagno di scuola di Jean-Paul Sartre, anche lui contestatore e grande scrittore: "Avevo vent’anni, e non permetterò a nessuno di dire che è stata la più bella età della mia vita".