"IL DENARO"

11 gennaio 1997

 

Tumulti di un mare, tumulti di Napoli

di Michele Capasso

Sabato 4 gennaio 1997. Baltasar Porcel, venuto a Napoli per collaborare alla stesura del programma definitivo della seconda edizione del Fòrum Civil Euromed – attivato dalla Fondazione Laboratorio Mediterraneo – e per controllare l’edizione italiana del suo libro "Mediterraneo, tumulti di un mare" che la Fondazione pubblicherà nel prossimo aprile.

Napoli 31 dicembre 1996. Ore 18. Per tre ore, in un’atmosfera di vigilia e con le strade deserte, con Baltasar e la sua famiglia, visitiamo il Centro Storico Gesù Nuovo, Santa Chiara, San Gregorio Armeno, Piazza San Gaetano, Napoli Sotterranea. L’avvicinarsi della mezzanotte è scandito da botti che nei vicoli stretti rimbombano e incutono timore. A Santa Maria Maggiore un giovanotto scherzosamente tenta di venderci il campanile. Passeggiamo attraverso luoghi dove gruppi di persone, più o meno da duemila anni, praticano le stesse attività. Nel Centro Storico, sulla base delle sue memorie, sta nascendo uno straordinario esperimento di città la "memoria" come progetto e come mantenimento dell’"equilibrio instabile", tipico di Napoli. Percorriamo velocemente la collina di Posillipo fino a Nisida, giungendo tardi al cenone.

I fuochi incuriosiscono e abbagliano gli ospiti una notte limpida fa da sfondo al golfo dove, in lontananza e in vicinanza, i bagliori e i suoni dei botti salutano il nuovo anno, lasciando sul campo 200 feriti e molteplici arti smaciullati. Tahar Ben Jelloun2, è il primo a telefonare per gli auguri: anch’egli è a Napoli per il Capodanno e con lui parliamo delle trasformazioni e dei progetti della città e dell’intera Regione.

Concludiamo la "nottata" in piazza Plebiscito. La festa è finita. Cumuli di bottiglie riempiono il basolato. Micidiali bombe "Maradona" mettono a repentaglio l’incolumità dei passanti e dei monumenti.

"Conosci la storia di queste due statue a cavallo" mi chiede Violante, figlia di Baltasar, dal centro della piazza. Le rispondo che è una storia curiosa e divertente. La statua di Carlo Borbone a cavallo non è a lui destinata ed originariamente rappresenta Napoleone. Viene commissionata al Canova da Giuseppe Bonaparte, re di Napoli. L’avvento di Ferdinando di Borbone è più veloce del completamento della statua del "nemico". Chiunque, al posto di Ferdinando, l’avrebbe fatta distruggere ma lui ritiene di utilizzare il cavallo e incarica Righetti di sostituire il cavaliere. Accade così che Carlo III, padre di Ferdinando, si ritrova sul cavallo di Napoleone. Pochi anni più tardi anche Ferdinando vuole tener compagnia al padre incarica infatti il Canova di riprodurlo in una posizione analoga. Ma Canova muore riuscendo a finire solo il cavallo Ferdinando non si scoraggia e, con un concorso vinto da Antonio Calì, fa ultimare la statua. Dal 1829 Carlo e Ferdinando siedono sui cavalli del Canova, posizionati nei due fuochi dell’ellisse formata dal colonnato.

"Perché questa statua è così austera, imponente" incalza Violante, vicino all’ingresso di Palazzo Reale. Si avvicina a Carlo V. Anche questa statua ha una storia singolare. Viene commissionata a Vincenzo Gemito, scultore napoletano dell’Ottocento, considerato l’incarnazione del genio e della follia. È uomo privo di cultura storica e "individuo strano", soprattutto per i frequenti attacchi d’ira. Quando gli commissionano questa statua si rifiuta materialmente di eseguirla. Odia il marmo che "non cede alla pressione delle mani, come la creta e la cera". Il bozzetto in marmo lo esegue Antonio Pennino, artista sconosciuto e mediocre. L’opera finita irrita Gemito che, in un eccesso di rabbia, cerca di distruggerla a martellate.

"Perché queste otto statue sono collocate qui" chiede ancora la ragazza. Qualunque napoletano verace risponderebbe "queste statue servono a sorreggere il palazzo". Questo palazzo, progettato da Domenico Fontana, viene restaurato dopo l’incendio del 1837. Ciò nonostante, poco tempo dopo, comincia a dare segni di cedimento. Luigi Vanvitelli pensa di consolidare la muratura principale chiudendo, alternativamente, le arcate del piano terra prospiciente la piazza. In questi "vuoti" Umberto I di Savoia, nel 1888, dispone che siano allocate le otto statue dei suoi "colleghi".

Ci avviciniamo al grande porticato ad emiciclo e Baltasar mi chiede come mai manca un leone dall’ultimo basamento. A questa domanda non rispondo con immediatezza. Inizialmente penso di cavarmela con un "non lo so". Ma la mia memoria tira fuori una storia, su questo leone, da me letta sui giornali tempo fa. Napoli, inizio di settembre del 1975. Don Pasquale, ex contrabbandiere e parcheggiatore abusivo di piazza Plebiscito, confida ad un cronista de "Il Mattino" che il basamento finale, sul lato sinistro del colonnato, è privo del leone di pietra. Dopo alcune verifiche il giornale titola in prima pagina "Hanno rubato un leone di pietra da piazza Plebiscito". Lo scandalo si diffonde e l’inchiesta si allarga, insieme allo sdegno dei napoletani. Dopo alcune settimane uno studioso di eventi napoletani si presenta al giornale esibendo alcune vecchie stampe in una di queste, datata 1840, si vede chiaramente che mancava il leone di pietra dall’ultimo basamento fin dal giorno dell’inaugurazione. Quindi mai nessuno ha rubato il leone, perché su quel podio non c’è mai stato. Chiedo a Baltasar di definire con una parola l’impressione sulla città. "Tumultuosa", è la sua risposta.

1 gennaio, ore 10. Assonnati, ci dirigiamo verso i Campi Flegrei. Sole e vento di libeccio ci accompagnano. Dal Virgiliano lo spettacolo è sublime Nisida è schiaffeggiata da onde verdi e appare come ai tempi di Ulisse. Dopo di lei Bagnoli e i suoi scempi, Pozzuoli e i suoi ruderi, i laghi D’Averno e di Lucrino abbandonati anche dalle loro memorie. Strade interrotte e sporcizia. E poi Lucrino, Miseno, Miliscola, Arco Felice, Torregaveta senso di abbandono ovunque. Decido, insolitamente, di visitare l’isolotto di San Martino nella leggenda fu una delle tappe di "Ercole". Oggi sembra la scenografia distrutta di un set cinematografico uno sfacelo che avvilisce Baltasar, abituato all’efficienza della Catalogna che la assimila più ad una Regione nordica che mediterranea. Tappa finale, Cuma cani vagolano ovunque, dappertutto senso d’incuria.

Torniamo a Napoli per visitare il Centro Direzionale un deserto che alle sette di sera è in mano a pochi giovani impegnati a bere birra. Le sagome spettrali degli edifici tracciano solchi di solitudine: potremmo essere ovunque. La città qui appare lontanissima.

2 gennaio, ore 9,00. Cappella San Severo. Baltasar rivede per l’ennesima volta il Cristo velato. La statua di marmo è per lui una serena ossessione. Ritiene che racchiude un mistero. Anche gli eredi, che la controllano "a vista", forse sanno che custodisce un mistero, senza sapere però quale sia. Dopo una visita al Palazzo Corigliano visitiamo gli Scavi di Ercolano. Due scugnizzi, Salvatore e Ciro, entrano insieme a noi. Fanno collezione di carte telefoniche. I due ragazzini incuriosiscono Baltasar che, mio tramite, fa loro numerose domande.

Successivamente siamo in visita a Villa Campolieto ed agli sconci edifici che la circondano. Eccoci a Paestum i templi sono intrappolati in tubolari metallici. Il traffico lungo la via – che, in maniera assurda, attraversa l’area archeologica – distrugge l’atmosfera particolare del tramonto.

Ore 20. Siamo a Napoli. Il Maschio Angioino è davanti a noi, con i simboli spagnoli e catalani scolpiti nel suo portale. Porcel è attratto da un parcheggiatore che parla della camorra asserendo che "a Napoli rappresenta un accessorio indispensabile alla vita", soprattutto da quando "non vengono tollerati i banchi per vendere le sigarette e le merci di contrabbando".

La giornata si conclude. Le impressioni di Baltasar sono diverse e contrastano con quelle che l’amico Ben Jelloun ha dichiarato a due quotidiani napoletani. La sensazione è ancora il "tumulto". Viscerale.

3 gennaio. Siamo sul Vesuvio. Il sole irradia il vulcano. I mali e le speranze di Napoli da quassù sembrano distanti. Visitiamo il mio paese, San Sebastiano. Improvvisamente mi accorgo di non esservi più venuto da quasi un anno. Porcel resta colpito da un contadino che prende dal portafoglio una foto di mio padre, sindaco per oltre trentacinque anni di quel paese. Subito dopo eccoci al Museo di Capodimonte con l’amico Claudio Bonichi, pittore. Con lui visitiamo la pinacoteca del Museo, veramente bella dopo il recente restauro.

Sabato 4 gennaio, ore 21. Inizia il secondo Concerto dell’Epifania, al quale la Fondazione Laboratorio Mediterraneo collabora nell’ambito del programma "Oltre il Chiostro, al di là del mare" attivato con il Centro Francescano di Cultura "Oltre il Chiostro", inserendo questo appuntamento annuale tra le proprie attività più significative per attuare il dialogo tra le culture e le religioni del Mediterraneo.

La verticalità e la visceralità di Napoli stimolano lo scrittore Baltasar Porcel ad ampliare lo spazio dedicato nel suo libro alla nostra città. I "tumulti di Napoli" completano un viaggio attraverso la storia e la geografia, per narrare tre millenni di storia nell’incontro di miti che diventano fiabe.

Barcellona, 7 gennaio 19973

Caro Michele,

ho ancora nella memoria il mio soggiorno a Napoli e negli occhi la severa eleganza gotica di Santa Chiara. Fu austera e severa anche la regina che, al fianco di Roberto D’Angiò, la edificò Sancia di Maiorca. La breve dinastia dell’isola fu molto legata al francescanesimo. Sancia si oppose con ferreo rigore contro gli usi dei napoletani "che vestivano con abiti corti e stretti, dissolutamente" e delle napoletane "che cantavano gorgheggiando come le donne generose di Francia", secondo un cronista dell’epoca. La stessa regina si era mostrata "reticente nel letto coniugale", al punto che Papa Giovanni XXII la richiamò ricordandole i suoi doveri di sposa.

Mi sono chiesto, la sera del 4 gennaio, seduto in Santa Chiara che direbbe Sancia di questo magnifico e allegro Concerto dell’Epifania A questo non ho trovato risposta. Sancia ed i costumi di quel tempo si sono persi nei secoli. Oggi sentiamo più vicino a noi un altro impulso etico, quello di Salvo D’Acquisto – in memoria del quale si è celebrato il concerto – che sacrificò la sua vita alla barbarie per difendere l’innocenza. Salvo D’Acquisto recupera infatti il messaggio più puro di San Francesco la fratellanza per la quale costruiamo un’unità planetaria e cosmica, in definitiva la grande idea di Dio. E del resto, l’uomo è una cosa sola sia con il male che con il bene.

Le razze, i popoli, le religioni, i generi artistici, si sono uniti in un grande abbraccio – a volte anche euforico – nel Concerto dell’Epifania l’africana Miriam Makeba, gran signora della voce, stava insieme all’italiana Manuela Villa, all’ebrea Rinat Gabay, alla marocchina Samira Said. Alcuni artisti sono venuti anche da altri paesi Pandatchanska, Black Voices, Maisky. E con essi la voce, la sinfonia napoletana ed il ritmo di Napoli hanno offerto un programma vario e accattivante. È il Mediterraneo, è il simbolo del mondo, è il canto di San Francesco per l’uguaglianza e l’amorevolezza. E pertanto per la dignità per noi e per gli altri.

Che esseri diabolici saremmo se non vedessimo il riflesso di noi stessi nello sguardo e nel cuore dell’altro

Un abbraccio

Baltasar Porcel4