"IL DENARO"

29 marzo 1997

Turchia: terra di frontiera tra Europa,
Terzo mondo e Asia*

di Michele Capasso

Roma, 29 gennaio 1997. Tansu Ciller, una signora che è ministro degli Esteri della Turchia, al termine di un incontro con i colleghi di Francia, Spagna, Gran Bretagna, Germania e Italia – svoltosi nel quadro degli incontri informali del gruppo "5 + 1" –, insiste affinché la Turchia sia ammessa nell’Unione europea: "Il mio popolo non può essere lasciato fuori dalla mappa di un’Europa in espansione. Inoltre la Turchia, rispetto agli altri partner potenziali dell’Ue, è più importante per peso economico e politico. Ankara non vuole restare ai margini dell’Europa". La signora Ciller continua affermando che l’accordo di associazione e l’unione doganale con l’Ue non sono più sufficienti. La Turchia vuole la piena adesione, chiede di essere in Europa. Per raggiungere questo obiettivo, la Ciller è pronta ad opporsi all’allargamento della Nato – di cui la Turchia fa parte da anni – nel caso le aspettative fossero nuovamente infrante. "Le due problematiche – sostiene la Ciller – sono strettamente connesse tra loro.

La Turchia oggi combatte con vecchi e nuovi problemi. Le sue aspirazioni a far parte a pieno titolo dell’Europa si scontrano con il mancato rispetto dei diritti umani e delle regole della democrazia. La questione curda, Cipro e i difficili complessi rapporti con la Grecia – membro dell’Ue – sono solo alcuni degli ostacoli al processo di adesione.

I ministri degli Esteri dell’Italia, della Francia e dell’Inghilterra – Dini, De Charette e Rifkind – hanno parlato di difficoltà persistenti da risolvere con urgenza. L’Italia considera essenziale l’avvicinamento della Turchia all’Ue per l’importanza strategica e per la stabilità della regione mediterranea. Nicholas Burns, portavoce del Dipartimento di Stato degli Usa, è più flessibile sui veti posti alla Turchia dagli alleati europei e afferma: "È necessario guardare il quadro completo dei nostri rapporti con la Turchia. Riteniamo importante l’integrazione di Ankara all’Europa nonostante vi siano problemi con i diritti umani".

Bruxelles, 4 marzo 1997. Al vertice dei democristiani europei, i premier popolari dell’Ue sono fermi nella loro decisione: "I turchi non entreranno in Europa". Assaliti da un tardivo spirito di crociata, i massimi leader democristiani d’Europa, chiudendo di fatto la porta in faccia all Turchia, compiono un’azione che potrebbe avere conseguenze serie sull’equilibrio geo-strategico del Mediterraneo. Presenti alla riunione nel castello della Val Duchesse cinque capi di governo – Prodi, Aznar, Kohl, Dehane, Juncker – ed i presidenti della Commissione europea Santer e del Parlamento europeo Gil Robles.

A nome di tutti parla Wilfred Martens, presidente del Partito Popolare Europeo: "Per noi la Turchia non è candidata a divenire membro dell’Ue come tale. Noi vogliamo una cooperazione più intensa con la Turchia, ma siamo di fronte ad un progetto europeo che è soprattutto un progetto di civilizzazione: che la Turchia diventi membro dell’Ue non è per noi accettabile. Anche negli anni ’60 questo Paese chiese di aderire alla Cee e la Commissione diede parere negativo, figuriamoci oggi che si lavora alla creazione di un’Unione Europea".

I giornalisti turchi presenti hanno interpretato la negazione di adesione della Turchia come una distanza dovuta alla sua appartenenza ad un’altra civiltà: quella islamica.

Prodi e Kohl hanno fatto un distinguo affermando che "sarebbe dannoso isolare Ankara". Madeleine Albright, segretario di Stato Usa, ha insistito perché alla Turchia venga data soddisfazione. Tutti sono scettici su di una rapida adesione della Turchia all’Europa: ma sbarrare questa via senza alcuna speranza significa abbandonare questo Paese – saldamente ancorato all’Occidente da anni di collaborazione economica e militare – fra le braccia degli integralisti ed alimentare un nuovo focolaio di scontri nel Mediterraneo.

Dopo Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, questo Paese ha per la prima volta un leader islamico. Ma i laici di Turchia insorgono. Per vari motivi: dalla decisione del governo islamico di abolire il divieto di indossare il velo in pubblico alla decisione del sindaco di Istanbul che vuole costruire una moschea nella piazza Taksim, simbolo della laicità. Lo scontro in corso tra il governo guidato da Necmettin Erbakan e il Consiglio di Sicurezza Nazionale è motivato da questioni che vanno oltre la politica interna di Ankara. È uno scontro frontale tra "conservatori" e "modernizzatori": chi vincerà condurrà il Paese o verso l’Occidente o verso una deriva terzomondista e asiatica.

La crisi non giunge inaspettata. L’insofferenza tra Erbakan e la classe politica e militare che aveva governato fino allo scorso anno la Turchia aumenta di giorno in giorno. Giunto al potere inaspettatamente a 70 anni, il premier turco pensa ad una soluzione copernicana: crede possibile che la Turchia possa distaccarsi dall’Occidente per guidare un ipotetico D-8, una specie di direttorio dei Paesi in via di sviluppo, che tratti alla pari con il G-7 per una più equa distribuzione della ricchezza. Erbakan desidera che i valori del’islam, che in buona sostanza sono sradicati da oltre ottant’anni dalla società turca, tornino a dominarla; vuole rispondere duramente agli Usa, che lo attaccano per i suoi rapporti con l’Iran e la Libia, ed all’Europa che lo addita in malo modo per la continua violazione dei diritti umani. Infine, il leader pensa a nuove elezioni con cui, grazie all’attivismo dei suoi quattro milioni di seguaci, tornare al potere e governare da solo.

I generali turchi non sono affatto d’accordo: chiedono al governo a guida islamica di non derogare dal sistema laico della repubblica fondata nel 1923 da Atatürk, padre dell’indipendenza, e affermano: "Coloro che tentano di politicizzare la religione commettono, oltre che un peccato, anche un grave reato".

Le forze armate turche si considerano, quindi, garanti del secolarismo. "L’esercito è determinato ad assumere qualsiasi incarico teso a proteggere la repubblica democratica e secolare turca" afferma il capo di Stato maggiore.

Umut Arik, ambasciatore di Ankara in Italia, sostiene che la Turchia rimarrà laica: "L’approccio dei militari è stato e sarà totalmente democratico. La nostra costituzione prevede l’istituzione del Consiglio di Sicurezza Nazionale. I militari che ne fanno parte si sono dichiarati contro le ingerenze straniere e le attività di islamizzazione. Un approccio democratico previsto dalla nostra carta costituzionale. Le decisioni del Consiglio non possono essere respinte: esse sono "obbligatorie", anche per il Presidente". L’ambasciatore è rammaricato dai continui dinieghi dell’Ue: "L’80% della popolazione turca – afferma – è favorevole all’adesione all’Ue ed è molto dispiaciuta per i "no" che vengono da importanti rappresentanti dell’Ue. Quei "no" sono un regalo ai fondamentalisti islamici. Quando ascolto che Bulgaria e Romania saranno accettati come candidati all’Ue mentre la Turchia, membro associato dal 1965, viene ritenuta non candidata provo una cocente delusione".

In questi giorni l’Europa ha celebrato i suoi "primi" 40 anni. Uno dei problemi principali che ha davanti a sé è proprio quello dell’allargamento ad Est e a Sud. Il sistema Europa comincia già a scricchiolare e, nonostante le pressioni della Germania per l’ingresso dei Paesi dell’est, sembra difficile un’immediata "Europa dei 25 o dei 30" perché non sono ancora mature le garanzie che i Paesi candidati devono offrire con certezza. L’Europa deve agire con prudenza, ma anche con determinazione: deve "aprirsi" al Mediterraneo per riequilibrare la tendenza diffusa ad una "centralità" sull’asse Francia-Germania-Est europeo.

Segnali positivi sono apparsi in questi giorni: i Paesi mediterranei dell’Ue – Portogallo, Spagna, Francia, Italia e Grecia – stanno assumendo posizioni decisive per tentare di risolvere la crisi albanese.

Il nostro auspicio è che questi Paesi possano assumere una comune politica ed aiutare la Turchia, porta dell’Europa mediterranea verso le realtà politiche, economiche e culturali dell’Asia e dell’Est, a ricostruire un sistema politico che tuteli i diritti umani, rispetti le diverse identità religiose e garantisca le regole democratiche. Tutto questo è possibile e necessario, e la Turchia, per la sua antica tradizione di cooperazione con l’Occidente, ha pieno titolo a far parte dell’Ue, sia pure con un occhio rivolto all’Asia ed al Terzo Mondo.