"IL DENARO"

17 luglio 1999

Algeria: una voce nel silenzio dei rassegnati

di Michele Capasso

È possibile immaginare una città senza ricordare le città del Mediterraneo? Non credo: esse sono talmente incise nella nostra memoria che qualsiasi degrado o abbandono dovessero subire non sarebbe sufficiente a cancellarle né a renderle più brutte. Nel Corano la parola "medina" è citata diciassette volte, per enfatizzare l’importanza dell’"habitat" sedentario rispetto al nomadismo. Alcuni testi – per la verità discutibili – parlano di "dualismo", denunciano questa circostanza che si manifesta sotto forma di modelli urbani ibridi, "poco osservanti del codice islamico e della Shari’ah", ed esigono la salvaguardia culturale dei paesi musulmani. Ogni città vive dei suoi ricordi. Le città mediterranee probabilmente più delle altre. È qui che il passato non fa concorrenza al presente; è qui che il futuro si propone più ad immagine del primo che del secondo. Ma le città sono specialmente l’espressione sociale dei suoi abitanti: importante è il linguaggio della strada. Come quello del raï. Algeri, luglio 1999. Le strade della città, con il calar del sole, si riempiono di giovani. Molti suonano una musica particolare, il raï, ed invocano il loro beniamino: Hadj Brahim Khaled. La musica è una rivoluzione culturale e musicale che ha trasformato in Algeria società e persone. Parigi, quartiere di Belleville. Alla fine di rue de la Force – piccola stradina acciottolata – si prepara una festa. Un gruppo di cinque persone suona musica algerina. Gli strumenti sono il liuto – in arabo "oud" – il violino, la fisarmonica, la voce. Si improvvisa un piccolo concerto raï: protagonista è proprio Hadj Brahim Khaled, che contagia tutti con il suo sorriso. Khaled racconta episodi del costume algerino e, soprattutto, l’uso della metafora: "Negli anni venti – dice – sono le donne a dar vita alla musica raï: venivano soprannominate "meddahat" ed erano le cantastorie che durante i matrimoni parlavano alle donne dell’amore, preparando, a parole e sempre sotto metafora, la sposa alla sua prima notte. Khaled, voce mondiale del raï, utilizza la metafora anche per i testi delle sue canzoni, dove il sesso è nominato sempre e solo con termini ambigui.

In un’Algeria sempre di più logorata da divisioni interne che diventano massacri, mortificata e ferita a morte da un integralismo assurdo e feroce, questa musica, il "ra? moderno", rappresenta non tanto una dissacrazione dei valori, ma anche un pericolo e un attentato per le leggi islamiche: per questi motivi è stato bollato dall’integralismo come musica selvaggia e libertina, perché "nelle sonorità e nelle danze sensuali come nei testi espliciti si affrontano temi che sfuggono al rigore del Corano". Il raï è una musica dolce e selvaggia ad un tempo: trova origine nelle campagne maghrebine, dove pastori erranti con i loro flauti riprendono pezzi di poesie delle liriche beduine mixandoli con versi assolutamente improvvisati. Quando una parola "scappa via", o quando l’improvvisazione viene meno, è l’intercalare "ya raï" a prendere il posto della parola. Da questo il termine "raï", che significa anche "opinione" oppure "dire ciò che si pensa o ciò che è". Orano è una città di mare dell’Algeria. Qui, nel piccolo porto, si fondono e confondono correnti culturali diverse: arabe, francesi, spagnole, portoghesi, africane. Non è possibile immaginare il Mediterraneo senza queste città, senza questi mondi, senza questi porti, grandi o piccoli che siano. Sono città e realtà che ci inseguono persino nei sogni. Ad Orano, nei sogni degli anziani, appare l’immagine delle donne dette "cheikhat": furono loro a diffondere il raï nei bordelli intorno al porto. Fra queste, Cheikha Rimitti. Oggi ha più di settant’anni ed è ancora uno spirito libero che canta senza pudori amori e tradimenti. È una musica del mare, il raï. Paragonabile al blues o al fado. È folklore paragonabile alla musica popolare: una specie di country algerino, radicato nella società. Quelli che lo praticano sono musulmani e vengono attaccati dagli integralisti. Khaled dice: "Io sono un musulmano credente e praticante, ma ogni volta che canto mi attaccano come un miscredente. La nostra religione ha cinque regole: essere religioso, fare del bene, dare ai poveri se sei ricco, credere in un solo dio e non opprimere le persone. Io rispetto queste regole, ma c’è chi le predica a parole e non a fatti, soprattutto per quanto riguarda l’ultima". I temi comuni di tante canzoni raï sono problemi d’amore, la difficoltà d’incontrarsi, il bisogno di fuga dei giovani, la mancanza di lavoro, la fatica di ogni giorno: in Algeria vengono vissuti come aperta ribellione. È forse questo il motivo principale per cui le donne e i giovani, con il loro coraggio e la loro volontà di affermazione, trovano proprio in questa musica un modo per dar voce alla protesta e alla ribellione. Questo canto dalle parole addolcite ed incantate, unitamente alla personalità ed al carisma degli autori, sono un nemico da combattere e da abbattere sia per il Fis (Fronte islamico di salvezza) che per il Gia (Gruppi islamici armati). Vengono così uccisi Cheb Hasni, Rachid Ahmed Baba, e, nel giugno dello scorso anno, Matoub Lounès. Gli altri sono costretti all’esilio. Come Khaled, che conclude: "Non ho mai fatto politica. Con le mie canzoni ho espresso condizioni sociali perché il raï è sociale, parla di sentimenti: questo da fastidio al mio Paese come a qualsiasi altro che non abbia in sé il culto della pace. Integralismo, fascismo, razzismo: tutte parole che finiscono nello stesso modo; simbolo della violenza e della repressione. Così la gioia si trasforma in dolore. Molti di noi sono morti. Altri come me sono costretti a vivere lontano. Ma la musica è come l’anima: è impossibile ucciderla. Io non ho paura di morire. Ho paura per tutti i giovani algerini che rischiano di non avere più futuro". Una smorfia sul viso di Khaled unisce il dolore alla nostalgia.