"IL DENARO"

19 maggio 2001

PALESTINA: un tonno, mortai e mille frontiere.

Concluso ad Amman il primo ciclo di Cinemamed

L’odio annega il processo di pace

di Michele Capasso

Amman, 16 aprile 2001. La regina Ranja, rappresentante della Giordania d’oggi – efficiente e rispettosa della pace e del progresso condiviso - sostiene il programma Cinemamed.

L’auditorium del Royal Cultural Centre è affollato di oltre 500 invitati: studenti, ambasciatori, delegati dell’Unione europea e dell’Onu, ministri e rappresentanti del Governo giordano. La regina, nel suo messaggio, sottolinea l’importanza del cinema come strumento per il dialogo tra le diverse culture per riaffermare il valore delle identità come risorsa comune. La rappresentante dell’Unione europea Monica Leveque dettaglia il progetto Cinemamed e sottolinea il successo di questa azione- organizzata dalla nostra Fondazione - riscontrabile negli oltre 70.000 partecipanti al Festival del cinema dei Paesi arabo-mediterranei, già svoltosi a Palermo, Bologna, Edimburgo, Cattolica, Lecce, Madrid, Lisbona accompagnato da seminari e tavole rotonde di grande interesse e che si conclude proprio ad Amman.

Chi scrive ringrazia la regina ed il Governo giordano, ricordando l’antico legame con re Hussein – assegnatario nel 1999 del Premio "Mediterraneo di Pace" – e le azioni concrete attivate dalla nostra Fondazione con l’ausilio della nostra sede di Amman: la Conferenza euromediterranea svoltasi ad ottobre 2000 sul dialogo interculturale, la valorizzazione delle donne-artiste del Medio Oriente, una scuola sulle politiche euromediterranee, il progetto "medina" per la valorizzazione dell’artigianato e dei mestieri d’arte attivato con la Jordan River Foundation, presieduta dalla stessa regina Ranja.

Viene proiettato, in apertura, un film libanese che descrive la distruzione di Beirut durante la guerra civile degli anni ’80 e ’90. I protagonisti vengono raccontati in vari periodi della loro vita e in varie circostanze: prima della guerra, durante la guerra, dopo la guerra. Le loro ideologie, i loro "credo" per cui erano disposti ad ammazzare o a farsi ammazzare dalle diverse fazioni in lotta, vengono dimenticati ed assorbiti da interessi economici prodotti dall’attività di ricostruzione postbellica della città. Alcuni studenti dell’Università di Amman con i loro professori ci consegnano una lettera in arabo: vogliono che Cinemamed continui, vogliono capire, analiticamente, la storia e le culture dei Paesi arabi. Gran parte di loro sono di origine palestinese e vogliono perseguire la pace ed il progresso, non vogliono la guerra.

Gerico, 18 aprile 2001. Attraversare il ponte di Allenby è impresa ancora più difficile. I pochi chilometri che dividono la città delle palme da Amman sono interrotti da infinite frontiere: qui, insieme al vento ed alla sabbia, si percepisce la tensione della guerra. Un copione già scritto e che rende i palestinesi rassegnati quando si ode un’esplosione o quando sfrecciano nel cielo gli elicotteri israeliani.

Kalil è un palestinese di Gaza. Con lui, da Gerico, mi reco a Betlemme prima e, poi, a Gaza.

19 aprile 2001. Amman è lontana. Qui a Gaza anche il Mediterraneo sembra lontano. Un destino bizzarro ha voluto mescolare i coloni ebrei, frutto di una diaspora di enormi proporzioni, con i palestinesi, espressione della cultura araba spesso più intransigente. E’ un tragico spettacolo già scritto: le incursioni degli israeliani con carri armati, navi, aerei o elicotteri – è vera guerra!! – distruggono obiettivi precisi, ma anche le case, le vite, le memorie, le speranze ed il futuro di povere famiglie palestinesi spesso senza alcuna colpa; gruppi di palestinesi arrabbiati, fondamentalisti e non, accecati da un odio antico, reagiscono a dismisura con colpi di mortai che distruggono le case dei coloni e rendono a rischio la vita quotidiana di ebrei catapultati in quest’angolo di mondo.

Gaza, 20 aprile 2001. E’ molto rischioso attraversare i territori. Il rischio di bombe, mortai, attentati è forte, come quello dei mille blocchi controllati da nervosissimi giovani militari israeliani. Decidiamo di attraversare il deserto e di ritornare ad Amman da Sud.

Ahmed è un beduino originario dell’Arabia Saudita. Con lui passerò due giorni nel deserto: duecento chilometri con cammello e vecchia jeep, tra sabbie rosa, sterpi, vento e scenari naturali di assoluta bellezza: un patrimonio antico che, insieme agli altri, potrebbe rendere questa terra ed i Paesi che la comprendono – Palestina, Giordania, Libano, Siria e Israele – un giacimento turistico-culturale di assoluta unicità.

La frontiera con il Sinai e con l’Egitto è anch’essa presidiata da soldati israeliani. La attraversiamo e, finalmente, scorgiamo le acque azzurre del Mar Rosso che penetrano nel deserto concedendo poco ad alberi e vegetazione. E’ uno scenario lunare.

Il Golfo di Aqaba è anch’esso frantumato da invisibili frontiere: i suoi pochi chilometri di costa sono divisi tra Egitto, Israele – con la città di Eliat -, Giordania – con la città di Aqaba, unico sbocco marittimo – ed Arabia Saudita.

Ahmed propone di andare ad Aqaba evitando Eliat, utilizzando una barca del suo amico egiziano Nehad. Il colore dell’acqua è incredibilmente azzurro, disturbato soltanto dalle motovedette dei vari Paesi che difendono invisibili ed indefinibili confini sull’acqua. Nehad mi invita a lanciare un amo con un pennacchio di stoffa. E’ la stagione dei tonni e le possibilità di adescarne qualcuno sono alte.

Osservo la costa e le sue contraddizioni: Eliat, con i suoi grattacieli ed il suo "taglio" occidentale, è una violenza contro questi luoghi ed è divenuta solo una località turistica per occidentali desiderosi di fare vacanza sul Mar Rosso, senza assaporarne né la storia né la vera identità; Aqaba è uno strano porto, l’unico sbocco della Giordania (ma anche dell’Iraq e di altri Paesi) sul Mar Rosso e sul Mediteraneo: mantiene l’identità di una cittadina araba, violata solo da grandi alberghi che contrastano visibilmente con la struttura della città.

Immerso in queste riflessioni, vengo strattonato violentemente. Tito la lenza ed ecco apparire un tonnetto argenteo di oltre due chili. Nehad mi aiuta a sganciare l’amo ed a depositarlo sul fondo della barca. Per lunghi secondi il tonno si dimena, come invaso da scariche elettriche, lancia guizzi di sangue: i suoi ultimi segnali di vita. Una lancia israeliana ci ferma. Il tonno è stato pescato in acque israeliane che, in questo periodo , vietano la pesca a traino. Dopo lunga discussione riusciamo ad andare via con la preda. Poco più avanti ci ferma una motovedetta dell’Arabia saudita, vogliono vedere cosa abbiamo pescato e, anche se in maniera tollerante, ci invitano a non farlo più per evitare di danneggiare la barriera corallina. Ci dirigiamo verso Aqaba facendo sosta su una spiaggia deserta: è qui che Nehad e Ahmed raccolgono un po di legna secca e, sulla brace, cucinano il tonno che, poi, ci dividiamo.

Un vento forte ed una nebbia afosa rendono complicato il ritorno, l’aria irrespirabile e la visibilità ridotta. Come un fantasma appare, all’inizio del porto di Aqaba, la motonave italiana "Maria Bottiglieri". La scritta "Napoli" mi riconduce bruscamente alla realtà, ricordandomi l’aereo da prendere nel pomeriggio.