IL MATTINO

15/10/2006

 

La scrittura di Pamuk oltre il ponte

di Antonio Badini

 

Dalle reazioni, giustamente di plauso, alla concessione del Nobel della letteratura al romanziere turco Orhan Pamuk era lecito attendersi qualche valutazione più meditata e coerente con le motivazioni della scelta operata dalla giuria. In realtà, a leggere i commenti della stampa, si è avuto per un attimo l’impressione che lo scrittore di Istanbul più che il Nobel della letteratura avesse vinto quello per la pace. Molti hanno osannato Orhan Pamuk per le battaglie da lui condotte con coraggio per le cause degli armeni e della minoranza curda, ben pochi si sono invece soffermati sull’intreccio di sentimenti e di aspirazioni fra il Levante e l’Occidente di cui sono impregnate le sue opere più celebri. Ma se in un mondo che appare sempre più pervaso dall’approccio ideologico una posizione di parte, specie quando viene da quella giusta, non guasta, il troppo storpia. Innanzitutto l’eccesso di politicizzazione non rende giustizia alle qualità artistiche di Pamuk. Nel suo ultimo libro «Neve», Pamuk evocando Stendhal osserva melanconicamente come la politica in un opera letteraria faccia l’effetto di un colpo di pistola sparato nel bel mezzo di un concerto. In questo caso la detonazione è sembrata ancor più assordante poiché diretta al bersaglio per così dire secondario di Pamuk rispetto a quello più attuale della riconciliazione fra società islamica, stato laico, teocrazie e mondo moderno.

Si situano in questa tela di fondo i simboli dello scontro e dell’incontro fra le civiltà di cui fanno espressa menzione le motivazioni della scelta. È qui che si giocherà la partita dell’evoluzione della società mediterranea senza lo sradicamento delle sue ricche tradizioni. Ed è qui che il pensiero critico letterario potrà concorrere, reintroducendo il fattore umanistico come strenuamente suggerito da Edward Said, e rimettendo nel giusto binario il dialogo delle culture. È importante perciò che il messaggio di Stoccolma non sia mal compreso, non certo sminuendo la centralità della battaglia sacrosanta in favore dei diritti umani e delle minoranze ma resistendo alle lusinghe dei facili slogan e dell’amalgama che alla fine tutto diluisce non rendendo più chiari i bersagli delle singole azioni. I Pamuk e coloro che hanno concorso con lui fino all’ultimo, tra cui l’israeliano Amos Oz, il siriano Adonis e l’algerina Assia Djeba, sono destinati a irrobustire con la loro opera umanistica la voce della coscienza mediterranea che purtroppo ancora stenta a far breccia nella percezione dell’opinione pubblica. Se la critica celebra Pamuk deve almeno rispettare il suo travaglio, che è il travaglio di una larga parte della popolazione turca che simbolicamente, come l’autore, guarda al di là del Bosforo senza però voler rinnegare l’eredità di un passato parte della grande Storia, con una ricchezza spirituale, intellettuale e materiale che può essere tuttora fattore creativo di sviluppo e di sicurezza condivisi per la regione euro-mediterranea. Molti anni fa, nel 1989, il Nobel della letteratura premiò un altro maestro del romanzo realista popolare musulmano, Naghuib Mahfuz, da poco scomparso. Anche le sue storie rendevano talvolta la miseria e le disuguaglianze «sorridenti» perché narrate, sebbene con maestria, più con il colore locale che con l’inchiostro del sociologo severo. Eppure Mahfuz riuscì ad affermare, accanto alla specificità culturale, il comune sentire delle genti mediterranee dando al lettore un’ampia passibilità di immaginare i luoghi dove le storie che egli ambientava prevalentemente nel sobborgo cairota di Gamaleya avrebbero potuto egualmente svolgersi cioè sicuramente in alcuni quartieri di Napoli, Palermo, Marsiglia o Barcellona. Tornando a Pamuk, la metafora con cui l’autore descrive nell’opera «Istanbul» il paesaggio che egli ammira dal ponte sulle due rive del Bosforo, evoca la speranza che un giorno non lontano non debbano più essere i turchi a emigrare in Europa ma che sia invece l’Ue a estendere la sua azione al di là del ponte, portando in Turchia le proprie conoscenze e le sue conquiste della modernità.