"IL DENARO"

25 ottobre 1997

Luci ed ombre del nostro mare*

di Michele Capasso

Roma, 18 ottobre 1977. Parlo con alcuni diplomatici arabi sul ruolo dei loro Paesi nel processo di partenariato. Alcuni di loro, rassegnati, dicono che questo mare avrà sempre "luci ed ombre".

Il Mediterraneo è apparso ai primi uomini venuti dall’Africa o dall’Oriente come la terra promessa. A loro modo, di fronte allo spettacolo della grande distesa d’acqua, hanno probabilmente lanciato lo stesso grido emesso dai soldati di Senofonte di ritorno dalla loro spedizione in terra Persiana, "Tàlassa"(mare). Perché il mare è bello, ma anche perché è circondato da pianure che apparvero accoglienti a coloro che volevano piantare i nuovi cereali venuti dall’Oriente. E così, nel corso dei millenni, intorno a questo mare, è nata una grande civiltà caratterizzata da centinaia di strati diversi e capace di trasformare e forgiare, in un insieme armonioso, le varie culture che approdavano sulle sue sponde.

Quali sono le lezioni da trarre da queste numerose civiltà Tante, naturalmente. Due grandi civiltà hanno lasciato una grande impronta. La prima è la civiltà cretese, che all’alba della storia ha inventato la scrittura contribuendo a far nascere nel Mediterraneo il periodo storico vero e proprio. Questa civiltà ha recepito un grande messaggio quello della pace. I cretesi, agli ordini del re Minosse, hanno capito una cosa fondamentale per poter progredire, per poter cancellare lo spettacolo a volte soffocante di questi dei assetati di sangue, raffigurati sulle pareti delle regge orientali, occorreva trasformare la società e abbandonare il concetto di guerra, pensando al concetto di cooperazione. Ed è così, che a partire dal XVII secolo a.C. e dalla XVIII dinastia in Egitto, è nata questa prima grande politica di collaborazione e di pace che, attraverso i cretesi, ha consentito all’Oriente di frequentare il Mediterraneo e alla Siria di essere in contatto diretto e proficuo con l’Egitto e la valle del Nilo.

Questa lezione di pace ha portato, naturalmente, benessere. Il dolce sorriso delle raffigurazioni che possiamo ammirare sulle pareti delle regge cretesi o anche dei palazzi del continente del secondo millennio a.C., sono la diretta conseguenza di questa politica di pace.

Il secondo esempio è legato ovviamente alla storia del Mediterraneo.

Tremiladuecento anni fa all’incirca, da Troia in fiamme ai confini orientali del mediterraneo, un uomo sconfitto, Enea, fuggiva verso occidente, portando sulle spalle il padre Anchise. Gli dei gli avevano ordinato di fondare altrove una nuova Troia che fosse finalmente una città di pace e una città felice. Il padre morì durante il lungo peregrinare per il nostro mare. Finalmente, Enea approdò in Italia, nel Lazio. Oramai lo scopo della sua missione era vicino ma quale sarebbe stato il destino della nuova città futura Dagli inferi giunse la voce del vecchio profugo "ricordati che la tua vocazione è di inculcare agli uomini la consuetudine della pace".

"Pace nel Mediterraneo" è il grido che sale dal profondo delle culture del nostro mare interno ed è rivolto a tutti quelli che hanno il compito di costruire l’avvenire lo lanciano, come il vecchio Anchise sopravvissuto alla distruzione di Troia, coloro che hanno conosciuto le sofferenze della guerra, della sconfitta e dell’esilio.

Una visione di pace in un mondo in cui, in fondo, le tre parti del mondo, i nostri tre continenti, non sono ancora sentiti se non, appunto, come parti geografiche.

La grande eredità romana non ci ha mai abbandonato i tre continenti, almeno fino a un’età relativamente recente, sono sempre stati sentiti profondamente come complementari. L’Europa romana, come l’Asia romana, come l’Africa romana – sappiamo bene che si può parlare di un’Europa, di un’Africa e di un’Asia romana soltanto pensando ai bordi mediterranei dei rispettivi tre continenti – stanno addossate a quello che i romani chiamano il "mare nostrum". E i tre continenti non si costituiscono come unità a sé stante, ma vengono letti proprio dal centro del Mediterraneo. Non a caso Roma è situata in questa strana propaggine, che si addentra nel Mediterraneo spaccandolo quasi in due nella direzione nord-sud è la penisola italica che non solo spacca in due il Mediterraneo, ma costituisce quasi un ponte, una linea di scorrimento fra l’Africa, l’Europa e la stessa Asia.

Della grande tradizione, della grande espansione musulmana, noi mediterranei conosciamo per la verità solo un’apicequello occidentale.

Qualche volta siamo vittime di uno strano errore di prospettive che bisogna correggere se vogliamo recuperare dalla lezione della storia quella tradizione di scambio, di dialogo ed amicizia che è molto più profonda e molto più continuativa di quanto non appaia e che supera di gran lunga l’altra tradizione quella delle guerre. Queste ultime sono molto spesso episodi barbari, violenti. Quando una guerra è cronicizzata, succede alla guerra quello che succede di solito alle malattie croniche è attenuata nella sua violenza distruttiva e si impara a conviverci. Tutto questo è doloroso e i recenti esempi della ex Jugoslavia e dell’Algeria lo testimoniano.

Quando, chiuso il libro di guerre e di storia, si passa al libro di filosofia, dobbiamo spiegarci come mai, proprio quei secoli sono quelli del ritorno della grande cultura greco-alessandrina in Occidente attraverso il tramite arabo ed ebraico. A questo punto, c’è qualcosa che non torna se non si penetra la scorza drammatica, tragica, della violenza delle armi scoprendo che quella violenza non era quella sistematica e razionalizzata della guerra totale e moderna, ma era una guerra pervia, permeabile, episodica, cronicizzata, attraverso la quale passavano gli scambi. E non solo quelli commerciali ed economici, ma soprattutto la circolazione delle idee, in un modo che a noi può sembrare anche paradossale, abituati come siamo alla violenza delle guerre non solo di religione, ma anche ideologiche, che hanno insanguinato il nostro secolo e l’amicizia tra popoli che pur si sentivano rivali.

E allora ecco lo sconcertante paradosso davanti a un mondo moderno che si sforza di sentirsi unito e percorso da un afflato fraterno che supera le razze, le etnie, le religioni, e che, ciò nonostante, è invece percorso da guerre continue il paradosso fra questo mondo, che è quello che purtroppo conosciamo, e un mondo medievale, rinascimentale, pre-moderno dove, invece, la rivalità è rivendicata, ma dove nonostante tutto ci si comporta come amici e non infrequentemente come fratelli.

È a questa dimensione, io credo, che si debba tornare, guardando al ruolo di sintesi che il Mediterraneo ha sempre mantenuto. Fino a quando la sua centralità e scomparsa.

Le grandi scoperte spagnole e portoghesi aprono il mondo delle grandi circumnavigazioni, delle grandi acquisizioni mondiali, ma il Mediterraneo diventa una periferia. Questa circostanza colpisce a morte il nemico secolare della cristianità, la potenza turca-ottomana un nemico che viveva in simbiosi con la vecchia Europa.

Con il crescere di quell’Occidente, il Mediterraneo resta una periferia e con esso comincia a languire anche l’Europa, quella che noi conosciamo come continentale e che aveva vissuto e si era sviluppata nel Medioevo. Questa magia un po’ oscura, si rompe nel corso dell’Ottocento, quando il taglio del Canale di Suez fa di nuovo rifluire insieme alle acque, una corrente commerciale e civile che prima si fermava, perché l’accesso a Gibilterra, come quello ai Dardanelli, costituivano soltanto l’ingresso a due bacini chiusi, ormai periferici. Il Canale di Suez è l’ultimo grande capitolo della grande avventura coloniale degli europei ma, nello stesso tempo, rimette in circolazione le cose. Rimette in circolazione la storia, soprattutto quella mediterranea con tutti gli elementi drammatici, tragici che ne sono seguiti. Pensiamo alla Prima e alla Seconda Guerra Mondiale e poi alla crisi arabo-israeliana, ma certamente anche alle crisi in atto, a quelle presenti, a quelle che ci aspettano in futuro.

Non ci facciamo illusioni su questo però questa funzione di raccordo, questa funzione di fusione, questa funzione di rinnovata fratellanza, il Mediterraneo probabilmente la sta di nuovo recuperando. Il fatto stesso che oggi se ne parli in una prospettiva di complementarità rispetto all’Europa, e che soprattutto noi euromeridionali – gli italiani, gli spagnoli, i greci, i popoli balcanici e della ex Jugoslavia – ci sentiamo, nello stesso tempo, europei e mediterranei, e non potremmo sentirci pienamente una cosa, se non ci sentissimo anche l’altra, sono probabilmente un auspicio per un futuro che potrebbe essere di pace e di fratellanza. Un proverbio arabo dice che "Solo Iddio è padrone del futuro, ma l’uomo può, sommessamente, suggerire a Dio le parole che possono aiutare Dio a scegliere", e noi speriamo tutti che l’uomo del ventunesimo secolo sappia pronunziare all’orecchio di Dio queste parole.