"IL DENARO"

13 settembre 1997

Non abbandoniamo il popolo algerino*

di Michele Capasso

Settembre 1997. Puntualmente il Mediterraneo ritorna alla ribalta della cronaca mondiale per eccidi, omicidi, assassini, torture, violenze, stupri e quanto altro la più fervida fantasia dell’horror riesca ad adattare ad una realtà che la supera.

Algeria, Israele, Libano, Palestina. Questi i luoghi principali del macabro teatro che vede vittime innocenti sacrificate a non meglio specificati "fanatismi" o "fondamentalismi" pseudo-religiosi.

Lunedì 1 settembre 1997. Un algerino che vive da tempo a Parigi così commenta il recente eccidio di Rais, piccolo villaggio a sud di Algeri "Ho l’impressione di assistere alla distruzione completa dell’identità algerina. Ho un piede qui, a Parigi, l’altro laggiù, ad Algeri, e tutti e due nella merda".

Giovedì 28 agosto 1997. Durante la notte gruppi di fondamentalisti fanatici torturano, bruciano, violentano, decapitano, sventrano, mutilano, massacrano più di 200 abitanti del villaggio di Rais. Quasi tutti vecchi, donne e bambini. Vittime innocenti.

Kofi Annan, segretario generale dell’ONU in visita sabato 30 agosto alla Mostra di Venezia, ha la reazione più ferma lancia un appello alla tolleranza e al dialogo, sottolinea la necessità d uscire dall’indifferenza e di non abbandonare la popolazione algerina a questa triste sorte.

Abassi Madani, dirigente storico dell’ex "Front islamique dei Salut (FIS)", apprezza l’appello di Annan e chiede l’immediata fine della violenza in Algeria. Dopo la sua liberazione – avvenuta lo scorso 15 luglio – per la prima volta Madani, tramite suo figlio Abbas Salman, si dice pronto "a lanciare un appello per fermare lo spargimento di sangue e preparare le condizioni per un dialogo serio e costruttivo".

Il governo di Algeri ritiene tuttavia inaccettabile l’ingerenza del Segretario generale dell’ONU ricordando che le competenze di questa organizzazione sono fondate sul rispetto della sovranità degli Stati e sulla non ingerenza nei loro affari interni.

Al grido di Kofi Annan si sono aggiunte le voci di molti politici ed uomini di cultura Chirac ha esternato la propria indignazione il Papa da Castelgandolfo ha messo in guardia il mondo occidentale da questa "ingiustificabile spirale di violenza e barbarie" l’Osservatore Romano ha denunciato "la comunità internazionale che assiste immobile da troppo tempo alle tragedie che sistematicamente insanguinano la riva Sud del Mediterraneo" la Lega Araba ha condannato questi "massacri selvaggi eseguiti da gruppi di fanatici ormai alla deriva".

Un appello sentito è stato lanciato da esponenti religiosi d’El Azhar, al Cairo, dove risiedono i rappresentanti più significativi dell’Islam summita. Questi ultimi esortano "l’umanità e in particolare, i musulmani, ad agire con fermezza e rapidità al fine di mettere in salvo donne, vecchi e bambini che in Algeria sono sgozzati come animali prima che i loro corpi vengano bruciati". L’Islam bandisce in maniera categorica l’assassinio, a maggior ragione se si tratta di donne, bambini, vecchi gente inerme e innocente.

I media si sono dimostrati indifferenti sulla tragedia algerina. Tranne qualche quotidiano in Italia, nessun telegiornale ha dato adeguatamente risalto alle recenti stragi. Sembra quasi "normale" che in un paese molto vicino alle nostre radici culturali ogni giorno vengano sgozzate centinaia di persone inermi. La reazione complessiva è enormemente inferiore a quella manifestata nei confronti delle stragi in ex Jugoslavia. Una motivazione potrebbe essere ricercata nella mancanza di identificazioni "pseudo-razziali" In Algeria non ci troviamo di fronte a lotte tra serbi, bosniaci o croati, né visualizziamo personaggi crudeli – come Karadzic o Miro Bajramovic, il "boia" croato arrestato in questi giorni – responsabili dei massacri di città come Tuzla e Srebrenica.

Nel caso algerino non sappiamo contro chi protestare e come giustificare interventi diretti anche se solo morali. In questi giorni molteplici appelli vengono sottoscritti da intellettuali e uomini di cultura, anche italiani. Questa volta non bastano. In Algeria un governo semi-dittatoriale si scontra spesso con una massa di giovani senza futuro. La povertà fisica, l’analfabetismo, la densità demografica ed un fanatismo assoluto frutto dell’ignoranza spingono centinaia di giovani a combattere una guerra assurda, ad essere protagonisti di una ritualità macabra. Spesso è la loro unica scelta l’alternativa è consumarsi nel nulla.

In tale scenario l’indifferenza del mondo occidentale – la nostra astensione – è un pericolo ed una colpa un pericolo perché l’Algeria è un Paese dove la pace è indispensabile come l’aria e come l’acqua impedirne il processo significa soffocare e assetare quel popolo una colpa perché l’Algeria è un paese ricco, ci rifornisce di energia ed ha con l’Italia e le altre nazioni europee scambi considerevoli.

Trascurare tutto questo è un torto che facciamo verso la storia e verso noi stessi.

È interessante capire come vive questa tragedia la più numerosa comunità di Algerini presente in un Paese occidentale quella di Parigi.

Gli algerini di Parigi si chiudono in un preoccupante silenzio che, spesso, racchiude il pudore e l’orgoglio di una comunità che non sopporta questa barbarie. I pochi che parlano esprimono sdegno e vergogna per questo ritorno al Medio Evo e stizza e collera per assassini che non rispettano le regole elementari di una guerra che sta trucidando solo civili inermi.

Ali, Djemal, Assia, Ahmed e tanti altri non sanno trovare le parole adatte.

Assia rompe il silenzio e, guardando la madre, urla "Non sappiamo spiegarci il perché di questi massacri fratricidi. Spesso mia madre cerca una giustificazione. Tenta di dare la colpa agli americani o ad altri. Poi si rende conto che non è così".

L’anziana signora conosceva Mustapha Akkal, capo del Gruppo Islamico Armato (GIA) dell’Algeria occidentale. Lei lo considerava un buon uomo è stato ucciso in un’imboscata delle forze di sicurezza algerine, alcuni giorni fa.

Un altro vecchio piange il suo villaggio di origine era proprio Rais. Dice "Non posso credere che veri musulmani abbiano potuto fare questo. Sono solo belve feroci".

Un professore di letteratura è fuggito da Algeri. Per sdegno e per paura. Ora lavora in un ristorante alla periferia di Parigi. Fa il cameriere. È triste e dice "Sono in contatto con molti miei amici di Algeri. Alcuni di loro minimizzano gli eventi per non creare preoccupazione. Ma io so perfettamente che molti di loro preferirebbero fuggire, per non sottostare a due mafie quella dei militari e quella dei fondamentalisti".

L’intera comunità degli algerini a Parigi denuncia sia il potere statale che i terroristi. Secondo molti di loro i fondamentalisti, con i loro massacri, avallano le azioni delle autorità di Algeri, impedendo la naturale contestazione sociale nei confronti di una classe politica che non riesce a distribuire equamente le risorse di un Paese che è tra i più ricchi della sponda sud del Mediterraneo.

È opinione diffusa, in questa comunità che non crede più nel suo paese d’origine, che le autorità algerine facciano il gioco dei terroristi e che non siano affatto in buona fede. Alcuni giovani di diciotto e sedici anni hanno uno slancio di orgoglio "Un giorno, a qualunque costo, ritorneremo laggiù. Se la situazione non evolve saremo noi a mutarla per consentire alla nostra gente di poter vivere in pace, di uscire dal buio".

E di "buio" ha parlato l’arcivescovo di Algeri alcuni giorni fa a Viareggio, accompagnando padre Fouchet vincitore del premio Versilia. Questo padre è l’unico superstite tra i sette trucidati tempo fa dai terroristi algerini. E proprio lui, vittima diretta, esorta a "riaccendere la luce in questo lembo di Mediterraneo per evitare di uccidere due volte quel popolo".

Mentre scrivo queste righe altre donne, bambini e vecchi vengono sgozzati un folle rito tribale continua a macchiare di sangue le coscienze di tutti noi. La mattanza continua anche senza sangue molti intellettuali, giornalisti, registi, uomini e donne di cultura e di scienza dell’Algeria vogliono aiutare il loro Paese. Non hanno paura. A loro mancano i mezzi per far giungere la loro voce, a noi la comprensione ed il coraggio di aiutare un popolo il cui destino è legato anche al nostro.