IL MEDITERRANEO

 

Relazione di Michele Capasso, Presidente della Fondazione Laboratorio Mediterraneo

Rimini, 25.10.1996

 

La geografia e il paesaggio

Per iniziare a parlare del Mare Nostro credo sia necessario partire dal paesaggio, dalla struttura geografica e orografica dello spazio che stiamo considerando. Il Mediterraneo è uno spazio infinitamente piccolo : rappresenta il 3 per cento dell’Oceano Atlantico e l’1 per cento dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico. E’ un nulla. E questo luogo tanto piccolo ha delle caratteristiche molto singolari. Innanzitutto è accidentato, soprattutto nel versante Nord, con laghi, montagne, barriere. Poi ha un clima nel quale confluiscono tre grandi correnti : il clima umido dell’Atlantico, il clima caldo del Sahara e il clima più freddo delle pianure continentali asiatiche ed europee. La mescolanza di questi elementi genera un clima molto temperato e molto differenziato, dando origine a quattro stagioni primarie e otto stagioni intermedie con grande numero di microvariazioni climatiche in tempi brevi che non sono mai estreme.

Da questa condizione ambientale deriva la grande produzione agricola del Mediterraneo, quantitativamente e qualitativamente molto varia. Questo fatto così semplice ha fatto in modo che da sempre si siano proiettati sul Mediterraneo moltissimi popoli diversi che hanno dato luogo a molte civiltà con religioni, tradizioni e costumi diversi. Nonostante le lotte che questa convivenza tra le genti mediterranee ha provocato, il fatto importante è che il Mediterraneo territorio accidentato è stato e continua a essere un luogo di incontro di molte civiltà. Ebbene, ciò che distingue una civiltà è la sua capacità creativa, capacità che può nascere da un processo omogeneo e autosufficiente ma difficilmente un tale processo è continuativo. Da qui nasce il genio mediterraneo ? Il Mediterraneo è il ricettacolo di una quantità maggiore di fatti artistici di processi di civiltà e così via. E’ dall’incontro e dallo scontro fra le civiltà che si genera la capacità creativa. E’ dalla dialettica con i popoli vicini che si è prodotto il cosiddetto "genio" mediterraneo.

Ed è per questo stesso scontro dialettico che il Mediterraneo è la cultura dell’uomo, dove per la prima volta è l’uomo il centro di tutte le cose, no più l’imperatore o il dio.

La letteratura, la filosofia, la medicina, l’arte greca sono una testimonianza pregnante di questo. E’ se analizziamo il processo seguito dalla civiltà greca - la prima a teorizzare e praticare l’antropocentrismo - ritorniamo al concetto di pluralità. Perché la Grecia è stata unita solo per un breve periodo sotto Alessandro Magno. La Grecia era divisa in molti principati in molte città-stato, e questa pluralità fu la ragione della sua prosperità. Non è un caso se la stessa pluralità si ripete nell’Italia rinascimentale.

Una pluralità che non significa disordine ma costituisce una grande ricchezza. E’ dunque questo il contributo che il Mediterraneo può e deve portare all’Europa nel nuovo millennio.

 

Un Mare senza identità

Siamo alla fine di un secolo dove sembra prevalere il prefisso "ex". Abbiamo sentito in questi anni parlare di ex-Jugoslavia, ex-Unione Sovietica, ex-comunismo, ex-socialismo, ex-gaullismo, ex-imperi, ex-Stati, ex-patti di alleanza fra Stati, ex-società, ex-ideologie, ex-cittadinanze, ex-appartenenze, ex-dissidenza e via dicendo. E’ legittimo quindi chiedersi cosa significa essere un "ex" o considerarsi un "ex". "Ex" a volte " è un marchio, in altri casi una condizione involontaria; investe oggi gli individui e la collettività, le loro identità ed i loro modi di essere; è un fenomeno politico e geopolitico o, se preferiamo, spaziale e psicologico; pone la questione morale e mette in causa la morale ancor prima".

E quindi, investendo individui e collettività, non poteva non interessare il Mediterraneo e l’Europa che appaiono anch’essi entrambi, oggi, come un "mondo ex".

Il Mediterraneo vive soltanto nel nostro immaginario ed è appunto attraverso la nostra immaginazione che identifichiamo una realtà che oggi non esiste più.

L’immagine che offre oggi il Mediterraneo è molto lontana dall’essere rassicurante. Abbiamo una costa settentrionale che è in ritardo rispetto al Nord dell’Europa. Tra il Nord e il Sud del Mediterraneo vi è poi un problema di rappresentazioni: vi sono senza dubbio differenti modi di organizzazione sociale, la distribuzione differenziata degli "status" e dei sessi, la diseguaglianza delle risorse e delle ricchezze.

Ma c’è di più: esiste soprattutto il modo appannato con cui le due sponde si percepiscono, sia con la ragione che con il cuore; è un riflesso contemporaneamente istintivo e controllato, spontaneo e riflessivo, che provoca angoscia, odio, compassione o indifferenza. Lo sguardo del Nord sul Sud non è solo quello del più laico sul meno laico, del cristiano sul musulmano, dell’europeo sul non-europeo: è soprattutto lo sguardo del ricco sul povero, del potente sul debole e in tanti casi, ancora del bianco sul nero.

Il Mediterraneo è uno stato confuso di cose lontano dall’essere un progetto. Per questi motivi, con grande sforzo, la Fondazione Laboratorio Mediterraneo sta concretizzando un progetto complesso, assemblando "oggetti" e "manufatti" costruiti e costituiti da individui, enti, istituzioni e Stati del Mediterraneo, spesso perduti nel proprio misero interesse particolare. Questi soggetti non hanno spesso la consapevolezza che quei "manufatti", da essi stessi prodotti, sono indispensabili per progettare ed edificare la "casa comune mediterranea".

 

La lentezza dell’Europa

E’ un compito difficile, faticoso, tanto da poter apparire utopistico, ma l’utopia è indispensabile quando si vive, come oggi accade, intrisi di banalità: una banalità che deriva essenzialmente dal ricatto dei paesi industrializzati che sono drogati da una "modernità" e da una voglia di "tecnologia ad ogni costo". Questi paesi hanno messo in moto quello che io chiamo il "treno della velocità", annullando il senso positivo della "lentezza", che una volta caratterizzava, perchè scandiva, i tempi dell’Europa e del Mediterraneo.

La lentezza - dice Kundera - è una dimensione dei luoghi: non è un difetto. Ed io aggiungo che di luoghi ci si alimenta perchè ci si vive, perchè ci si abita, perchè ci si sta.

Il Mediterraneo, a torto, è considerato come una provincia, penombra dell’Europa: con le scollature e le "lentezze" che competono alla periferia. Occorre considerare come una risorsa la "lentezza" tipica dei luoghi mediterranei : perché proprio su questa linea di confine, ai margini del centro, dove la velocità è spesso enormemente ridotta, è possibile ritrovare quella energia essenziale che scaturisce dalla scoperta delle proprie origini e dalla identificazione delle proprie radici. Queste radici sono indispensabili per ancorare i rami impazziti della "modernità" e della "emancipazione" che svettano sempre più in alto senza valutare l’esistenza e la consistenza del proprio apparato radicale e l’adeguatezza di quest’ ultimo a sostenerli.

La lentezza può essere un metodo per criticare con oculatezza la "velocità" che ci viene imposta dalla società dei consumi. Con questo non voglio criticare, da architetto ed ingegnere, anzi ne sono consapevole e partecipe, interventi positivi di sostanziale importanza come quelli del cablaggio delle città o delle nuove tecnologie, ma su questo "treno senza freni" - se mi è consentito questo paragone comunque improprio -, è indispensabile creare degli elementi di sicurezza. E’ come se tutti noi viaggiassimo a bordo di un treno che aumenta la sua velocità di continuo ma che, non avendo freni, deve inventare elementi sempre più sofisticati per controllare l’aumentata contingenza dell’ambiente, il percorso che deve fare, gli scambi, i passaggi a livello, i ponti, gli attraversamenti e tutti gli infiniti parametri dove la complessità diventa un problema importante e il suo controllo richiede la costruzione di strumenti sempre più sofisticati che spesso vanno anch’essi controllati, creando così un circolo vizioso che porta problemi enormi e degenerazioni.

Il destino di chi viaggia su questo "treno" prevede tre ipotesi: andare a sbattere; tentare di scendere dal treno in corsa; rallentare la corsa del treno stesso. Escludendo la terza ipotesi perchè improbabile, non ci resta che capire come governare la velocità: problema delicato e vitale proprio perchè si rischia la vita.

Nei prossimi anni gran parte della popolazione si concentrerà ancor di più nelle principali città e molte di queste avranno più di dieci milioni di abitanti : non sarà facile viverci e avremo sempre di più anziani trascurati, giovani senza punti di riferimento, feroci somatizzazioni da stress urbano, aria irrespirabile, acque di mari e di fiumi inquinate. Queste città correranno il rischio di essere solamente l’incarnazione di un aberrante processo sorretto soltanto dal potere economico e dalla legge crudele dei mercati e dei mercanti. Uno scenario privo di storia, lontano dalle radici, dove la civiltà che potrà nascere sarà tenuta insieme non dalle idee di verità, di bellezza, di giustizia o "di destino", ma dalle idee di scambio, profitto, denaro, proprietà, commercio, prodotto, possesso.

Partendo dall’uomo occidentale queste stesse idee potrebbero estendersi, per imitazione, a tutto il pianeta costituendo l’incarnazione di un potere aberrante : una droga che finirebbe col distruggere definitivamente la natura, l’ambiente e l’uomo.

Il Mediterraneo- che del pianeta costituisce la "culla" di una delle sue più antiche civiltà- da questo punto di vista, costituisce una risorsa,una difesa.

L’apparente inadeguatezza del Mediterraneo dall’Europa ne fa un punto di vista privilegiato: da periferia apparente del vecchio continente e, aggiungo io, dell’ "Europa dei mercati", il Mediterraneo può diventare il baricentro culturale, una risorsa indispensabile per riequilibrare i rapporti e le distanze non solo in termini di misura ma, soprattutto, in termini di valori, una risorsa per consentire di scendere da quel "treno" attraverso passaggi difficili e delicati.

 

Vittima dello storicismo

Ma il Mediterraneo, come "patria dei miti", ha sofferto delle mitologie che esso stesso ha generato: è uno spazio ricco di storia rimasto vittima di ogni sorta di storicismo. Il Mediterraneo di oggi, quello che è possibile vedere, quello che personalmente ho visto in questi ultimi tempi, non si identifica assolutamente con la rappresentazione che di questo mare viene da sempre perpetuata. Una "identità dell’essere" si amplifica sempre di più a svantaggio totale di una "identità del fare" che non è nè definita, nè compresa, nè tantomeno attuata. La retrospettiva continua a sopraffare la prospettiva.

Le chiusure che si stabiliscono in ogni parte di questo bacino contraddicono una naturale tendenza all’interdipendenza. La cultura poi è frammentatissima e contrasta se stessa e perciò non è in grado di fornirsi o di fornire alcun aiuto.

La bussola nel Mediterraneo sembra essersi definitivamente rotta.

Il Mediterraneo certo non è il solo responsabile di questo stato di cose. Le sue migliori tradizioni, quelle che associano l’arte all’art de vivre, si sono spesso opposte invano. I concetti di scambio, di solidarietà, di coesione o di partenariato, devono essere sottoposti ad un severo esame critico. La sola paura dell’immigrazione proveniente dalla costa Sud non basta per determinare una politica ragionata. Molte definizioni in questo senso devono essere riconsiderate. Non esiste solo una cultura mediterranea: troppo semplicistico. Ce ne sono molte altre in seno a un solo Mediterraneo. Sono caratterizzate da tratti per certi versi simili, per altri differenti, raramente collimanti, ma mai, assolutamente mai, identici. Le somiglianze sono dovute soprattutto alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnalate da fatti di origine, di credenze, di costumi, di storie, di tradizioni; fatti che talvolta sono essi stessi inconciliabili.

Elaborare una cultura intermediterranea alternativa: mettere in atto un progetto del genere, non è impresa facile, nè appare di imminente fattibilità; condividere una visione differenziata è invece meno ambizioso anche se non sempre facile da realizzare.

E’ indispensabile, per fare questo, costituire reti, ampliare il proprio raggio d’azione

Riguardo all’Europa, bisogna considerare che ci si trova di fronte ad un’importante dimensione politica che non riesce a diventare Stato e che non è gli Stati Uniti d’Europa.

Probabilmente domani si parlerà di una ex-Europa.

C’è un odore di Ancién Regime in Europa, un odore di infezione, di avaria. La morale sembra si adatti ai mille modi di voltare gabbana, pronta a considerare qualsiasi rigore come una sopravvivenza.

Lo choc di quanto è accaduto nell’ex-Europa cosiddetta dell’Est è stato tanto violento quanto imprevisto.

Le transizioni, per quanto male assicurate, prevalgono ancora sulle trasformazioni. Queste ultime hanno difficoltà ad imporsi o, quando si realizzano, sembrano talvolta grottesche.

Un’utopia grandiosa, nata nel cuore dell’Europa Occidentale e bruscamente trapiantata nell’Est, ha generato ben più che un fallimento. L’idea di emancipazione scompare all’orizzonte.

 

Verso un ex mondo

Tutto un mondo, a diritto e a rovescio, diventa un ex-mondo. I suoi stessi abitanti, anche quando lo abbandonano o emigrano, non smettono di portarne l’impronta.

Viviamo in un mondo pieno di eredi senza eredità. Un aggiornamento della fede e della morale è perseguito solo in ambienti limitati. Le avanguardie, che hanno proclamato e svolto i loro ruoli, sono ormai classificate. L’invocazione della "immaginazione al potere" è ormai cosa dimenticata. Tutta una "ex-cultura" non riesce, se non con gravi difficoltà, ad impadronirsi di quelle innovazioni che sono offerte o sono richieste dalla tecnologia di punta.

Che fare ?

E’ essenziale tracciare delle linee-guida . Noi proponiamo di :

Ecco, il compito di noi intellettuali dell’Europa e del Mediterraneo, il rapporto tra noi intellettuali e il potere, credo sia quello di ritrovare la via del "bene comune", ritrovare il "senso" di uno Stato capace di riunire e valorizzare le diverse identità regionali e nazionali.

Qual è questo Stato ? Sono gli Stati Uniti d’Europa, estesi anche all’ex-Europa dell’Est e - perché no ? - all’ex-Unione Sovietica. Uno Stato unico aperto al Mediterraneo, centrato sul Mediterraneo, cerniera tra i mondi e le culture asiatiche ed africane.

L’idea degli Stati Uniti d’Europa nasce due secoli fa. Solo come esempio voglio leggervi qualche frase di Victor Hugo e di Luigi Einaudi, perché forse i nostri predecessori avevano le idee più chiare delle nostre.

In una delle sue ultime opere, "Actes et Paroles. Depuis l’exil", scritta tra il 1875 e il 1876, Victor Hugo lanciava un appello tragicamente attuale. Le parole di Victor Hugo, superando la barriera del tempo, sembrano descrivere quello che è accaduto appena ieri :

Eccolo il fatto : si sta assassinando un popolo [il popolo Serbo che era assalito dai Turchi]. Dove ? In Europa. Ci sono testimoni ? Uno, il mondo intero. I governi lo vedono ? No. Le nazioni hanno sopra di loro qualcosa che sta sotto di loro : i governi. In certe situazioni la contraddizione esplode : la civiltà è nei popoli, la barbarie nei governi. E’ una barbarie voluta ? No, è puramente professionale. I governi ignorano quello che il genere umano sa. Dipende dal fatto che i governi vedono soltanto attraverso quella miopia che è la ragion di Stato ; il genere umano guarda con un altro occhio : la coscienza. Stupiremo i governi europei informandoli che i delitti sono delitti ; che a un governo non è consentito, più che ai singoli, di essere un assassino ; che l’Europa è solidale ; che tutto ciò che avviene in Europa è opera dell’Europa ; che se esiste un governo belva deve essere trattato da belva ; che in questo istante, vicinissimo a noi, laggiù, sotto i nostri occhi, si massacra, si incendia, si saccheggia, si stermina, si sgozzano padri e madri, si vendono bambine e bambini ; che i bimbi troppo piccoli per essere venduti vengono spaccati in due con un colpo di sciabola ; (...) di questo informiamo i governi d’Europa, che si sventrano le donne incinte per ucciderne i bambini nelle viscere ; che nelle pubbliche piazze ci sono mucchi di scheletri di donne con i segni dello sventramento ; che nelle strade i cani rosicchiano il cranio delle ragazze stuprate ; che tutto questo è orribile ; che basterebbe un gesto da parte dei governi europei per impedirlo (...)

Fare gli Stati Uniti d’Europa. Ai governi disuniti devono succedere i popoli uniti (...). La Repubblica d’Europa, la Federazione continentale : non esiste altra realtà politica (...). Su questa realtà, che è anche una necessità, tutti i filosofi sono d’accordo (...)

Questo scriveva Victor Hugo più di un secolo fa. Luigi Einaudi, nel discorso pronunciato all’Assemblea Costituente il 29 luglio del 1947 affermava :

In un’Europa in cui in ogni dove si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalisti, in cui improvvisamente si scoprono passionali correnti patriottiche in chi sino a ieri professava idee internazionalistiche, in quest’Europa nella quale ad ogni piè sospinto si veggono con raccapriccio riformarsi tendenze bellicistiche, urge compiere un’opera di unificazione.

Ma alla conquista di una ricca varietà di vite nazionali, liberamente operanti nel quadro della unificata vita europea, noi non arriveremo mai se qualcuno dei popoli europei non se ne faccia banditore. Auguro che questo popolo sia l’italiano. (...)

Utopia la nascita di un’Europa aperta a tutti i popoli decisi ad informare la propria condotta all’ideale della libertà ? Forse è Utopia. Ma ormai la scelta è soltanto fra l’Utopia e la morte, fra l’Utopia e la legge della giungla... dobbiamo non aver timore di difendere le idee le quali soltanto potranno salvare l’Europa.

La forza delle idee è ancora oggi - chè l’Europa non è per fortuna del tutto imbarbarita e non è ancora adoratrice supina delle cose materiali - la forza delle idee è ancora oggi la forza che alla lunga guida il mondo.

La forza delle idee. Chi la possiede ? L’intellettuale. Quale il suo compito ? Utilizzarla per avere il coraggio di dire la verità ai potenti, per spingere verso nuove concezioni di "bene comune".

Se l’Europa fosse stata unita con un suo esercito, un suo confine non avremmo avuto lo scempio della ex-Jugoslavia. Ma quanto cammino c’è ancora da fare. Quanti ostacoli ancora da superare.

Se non siamo capaci di eliminare le differenze dobbiamo, quanto meno, edificare un mondo in grado di contenere e valorizzare le sue diversità.

Vorrei concludere queste modeste riflessioni sull’Europa e sul Mediterraneo, auspicando :

1) Per l’Europa :

  1. la nascita degli Stati Uniti d’Europa ;
  2. l’unità delle forze della difesa e dell’ordine ;
  3. l’avvicinamento dei curricula degli studi scolastici ;
  4. un’intensa diffusione delle lingue europee senza predominio assoluto di nessuna ;
  5. un’opera formativa di avvicinamento graduale, di fiducia e collaborazione tra tutti i cittadini dell’Unione ;
  6. la formazione all’apertura culturale e civile tra i cittadini di diversa nazionalità valorizzando ciascuna identità;
  7. il rovesciamento dell’ordine dei valori : si è privilegiata l’economia ; vanno invece privilegiate la cultura e la politica.

  1. Per il Mediterraneo :

  1. una politica di grande respiro, di graduale avvicinamento e di reciproco sostegno ;
  2. una progressiva convergenza nello sviluppo del Mediterraneo ;
  3. la soluzione del conflitto tra i diversi diritti di famiglia e la differente concezione del cittadino ;
  4. istituzioni economiche sopranazionali di aiuto allo sviluppo tecnico ed economico ;
  5. la chiarificazione del rapporto tra Stato e religione, religione e cultura, diverso secondo la diversa storia religiosa e culturale dei popoli mediterranei ;
  6. una migliore conoscenza e comprensione dei diversi usi che spesso oppongono nel vicinato famiglie di diversa origine ;
  7. i fondamenti d’un diritto comune, compatibile con la diversità delle istituzioni e delle aspirazioni.

In tale contesto, il ruolo dell’Italia - come quello delle altre nazioni mediterranee - è essenziale.

Fino a ieri, i quattro Paesi dell’U.E. che si affacciano sul Mediterraneo - Italia, Francia, Spagna e Grecia - poco hanno fatto per costruire una politica mediterranea. L’Italia, che nel Mediterraneo è immersa, che ne costituisce la naturale "passerella" di collegamento con l’Europa, non si è adeguata al ruolo che compete a questa sua posizione geografica ed alle relazioni culturali, economiche e politiche instaurate nel corso dei secoli.

Oggi qualche segnale positivo si avverte : ma non è ancora sufficiente. E’ necessario "entrare" in una dimensione "mentale" mediterranea : bisogna costruire un’anima mediterranea basata sulla solidarietà e sulla cooperazione, anche a costo di sacrificare, talvolta, gli interessi "nazionali".

Per far questo è innanzitutto indispensabile capire fino in fondo l’"emergenza" che stiamo vivendo, capire che occorre eliminare la griglia di lettura che vuole, ad ogni costo, spostare lo sviluppo futuro sui paesi del Nord dell’Europa.

L’Italia, dalla sua posizione "baricentrica", ha una grande responsabilità per il futuro del Mediterraneo : ma fino ad oggi l’ha manifestata solo con interessi esclusivamente commerciali.

La grande creatività, la grande individualità, la grande forza di sopravvivenza di questa nazione non bastano per assumere la dignità di Paese moderno, guida e cerniera tra Europa e Mediterraneo.

L’Italia deve investire risorse pensando al futuro ed al suo ruolo : ma per far questo deve liberarsi dai suoi problemi di politica interna ed affrontare l’emergenza mediterranea ; deve liberarsi dal debito pubblico che la opprime. Questa quotidiana "distrazione" di energie mentali e di risorse materiali ha nuociuto all’Italia e al Mediterraneo : ma nel 1995 vi sono stati segnali positivi, con una inversione di tendenza, soprattutto in merito al risanamento economico, molto apprezzata dalla comunità internazionale.

Come pure, e nonostante lo svolgimento delle elezioni, l’Italia, nel suo semestre di presidenza all’U.E. che si è di recente concluso, ha mostrato con impegno e serietà di aver seguito e curato il processo di partenariato euro-mediterraneo avviato con la Conferenza di Barcellona dello scorso novembre.

L’Italia ha compreso che, oltre alla cooperazione politica, è importante quella in campo culturale, caratterizzata da vari progetti in grado di avvicinare realmente le due sponde del Mediterraneo e seguita con attenzione dai principali Paesi che su questo mare si affacciano.

Ma i progetti vanno realizzati : e l’Italia non è immune, come altri Paesi, dalle lentezze burocratiche e dal "virus" dell’ "interesse particolare" che "uccide" il "bene comune".

Da qui l’esigenza di "controllori", di "attivatori", di "uomini di buona volontà" che dirigano i lavori relativi ad un processo di cooperazione tra i Popoli, oggi più che mai indispensabile.

La speranza è che il lavoro della Fondazione Laboratorio Mediterraneo e della sua rete, unitamente alle relazioni e le collaborazioni instaurate con i vari Paesi del Mediterraneo, possano contribuire a far sì che l’Italia assuma la dignità che le compete per diventare protagonista della politica del Mediterraneo.

E’ una sfida dalla quale l’Italia può ottenere due risultati essenziali : il recupero e la valorizzazione della propria identità e l’accelerazione di un’integrazione culturale che può trasportare il Mediterraneo nel cuore dell’Europa e l’Europa al centro del Mediterraneo.

 

Tre religioni un unico mare

L’Europa e il Mediterraneo non hanno bisogno di secessioni. Servono unioni capaci di governare e valorizzare le diversità partendo dalle tre religioni monoteistiche. "Un Mare, tre Fedi" : è questo il tema di un programma di ricerca che la Fondazione Laboratorio Mediterraneo sta sviluppando da tempo .E’ articolato in seminari tematici sull’Ebraismo, il Cristianesimo e l’Islam e si concluderà con un summit internazionale previsto per la fine del 1999. Obiettivo : esaminare le possibilità di convergenza e coesistenza pacifica delle tre religioni monoteistiche nel bacino mediterraneo.

La caduta del muro di Berlino del 1989 fu per molti l’auspicio di una nuova era di pace e cooperazione nel mondo. Le aspettative erano molteplici e generarono un clima di speranza per il raggiungimento di un nuovo ordine mondiale. Paradossalmente, un numero incredibile di crisi, conflitti , disordini ed atrocità si sono sviluppati ed acuiti proprio dopo la caduta di quel muro. Soprattutto nel Mediterraneo, che continua ad essere una delle aree più turbolente del mondo a causa di continue guerre alimentate essenzialmente da scontri etnici e religiosi.

L’Islam, l’Ebraismo ed il Cristianesimo sono le tre religioni del Dio Unico . In questo senso il Mediterraneo è il mare di un solo Dio. Eppure esistono frontiere religiose nel Mare Nostrum. Sono evidenti. Soprattutto quelle tra il mondo cristiano e quello islamico. Queste frontiere possono condizionare il destino e la pace di un Paese. La religione ha un ruolo essenziale nella costruzione dell’identità nazionale di ciascun popolo.

Nel Mediterraneo cristiani, musulmani ed ebrei hanno condiviso le stesse terre per secoli. Giorgio La Pira negli anni ’50 scriveva che "la Sinagoga, la Cattedrale e la Moschea sono i luoghi intorno ai quali si costruiscono le nazioni, i popoli e le civiltà". La coabitazione tra i popoli delle tre religioni è una realtà della storia del Mediterraneo : una storia di conflitti legati alle religioni, scolpita in maniera indelebile nella memoria. E quelle che viviamo quotidianamente sono guerre "della memoria".

Il dialogo interreligioso è indispensabile anche per lo sviluppo economico dei popoli mediterranei . Occorre, però, ricordare la storia ed il rapporto dei Paesi mediterranei con le religioni e con il mare. E’ opportuno ricordare, insieme con fatti d’ordine storico o geopolitico, il ruolo che potrebbe avere la varietà di fedi religiose o di mitologie.

Molti popoli mediterranei offrivano sacrifici al mare - cavalli, tori, etc. -, simboli di forza o di fecondità. Le divinità marine trovavano nei loro pantheon un posto particolare : Poseidone è, come si sa, figlio di Rea e di Chronos, analogamente a Nettuno per i Romani. Il paganesimo greco fu caratterizzato da un atteggiamento ambivalente : timore davanti a un mare pieno di incognite, amore per lo spettacolo ineguagliabile. La lingua greca possedeva numerose denominazioni per designare i molteplici aspetti del mare : materia o contenuto (hals), presenza, percorso o estensione (pontos, pelagos), natura e avvenimento (thalassa). Quei nomi potevano mettersi uno accanto all’altro e combinare o moltiplicare i significati : materia-estensione, presenza-avvenimento, natura-contenuto, etc. Ciò dimostra, tra l’altro, un’irriducibile ricchezza di rapporti attraverso lo stesso mare.

La Bibbia e il Talmud danno al Mare Mediterraneo vari nomi : "Grande mare" (iam hagadol, Joz, I, 4), "Mare che sta dietro" (iam ha aharon, Deut. XI, 24), "Mare filisteo" (iam p’listim, Ex. XXIII, 31). La parola semita iam designava indifferentemente tutte le grandi distese d’acqua : mari, laghi, fiumi. Sarà la stessa cosa per molti popoli intimoriti dagli sconfinati orizzonti offerti dallo spettacolo del mare : i Romani all’inizio, gli Slavi, i Germanici, gli Arabi, i Turchi..

Il Popolo Eletto, ancora in Egitto, condivideva con i sudditi dei faraoni la paura "dei popoli del mare". Quella disposizione d’animo è implicita tanto nell’Antico Testamento quanto nei testi talmudici. La menzione dei "popoli del mare" si trova nella grande iscrizione di Merenptah. Il papiro chiamato Harris ne enumera alcune : Šerdan (potrebbero essere stati i Sardi), Wešeš, Tekker, Denen, Pelestel (Filistei ?). La Maledizione dei Filistei, marittimi e "incirconcisi", appare nel Vecchio Testamento. Nell’Esodo (14) le acque marine si aprono e il popolo, preceduto da Mosè, passa camminando sulla terra e non navigando. Jona utilizza l’animale presentato spesso in forma di balena per spostarsi per mare ; il suo nome in ebraico significa "colombo" e non "gabbiano". Il mare biblico è popolato di mostri che ricordano Leviathan o Rachab. Daniel vede "quattro grandi bestie che escono dal mare". San Giovanni parla nell’Apocalisse di una "bestia orribile con sette teste e dieci corna". Prevede la scomparsa del mare dopo il Giudizio finale. Il rumore delle onde è paragonato alla rivolta delle nazioni pagane contro Dio (Is. 51). Gesù Cristo cammina sulla superficie delle acque utilizzando le parole che la esorcizzano : "Taci, Calmati" (Matt., 4). Dio soltanto è più forte del mare cattivo.

Il Cristianesimo ha conservato nel suo retaggio un’attitudine analoga. Essa è tuttavia attenuata dal grande viaggio di San Paolo che navigò, non senza difficoltà, dalla Terra Santa alla Città Eterna. San Girolamo tenta di trovare l’etimologia del nome di Maria : alcuni gli attribuiscono l’ipotesi per cui Mir-iam vorrebbe dire Stella maris. Sant’Agostino ci confessa già che "per noi, figli nati e nutriti sulle rive del Mediterraneo (apud Mediterraneos), l’acqua anche soltanto intravista in un piccolo calice ricorda il mare" (Epist. VII, 14).

Ibn Khaldun ha dato testimonianza della paura degli Arabi, e soprattutto dei Berberi, davanti al "Mare Bianco" (al-bahr al-abyad). Così gli Arabi chiamavano il Mediterraneo, attribuendogli anche nomi derivanti dalle altre nazioni : "Mare dei Rumi" (cioè dei Bizantini), "Mare Siriano". Hanno chiamato l’oceano "Mare delle Tenebre" (al-bahr al-zulumat), timorosi di avventurarcisi. Comunque sia, il Corano riconosce "due mari", separati l’uno dall’altro da una parete, che non potranno mai incontrarsi (LV, 19). "Le perle e i coralli provengono da questi due mari" (LV, 22). Tra le metafore figurano anche i "sette mari" diversi. Il Profeta ha salutato le imbarcazioni in navigazione. Ha consigliato di mangiare tutto ciò che proviene dal mare e di adornarsi con tutto ciò che vi si trova. Secondo certi hadits (non tra i più degni di fede) ha anche incoraggiato la conquista di altri mari e ricordato che una vittoria marittima vale dieci vittorie terrestri. Il deserto, che secondo la Bibbia assomiglia al mare, ha assorbito la potenza delle nazioni che lo circondano. Alle genti che lottavano contro le dune non restavano forze sufficienti per affrontare le onde.

Il mare cambia genere da un litorale all’altro : mentre in latino o nelle lingue slave la parola mare è neutra, è maschile in italiano e femminile in francese ; in spagnolo può essere maschile o femminile a seconda delle volte ; possiede due nomi maschili in arabo ; il greco, nelle sue molteplici designazioni, composte o sovrapposte, gli assegna tutti i generi. Così è difficile tracciare le frontiere che separano i mari. I confini di solito non sono marittimi : sono tracciati sui continenti.

Queste considerazioni potranno probabilmente essere di aiuto per comprendere certi rapporti tra le popolazioni che abitano sui contorni di questo mare che molti di noi considerano come "nostro" : mare nostrum, diviso tra noi o da noi.

Cerchiamo si "unire" davvero questo mare, con la tolleranza e il rispetto.Partendo proprio dalle tre fedi.

 

Il pane : oro del Mare Nostrum

Sulle sponde del Mediterraneo, nelle aree in cui il cibo manca più che altrove da secoli scoppiano le guerre.

Il nostro mare ed il pane nostro si cercano e si perdono l’un l’altro.

Il cibo - in primo luogo il pane - diventa uno slogan essenziale : lo ritroviamo nella preghiera e nella rivendicazione.

E’ un bisogno e un sogno.

Fare il pane diviene un atto rituale e la ripetizione di questo gesto porterà alla nascita di un mito: ogni storia, racconto, vicenda umana, collegata all’evento rituale della donna che impasta acqua e farina, reiterato di giorno in giorno, per anni, per secoli, diventa parte del prodotto che darà nutrimento all’uomo. Questi, a sua volta, durante il pasto del pane, al ritorno dalla pastura degli animali, seduto insieme agli altri uomini, portando la "pietra" del pane alla bocca, racconterà altre storie, altre vicende - storie passate e previsione di vicende future -: l’energia che il pane trasmette al pensiero dell’uomo, per la sua semplicità e per la sua composizione che mescola insieme i due elementi dell’acqua e della terra, componenti base della struttura organica del corpo umano, traduce il peso della sostanza nutritiva - la pietra del pane - nella leggerezza del linguaggio e nella luce del pensiero.

Il pane è dunque l’oggetto "mitico" e il catalizzatore del pensiero: l’oro del Mediterraneo.

La scoperta del pane, la sua invenzione, coincide con il passaggio dalla vita nomade all’insediamento stabile della comunità umana. Il pane nasce nella casa ed il processo di gestazione della sua invenzione è collegato a questa presa di contatto dell’uomo con la terra, nello sguardo che l’uomo "pastore" posa sui campi attraversati, contro la fuga dello sguardo che l’uomo "cacciatore" rivolge intorno a sé per cercare la sua preda. La nascita del pane coincide con questo spostamento dell’attenzione dell’uomo dal mondo animale a quello vegetale ed è accompagnato da una percezione diversa del tempo che scandisce la vita del lavoro e della comunità: dalla rapidità della caccia alla lentezza o ponderazione della vita itinerante del pastore legato alla permanenza stabile della donna nella casa.

Diciamo pure che il processo che andiamo a descrivere condurrà ad un evoluzione della natura più propriamente umana - spirituale - dell’uomo, attraverso un avvicinamento alla terra che rivela gli stretti rapporti di parentela tra l’uomo e gli animali, precedentemente cacciati, ora addomesticati. L’uomo addomestica e quindi osserva la vacca, la pecora, il cavallo, il cane, il gatto. Gli animali erbivori suggeriscono di cibarsi dei frutti della terra e la donna comincia a raccogliere vegetali (radici, frutti, semi) che all’inizio vengono mangiati crudi. Lucrezio, Ovidio, Plinio ci tramandano notizie di questa prima fase, nella quale i popoli si cibavano di farina dei fagioli, ghiande e frutti di palma.

In realtà si può affermare che il concetto del pane nel Mediterraneo esistesse prima del pane stesso: la sua preparazione fu la risposta naturale ad un bisogno e ad una domanda che cominciarono ad assillare gli esseri umani riuniti nel consorzio civile, messi di fronte all’aumento crescente delle bocche da sfamare. A questa prima domanda - "come nutrirsi?" - alla quale il pane fornì una risposta, fece seguito una serie di considerazioni sulla natura di questo alimento che soddisfacevano gli altri interrogativi e placavano i dubbi in merito all’adeguatezza e superiorità del pane rispetto ad altri possibili "rivali".

La conservabilità del suo elemento base, i cereali, fu un primo fattore decisivo che però non escludeva la scelta di altre graminacee: l’orzo, il miglio, l’avena.

Come accade per tutti i passi fondamentali del cammino dell’umanità, anche la nascita del pane è avvolta da un alone di mistero e di incertezza relativamente al luogo e al momento preciso della sua comparsa. Così come per il grano, dove la paternità è contesa dalle regioni limitrofe al fiume Nilo e al fiume Giordano e dall’Abissinia, allo stesso modo ci sono vari paesi del Mediterraneo che bisticciano per attribuirsi il titolo di "cornucopia" del mondo, e tra di loro c’è anche la Sicilia.

Altro motivo fondamentale che fece pesare la bilancia decisionale nella direzione del grano piuttosto che di altri cereali, fu la sua resistenza alle intemperie, al freddo e al gelo che nell’antichità raggiungevano picchi altissimi, ai limiti della sopportazione.

Per quanto riguarda la preparazione del pane, uno degli aspetti più curiosi è quello riguardante il modo nel quale l’uomo arrivò all’ideazione del processo di molitura. Anche qui egli fece ricorso, evidentemente, all’osservazione di un meccanismo naturale e spostando lo sguardo dai frutti della terra agli animali che di quelli si cibavano, se stesso incluso, si appropriò della masticazione e ne tradusse la manualità attraverso l’invenzione della molitura. La riduzione del cereale in farina era già un passo importante verso l’istituzione del cibo per eccellenza; ma fu la possibilità dell’aggiunta del lievito a dire l’ultima parola. La crescita dell’importanza del pane nella storia nutrizionale dei popoli mediterranei e dell’umanità intera è propiziata dalla lievitazione della sua massa ad opera della birra, cioè del lievito di birra, che era conosciuto fin dai tempi di Babilonia.

Il lievito introduce un fattore creativo nella prassi artigianale del pane: esso è l’elemento che permette all’uomo, come soggetto creativo e pensante, di concrescere all’oggetto della sua creazione, innestando la sostanza ed il tempo dell’idea sul corpo della prassi. Le varie forme e qualità che il prodotto assume, variando la natura del processo di creazione, è ciò che rivela all’uomo la sua natura di homo faber.

In questo senso la farina è l’equivalente dell’argilla e dei mattoni utilizzati per fare la casa, ed alla costruzione della casa corrisponde la costruzione dei forni, cioè degli strumenti necessari per condurre a compimento il lavoro. Il forno è la fucina dove si forgia l’idea che si esprimerà nell’oggetto che viene fuori, una volta terminato il processo, nella forma di un mattone per la costruzione della società, oppure nella forma del pane, quella che viene chiamata "pietra filosofale" che consente di estrarre l’oro del pensiero.

Dalla terra - farina, sabbia, argilla - combinata alla fluidità dell’acqua, dopo il suo passaggio nella forgia del fuoco, si approda all’aria: la leggerezza della parola e dell’idea. Questo parallelo ci porta, ancora una volta, a fare un’incursione nella filosofia e nella religione. Che nasca dai quattro elementi dei presocratici oppure dalla terra dei cristiani, nel mito della creazione del primo uomo è implicito il sorgere dell’homo faber, "sinolo indissolubile di natura naturata e ragione ragionevole" - come voleva Locke -, che appone la sua impronta, il marchio della sua ragione nella materia, oggetto del suo fare.

Ebbene l’homo faber, che come soggetto autocosciente nasce nel 700 ma come semplice artigiano - fabbro, fornaio, falegname, scrittore - comincia la sua carriera perlomeno dal tempo in cui si può datare l’invenzione del pane, è colui che si impadronisce del tempo e lo scandisce secondo il ritmo della "durata delle proprie idee". Il suo piacere nell’osservazione del processo di produzione è tale da consentirgli di impastare le proprie idee contemporaneamente all’impasto del materiale che ha di fronte, senza sentire noia oppure distacco per l’azione che sta compiendo la quale corrisponde alla traduzione dell’idea in una forma. Nella storia del pane questo rapporto con la forma è della massima importanza: forma conica, concava, tonda, piana sono il supporto che l’uomo predispone al proprio operare affinchè la sua creatività non fluisca all’infinito e sia materiata in un oggetto; affinchè il tempo della creazione non fluisca ininterrottamente e si condensi invece in una porzione limitata dello spazio.

Alla ritualità ed al godimento dell’uomo nel tempo individuale della produzione del pane, corrispondono l’atto rituale e il piacere della mensa, momento nel quale veramente il pane diventa oggetto mitico, e la sua fruizione collettiva, autentico rito.

L’essere commensali, il piacere della mensa sono immensamente importanti per gli antichi, a partire dagli egizi e dai latini. E se risaliamo ancora la china della tradizione vediamo che la questione del convivio rituale, nel suo collegamento con il pane in quanto simbolo, è tema centrale ed emblema profondo della Bibbia: il pane sudato, frutto del lavoro dell’uomo e oggetto di sacrificio come il corpo dell’uomo stesso, messo a dura prova nel lavoro della terra ed offerto come sacrificio nel corpo di Cristo durante l’Ultima Cena. Dunque, la consumazione del pane non è mai un atto inconsapevole ma sempre accompagnato da meditazione sul processo, e dunque sul "tempo" significativo della sua preparazione. Ci troviamo, ancora e sempre, di fronte al connubio ed all’"impasto" idee-materia, pensiero e pane: impasto che ritorna ancora nella coniugazione di pane e memoria.

Possiamo dire, a questo proposito, che il lievito è la memoria del pane: il tempo della lievitazione è il simbolo del fermento della storia che accompagna la crescita dell’uomo, delle sue idee e della sua prassi. E se ci spingiamo oltre nella metafora che abbiamo stabilito, possiamo ben affermare che la lievitazione rappresenta l’innesto della storia sulla natura dell’oggetto. Ecco che allora, come coacervo di storia e natura insieme, e quindi simbolo dell’uomo, il pane diventa "pane di commemorazione", prestandosi alla celebrazione della nobile essenza dell’uomo.

Non a caso, l’immagine del pane è riproposta iteratamente dall’iconografia sacra e profana. Nella Bibbia si pone l’accento sull’"epifania" del pane, sul pane che si fa vedere, che si espone. Raccogliendo questa prescrizione, gli artisti incentrano il racconto degli eventi sacri intorno alla figura del pane, o quantomeno rivestono tale elemento di enorme dignità allegorica ed estetica.

L’enfasi con cui si sottolinea, in campo religioso, l’importanza del pane trova corrispondenza nel campo politico dove la leggendaria "distribuzione dei pani e dei pesci" della tradizione biblica non è altro che l’astrazione di un’esigenza pratica, di un bisogno avvertito sempre di più: quello di "trovare" il pane da dare alla gente. Basti pensare che le riforme di Caio Gracco sono collegate al pane e che a partire da questo momento si instaura un meccanismo tipico della politica teso a conquistare oppure alienare il favore delle masse con provvedimenti su questo alimento: fino ad arrivare ad una vera e propria demagogia del pane.

Esistono una serie di decreti a proposito del pane nella legge romana che ai nostri occhi possono apparire estremamente curiosi: ad esempio, sappiamo che per avere la cittadinanza bisognava dimostrare di "avere" il pane, che equivale ad essere in grado di assicurarsi autonomamente la sussistenza. Secondo un decreto di Traiano, il fornaio forestiero che forniva il pane per tre anni di seguito acquistava automaticamente il diritto alla cittadinanza.

Esiste una Poetica del pane. Se abbiamo paragonato la preparazione del pane a quella di un’opera di creazione, è ovvio che, come in ogni arte che si rispetti, anche in quella del pane si conferisce un valore particolare agli strumenti (le forme, i mulini, i forni) , alle persone, alle norme che ne regolano l’attuazione. A conferma del rilievo conferito agli artigiani o artisti del pane esiste infatti a Pompei il ritratto di un fornaio, cosa che la dice lunga sul fatto che questa professione fosse insignita di un onore speciale.

Inoltre, come accade per i generi letterari per i quali le poetiche descrivono e prescrivono una gerarchia degli stili, allo stesso modo, nell’antica Roma venne codificata una gerarchia dei pani: pane plebeus, rusticus, sorticus, digesticus, con le sue varie forme: fornaceus, acquaticus, etc.

Nasce una nuova dea che corrisponde quasi ad una musa: Annona, protettrice del pane e di coloro che lo fanno.

Discorso a parte merita la Poetica del pane sacro. Nella Sacra Scrittura il pane è visto innanzitutto come dono di Dio e, ad un primo livello, possiamo comprendere che il riferimento è all’uomo, figlio e dono di Dio. Ma gli appellativi utilizzati sono numerosi: pane di cenere; pane di gioia; pane di menzogna (che è quello del peccatore); pane di ozio (il cibo del pigro).

San Paolo raccomanda ai Corinti di ricordare che il pane è il primo dono di Dio, dono sottratto dopo il peccato originale, o meglio sudato nel lavoro dell’uomo, condannato alla fatica fino all’arrivo dell’epoca escatologica. Coerentemente al concetto di dono, nella Bibbia si mette l’accento sulla natura democratica del "frammentare" il pane durante il rito eucaristico. "Tagliare" il pane è peccato.

Guardando questo pezzo di cibo ogni giorno presente sulla nostra tavola, ricordiamoci la grande storia che in esso è racchiusa, recuperiamone i valori profondi ed accanto a tutti i pani che ci vengono dati dalla poetica e dalla tradizione inseriamo il "PANE DELLA PACE" : che da oggi questo simbolo diventi un messaggio di pace e solidarietà ; dobbiamo essere capaci di "frazionare" il nostro pane, di abbandonare i nostri interessi particolari per aiutare chi soffre.

Solo così potremo sperare in un futuro migliore che - ricordiamolo - dipende soprattutto da noi e dalle nostre volontà.

 

Questi sono solo alcuni dei tanti aspetti che caratterizzano i popoli e le culture del Mediterraneo.

Sarebbe arduo affrontarli tutti.

Le brevi considerazioni che ho espresso fin qui, affrontando a caso alcuni tra gli affascinanti temi che il Mare Nostro propone, vogliono soltanto stimolare il recupero di una identità e di un "concetto mediterraneo" che è indispensabile nella didattica, nella politica, nella vita di tutti i giorni.

Soltanto quando francesi, spagnoli, greci, siriani, albanesi, tunisini, sloveni, turchi, bosniaci, croati, italiani, algerini, egiziani e via dicendo sapranno identificarsi come "Mediterranei" potremo sperare in un futuro migliore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

B I B L I O G R A F I A

 

Amin S., Yachir F., La Méditerranée dans le monde. Les enjeux de la transnationalisation, Éditions La Découverte/Toubkal, 1988 ;

Braudel F. a cura di, La Méditerranée. L’espace et l’histoire, Flammarion, 1985 ;

Braudel F., Duby G. a cura di, La Méditerranée. Les Hommes et l’héritage, Flammarion, 1986 ;

Capasso M., Quale Mediterraneo, Quale Europa, Edizioni Magma, 1995 ;

Gizard X. A cura di, La Méditerranée inquiète, datar/éditions de l’aube, 1993 ;

Malki El H. a cura di, La Méditerranée en question. Conflits et interdépendances, Editions du CNRS, 1991 ;

Matvejevic’ P., Mediterraneo. Un nuovo breviario, Edizioni Garzanti, 1992 ;

Matvejevic’ P., Ex Jugoslavia. Diario di una guerra, Edizioni Magma, 1995 ;

Matvejevic’ P., Sulle identità dell’Europa, Quaderno n. 2 della Fondazione Laboratorio Mediterraneo, Edizioni Magma, 1995 ;

Matvejevic’ P., Il Mediterraneo e l’Europa, Quaderno n. 1 della Fondazione Laboratorio Mediterraneo, Edizioni Magma, 1995 ;

Matvejevic’ P., Mondo "ex". Confessioni, Edizioni Garzanti, 1996 ;

Minissi N., Rapporto sull’Università, Edizioni Magma, 1995 ;

Serra L. a cura di, La città mediterranea, Atti del Congresso Internazionale di Bari, 4 - 7 maggio 1988, Istituto Universitario Orientale, Dipartimento di studi e ricerche su Africa e Paesi arabi, Edizioni Napoli 1993, 1993 ;

Spataro A., Khader B., Il Mediterraneo. Popoli e risorse verso uno spazio comune, Edizioni Associate, 1993 ;

"Sud", Revue Litteraire bimestrielle, Méditerranée, n. 64/65, 1986.