"IL DENARO"

15 febbraio 1997

Ramadan di sangue*

di Michele Capasso

Napoli, ottobre 1996. In un appartamento di via Santa Lucia incontro il console generale d’Algeria ed il suo addetto culturale. Dopo l’ambasciata romana, il consolato napoletano è l’unica rappresentanza algerina in Italia. Il diplomatico, colto e disponibile, chiede aiuto per il suo Paese promuovendone la cultura, la storia ed il patrimonio culturale e ambientale. Alla mia naturale domanda sui motivi di una guerra che da cinque anni semina terrore mi risponde: "è un imprevisto della storia. L’Algeria, con le sue tradizioni culturali dovute al legame con la Francia, poteva essere il Paese guida per costruire un’Europa mediterranea". Il console si congeda offrendomi libri, opuscoli e video sulla storia algerina e sulle sue risorse turistiche e culturali.

La prima volta che mi recai in Algeria fu per un fine settimana d inizio estate. Ero contento di poter godere un pezzo d’Africa mediterranea: spiagge bianche, mare limpido, aria fine del deserto, una storia antica e fiera. E perché no: ero anche curioso di comprendere in che modo l’influenza francese si fosse miscelata con la cultura di quei luoghi. Sarei dovuto ritornare in Algeria prima dello scorso Natale. Il volo AH2025 delle linee algerine è cancellato e con esso il mio viaggio. Uomini d’affari, per lo più pendolari, sbuffano contando le perdite di tempo e di denaro. Oggi andare in Algeria significa per molti terrore e morte. Non per il numero delle vittime (sono molti di più i morti sulle nostre strade), ma per l’impotenza dello Stato e la ferocia dei terroristi islamici.

L’ala dura degli intregralisti – il Gia – è costituita non solo da gruppi di afgani e da residui dell’opposizione armata (Ais), ma, soprattutto, da giovani disperati e emarginati e senza speranza per il futuro. La miseria e l’ignoranza generano presunzione e odio spingendo questi giovani a gesti efferati. Ma perché sgozzare e tagliare teste? Per quale motivo accanirsi su vecchi, donne e bambini inermi, com’è accaduto nei giorni scorsi?

Ho cercato di rispondere a questa domanda. Ho voluto capire ragionando.

Tahar Ben Jelloun mi dice che questa barbarie si accanisce volutamente contro gli innocenti, inserendoli quasi in una logica sacrificale assimilabile ai riti "woodu" o di altre sette. Tahar ha interrogato algerini che da tempo vivono in Francia: tutti hanno risposto che "sgozzare" anime innocenti è una sorta di atto sacrificale. Come quello del montone che si sgozza alla festa dell’Aid El Kebir per celebrare il ricordo di Abramo che aveva rischiato di sacrificare il proprio figlio.

Il Gia ha scelto il mese del Ramadan per "dedicarsi" a questa campagna di sacrifici umani. La scorsa estate, quando i militanti del Gia rapirono e trucidarono sette monaci francesi, non si riusciva a comprendere l’accanimento verso uomini che dedicavano la loro vita ad aiutare la povera gente d’Algeria. Questi frati erano considerati "infedeli" alla religione musulmana: il loro "sacrificio", il loro "sangue" era legittimato dalla causa per la quale combatte il Gia: quella di una repubblica islamica. Ma il Gia non è assolutamente identificabile con il mondo arabo o con l’islam: la sua follia appartiene esclusivamente agli uomini che lo compongono e non alla religione musulmana che, anzi, è insultata dalle loro azioni. In questo gruppo vi sono sicuramente infiltrati dei servizi segreti: vogliono terrorizzare la Società Civile, scoordinare il potere ed impedire le elezioni che dovrebbero legittimare il presidente algerino Zeroual.

In tale contesto, la questione algerina alimenta polemiche in Francia e in Italia.

Tre partiti dell’opposizione algerina, del tutto anti-integralisti, hanno diramato un duro comunicato contro l’intenzione del Governo italiano "di convocare una conferenza internazionale sull’Algeria", come espressamente richiesto dal sottosegretario agli Esteri Piero Fassino. Quest’ultimo aveva evidenziato come la comunità internazionale abbia sottovalutato la crisi algerina e l’esigenza di passare ad azioni concrete. Il ministro Dini guarda oggi con preoccupazione all’Algeria e intende agire fino a quando la questione algerina non trovi una soluzione. In Francia Giscard d’Estaing è favorevole alla partecipazione alle elezioni legislative algerine (previste per il prossimo giugno) anche delle forze integraliste, "Fronte islamico di salvezza" compreso.

In questo scenario complesso e confuso le donne algerine hanno un ruolo determinante. Khalida Messaoudi2, tra le principali personalità del movimento femminista, ha sfidato i gruppi integralisti promuovendo una manifestazione con centinaia di persone che scandivano slogan contro "gli assassini e gli sgozzatori". La polizia ha tentato di dissuaderla per evitare che, insieme agli altri manifestanti, si radunasse nel quartiere di Belcourt, dove il mese scorso un’ autobomba uccise 21 persone (secondo la stampa ufficiale) – oltre 50 secondo i testimoni. Assia Djiebar3 continua a ripetermi che in questa barbarie algerina l’islam non c’entra. Gli ideali non sono religiosi: "loro non vogliono costruire moschee, hanno soltanto sete di potere". Le donne algerine hanno piena coscienza di questo e sono, da sempre, in prima linea per tentare di salvare il salvabile. Anche rischiando la propria vita.

Dal 10 gennaio 1997, durante il mese del Ramadan, sono stati uccisi 200 civili, feriti oltre 300. Antar Zouabri – considerato il nuovo leader del Gia – aveva lanciato un ultimatum avvertendo che nel "mese sacro" si sarebbe intensificata la guerra per "punire gli infedeli". E continuano, quelli del Gia: "Algerini, fate le vostre abluzioni prima di uscire di casa: così, se morirete, andrete in paradiso. I nostri leoni, portabandiera della guerra santa, vi colpiranno in pieno giorno!" La follia di questa apologia della barbarie si commenta da sé.

Nel 1966 Gillo Pontecorvo girò il film "La battaglia d’Algeri". Da quelle immagini fu possibile capire il travaglio di un popolo in lotta per la libertà. Marcel Bigeard, celebre comandante dei parà francesi contro il Fln (Fronte di Liberazione Nazionale), quarant’anni fa definì duramente la battaglia d’Algeri "del sangue e della merda". Allora la Francia, accusata di condurre una spietata guerra coloniale, denunciò – invano – gli errori e gli orrori dei terroristi del Fln. Nell’evidenza della barbarie odierna bisogna riconoscere che quelle accuse, quegli avvertimenti erano fondati. La guerra civile di oggi, con le sue torture e le folli mattanze, è diversa: non è una guerra coloniale.

Venerdì 31 gennaio 1997. Sono con Juan Prat, da poco ambasciatore di Spagna presso il Quirinale. Commentiamo – tra gli altri – i fatti di Algeria. Conveniamo sull’occasione perduta di questo Paese. Insieme alla Francia, l’Algeria entrò a far parte di quell’Europa di allora (il prossimo 25 marzo si celebrerà il quarantennale della nascita d’Europa e dei suoi fondatori: De Gasperi, Adenauer, Shuman e Spaak –). Se fosse stato possibile mantenere in qualche modo l’Algeria al fianco dell’Europa, potevano essere gettare le basi per un duraturo partenariato tra il Maghreb e gli Stati europei. Una grande occasione perduta.

La Francia e l’Algeria continuano ad essere accomunate dal loro destino. La storia e le memorie comuni, gli attentati terroristici in Francia, il timore di nuovi attacchi obbligano i francesi a guardare l’ex colonia con estrema costante attenzione. Spieghiamo perché.

Questa guerra – che è esclusivamente "per il potere" e dove la religione è un’alibi – vede da cinque anni contrapporsi i militari e gli islamisti. Poche testimonianze sulle vittime. Poche immagini. Poca attendibilità. In questi casi non resta che affidarci a chi, come Severine Labat, Benjamin Storo, Nicole Chevillard – un tempo conosciuti solo da studiosi della storia e della cultura del Magreb – sono noti oggi, soprattutto in Francia, per essere tra i pochi in grado di farci capire qualcosa nel caos algerino.

Questi esperti, interpellati di recente da un quotidiano, hanno espresso un forte pessimismo su una soluzione pacifica entro breve termine del conflitto algerino: un conflitto che vede il potere in mano ad una giunta militare costituita da una dozzina di generali che non hanno nessuna intenzione di abbandonare il campo e, al tempo stesso, non possono – secondo alcuni "non vogliono" – distruggere i gruppi islamici armati. Chi ci va di mezzo in questa guerra di potere è, come al solito, il popolo degli innocenti che dovrà pagare ancora con altre vittime.

L’Algeria sta per diventare "un’altra Bosnia", "un altro Libano". E il Mediterraneo è sempre di più un mare senza pace.

La guerra civile algerina si svolge al buio, in un’ombra cupa dove è arduo districarsi. C’è il rischio che diventi una guerra "pura, universale, lunga e dura". Algeri "la Bianca" è divenuta Algeri "la Rossa". Questa città, che fu per molti esaltazione e fierezza, può diventare nel prossimo futuro una nuova Sarajevo.

La Comunità Internazionale deve capire questo rischio è imminente e, anziché manifestare solo stupore e impotenza, deve con ogni mezzo contribuire a ripristinare la pace in questo lembo di Mediterraneo.

Giovedì 13 febbraio 1997. Mentre scrivo queste righe è stato reso noto che a Jijel un commando di integralisti ha ucciso 17 militari.

Il Ramadan è finito ma la folle mattanza continua.