"IL DENARO"

23 gennaio 1999

Fermiamo la barbarie

di Michele Capasso

Pristina, gennaio 1999. Ancora sangue nei Balcani. Alle porte dell’Italia. Nel cuore dell’Europa. Nel Kosovo. I fantasmi balcanici della pulizia etnica, delle fosse comuni, della guerra e di mille atrocità si riaffacciano. A testimonianza trentanove cadaveri. Tutti albanesi. Ognuno freddato, alcuni giorni fa, con un proiettile alla nuca, da crudeli giustizieri. Quanto è tristemente attuale quell’appello che lanciammo da Napoli nel 1994 a favore della pace nella ex Jugoslavia! Quanto sono attuali le parole del presidente della Repubblica di Macedonia Kiro Gligorov che, in visita alla nostra Fondazione un anno fa, preconizzò quanto oggi, tristemente, accade nel Kosovo. "Più di 200.000 morti, 2.000.000 di deportati o esiliati, città e villaggi in rovina, ponti ed edifici, scuole ed ospedali distrutti a colpi di cannone, monumenti di cultura o di fede profanati, violenze e torture di ogni specie, stupri di massa e umiliazioni, campi di concentramento ed epurazione etnica, "urbicidio" e "memoricidio", innumerevoli esistenze di gente semplice mutilate o lacerate per sempre. La sofferenza umana non si lascia riassumere. Si può andare oltre? Questa domanda è rivolta nello stesso tempo agli aggressori e a quei Signori che hanno fatto così poco per fermare questa guerra nel cuore dell’Europa, ai confini del Mediterraneo, nella stessa Europa". Queste alcune delle parole di quell’appello di alcuni anni fa, oggi più che mai attuale per il Kosovo. Che dire, di fronte ad una tale tragedia, di istituzioni inadeguate ai cambiamenti del nostro mondo e di un’Unione Europea che non è ancora un potere statale capace di guidare l’Europa, ma è soltanto un’‘unione’ come avevano paventato i più illuminati uomini di cultura dopo la Seconda guerra mondiale? Le tappe di questo calvario dalla vicina Bosnia continuano ad aumentare: il villaggio di Racak – dove è stato commesso l’eccidio – alle città di oggi si aggiunge Vukovar, Srebrenica, Gorazde, Mostar, Sarajevo. Questa terra, un tempo multiregionale e multiculturale, è nuovamente investita da una guerra fratricida, dove la barbarie e la brutalità sono spesso incoraggiate dalla mancanza di dialogo e dall’indifferenza. È stata un’esecuzione sommaria. Tra i corpi mutilati quelli di una ragazza e di un bambino. Visi sfigurati, crani sfondati, occhi cavati dalle orbite, teste mozzate. William Walker è il capo dei verificatori dell’Ocse (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). È esterrefatto: "Ho visto altre guerre, altri orrori nella mia vita. Questo supera ogni immaginazione".

Le verità, come sempre, sono due. I serbi e le loro forze di sicurezza affermano che erano ripresi gli scontri con gli albanesi e che era necessario "punire i terroristi". Diversamente, i sopravvissuti di Racak sostengono un’altra verità: bombardamento dei serbi, assalto dei corpi speciali, rastrellamento, uomini separati dalle famiglie, prigionieri in fila indiana condotti sulla collina e qui uccisi. Ancora una volta siamo di fronte ad una esecuzione da parte di gente che non da nessun valore alla vita umana. Ancora una colta un crimine contro l’umanità. La Nato reagisce. La rabbia impotente esce fuori con parole di orrore e promesse di pronta reazione. Javier Solana, segretario generale della Nato, condanna la strage di Racak senza però dire quali saranno i provvedimenti adottati. Dice solo che gli impegni presi in autunno da Milosevic; non sono stati rispettati. La parola passa ai paesi Nato che hanno espresso la loro indignazione e inviato 2000 uomini in Macedonia, ai confini con il Kosovo. Per Massimo D’Alema il problema è, per l’Italia, di assoluta priorità: "occorre chiedere alle autorità serbe d’individuare e punire i responsabili, avvertendo loro – dice D’Alema – che non è possibile continuare a tollerare atti così orribili che palesemente violano i diritti umani e gli impegni assunti dalla Federazione Jugoslava". E intanto aumenta l’esodo dei kosovari. Altre migrazioni. Povera gente costretta a fuggire dai propri villaggi. Dalle proprie case. Dagli affetti. Dai dolori. Questo terrore appartiene a tutti noi. In seguito al massacro, come per Racak, ci saranno altri sfollati, altri profughi, altri morti; vanificando ogni intervento internazionale e qualsiasi speranza di ricostruzione. Il Kosovo è un paese sotto choc, la gente è traumatizzata. I nostri amici di Macedonia ci telefonano in lacrime chiedendo aiuti per un popolo a loro vicino che subisce l’ennesima barbarie: bambini traumatizzati vicino alle macerie delle proprie case e incapaci di parlare o di piangere, madri che raccontano le esecuzioni sommarie dei loro parenti e tante altre atrocità. Colpa solo dei serbi? Non credo. Una grande responsabilità pesa sulla coscienza di uomini che non sono in grado di fermare questa guerra civile nel cuore dell’Europa, né di riconoscere alla cultura quel ruolo paritario – unitamente alla politica ed all’economia – in grado di poter incidere sui processi della storia. Confesso, in questi momenti, un senso di grande impotenza: che si accentuerà quando, nei prossimi mesi, senza ascoltare uomini di culture proposti al dialogo, gli Usa e la Nato saranno costretti a premere il grilletto ed a distruggere migliaia di vite, mettendo in ginocchio ulteriormente l’economia di questo pezzo d’Europa e di Mediterraneo.