"IL DENARO"

9 giugno 2001

MEDIO ORIENTE: SULL’ORLO DELL’ABISSO

La cooperazione per la sicurezza è la sola risposta ai kamikaze.

L’enigma Arafat e le incertezze dell’Europa.

di Michele Capasso

Gerusalemme, 29 settembre 2000. Shmuel Hadas e Shimon Peres avevano previsto l’escalation tragica delle nuove tensioni iniziate con la visita di Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee: "Questa volta – affermò allora Peres – considerate anche le crisi politiche interne in Israele come in Palestina, sarà difficile attuare quella cooperazione di sicurezza che evitò tragedie nel passato recente"

Mai come in questo caso ho vissuto in prima persona, da testimone sui luoghi, l’evolversi di questo ennesimo tragico conflitto. Mai come in questo caso ho potuto riscontrare la lentezza dell’Europa, e dell’Italia in particolare, rispetto ad una crisi che merita non solo attenzione ma, soprattutto, un’azione concreta e veloce per la sua risoluzione.

Il processo di pace israelo-palestinese, lanciato a Washington nel 1993, è stato soffocato dagli attentati suicidi dei kamikaze palestinesi che hanno causato decine di vittime civili tra gli israeliani.

La lotta contro questi giovani-bomba-palestinesi-suicidi è difficile e delicata: lo è ancora di più in considerazione della frantumazione dei territori, dell’assenza di una frontiera definita e dello stato di "blindatura" degli stessi. Ritornando indietro con la memoria rispetto a simili incontrollabili azioni suicide, l’unico risultato ottenuto nel passato è stato possibile grazie a una cooperazione mutua tra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi. Questa cooperazione ha già mostrato la sua efficacia nel febbraio e marzo 1996, quando il Movimento di resistenza islamica "Hamas" attuò molteplici attentati per vendicarsi della morte di uno degli artificieri della sua ala militare Yéhia Ayache: lenta e difficile a realizzarsi, tale cooperazione fu allora coordinata dalla CIA americana e consentì lo smantellamento dell’ala militare di Hamas e, in seguito, un periodo di relativa sicurezza e tranquillità. A garantirla furono soprattutto i servizi palestinesi di sicurezza "preventiva" diretti da Jibril Rajoub in Cisgiordania e da Mohamed Dahlan a Gaza: funzionari che ottennero un indiscusso credito ed altrettanta fiducia da parte israeliana.

Dal 29 settembre dello scorso anno, inizio ufficiale di questa nuova "intifada", l’auspicata cooperazione per la sicurezza è abortita sul nascere. Fu lo stesso Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione, a chiedere la rimozione del responsabile palestinese per la sicurezza preventiva, ritenuto addirittura complice degli attentati terroristi indirizzati verso i coloni ebrei della striscia di Gaza.

Da allora la situazione è andata via via degradandosi fino ad arrivare alla recente carneficina nella discoteca di Tel Aviv preceduta da altri azioni similari: tra queste quella del 14 febbraio 2001, quando un autista palestinese lanciò il suo autobus contro passeggeri in attesa (8 i morti) e quella del 18 maggio scorso quando un giovane imbottito di esplosivo davanti ad un centro commerciale di Nétanya si fece esplodere (5 i morti). In tutti e tre i casi si tratta di giovani senza un passato politico, apparentemente normali e dunque particolarmente difficili da identificare.

Questi giovani kamikaze sono istruiti, convinti del loro sacrificio e come tali capaci di colpire ovunque, volendo anche fuori da Israele.

Contro questa nuova minaccia un ruolo risolutivo potrà essere svolto, come accennato, solo da una incisiva cooperazione tra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi. Tale cooperazione, per rinascere, richiede un compromesso su importanti ed essenziali concessioni politiche che, oggi, né i palestinesi né gli israeliani intendono attuare. Complice di questa fase di stallo è l’ "enigma Arafat".

In oltre cinquant’anni di militanza per il Movimento nazionale palestinese, Yasser Arafat ha vissuto molti momenti difficili: a Beirut, ad Amman e altrove egli si è trovato spesso di fronte a barriere insormontabili e molti autorevoli osservatori ritenevano la sua fine politica imminente. E invece eccolo sempre risorgere ed acquisire un ruolo più centrale che mai. A 72 anni il rais palestinese è riuscito in questa azione difficile di sopravvivenza fisica e politica. Ma oggi, all’indomani dell’attentato del 1 giugno di Tel Aviv in una discoteca, di fronte allo sdegno generale per la morte di più di 20 giovani adolescenti israeliani e per decine di feriti, molti dei quali straziati nel corpo e mutilati, Arafat ha messo in gioco la propria credibilità. Incalzato dal Ministro degli Esteri tedesco Ficher – che lo "ricatta" minacciandolo di ritirare i finanziamenti della Germania e dell’Europa, principale fonte per garantire l’esistenza dell’Autorità palestinese – il leader palestinese finalmente ordina di far tacere le armi. Ma questa volta pare che nessuno lo ascolti.

Una decina di organizzazioni palestinesi – tra le quali Hamas, la Djihad e la stessa Fatah (di cui Arafat è "capo") – rispondono che non si fermeranno mai e che l’intifada continuerà fino "alla distruzione" di Israele.

Un grande regalo al premier israeliano Sharon. Una inoppugnabile giustificazione per Israele per mettere in atto azioni difensive, occulte e palesi, additando la "non credibilità" di Arafat e la "necesità" di eliminare i terroristi palestinesi per assicurare sicurezza al popolo israeliano.

La posizione di Arafat è ambigua. Nell’ottobre 2000, dopo l’inizio della nuova intifada, liberò dalle prigioni palestinesi forze estremiste e terroriste che oggi è incapace di controllare. Senza dubbio la discutibile azione politica di Sharon, con la forte repressione e la colonizzazione dei territori, feriscono giustamente la dignità palestinese e nutrono quotidianamente l’intifada: ma Arafat, liberando molti pericolosi militanti di Hamas e della Djihad - gli stessi che oggi rivendicano gli attentati prima descritti – e lanciando ai media mondiali segnali di odio feroce contro Israele da l’impressione di voler alimentare una guerra "perenne" contro Israele, pur sapendo di essere obbligato – dalla storia, dalla geopolitica e dagli equilibri mondiali – a coesistere con questo popolo. L’enigma di quest’uomo è tutto qui: da un lato ha saputo preservare l’identità palestinese conducendola ad un passo dal diventare "Stato sovrano", dall’altro ha perso in più casi "l’opportunità di cogliere l’opportunità" che più volte gli è stata offerta per giungere ad un dignitoso compromesso.

Mercoledì 6 giugno. I coloni della Cisgiordania si ribellano proprio mentre il capo della CIA si trova nella regione. Gli estremisti palestinesi ribadiscono il no al "cessate il fuoco" proclamato da Arafat e minacciano anche lui. La Germania, con una missione del ministro degli Esteri Ficher, tenta di salvare il salvabile. Il ministro per le politiche comunitarie francese Moscovici dichiara che "non è interesse di alcuno stabilizzare Arafat: occorre far rispettare il suo ‘cessate il fuoco’ ed Israele deve allentare la morsa sui territori eliminando l’embargo dei beni". Javier Solana afferma che il piano Mitchell è stato accettato e va rispettato. L’Italia, con il nuovo governo alle porte, è praticamente assente.

Siamo ancora lontani da un’ azione incisiva e concertata. E intanto i danni di questo nuovo conflitto sono profondi e lasceranno tracce durature. Molti israeliani stanno abbandonando il Paese: non sono disponibili a rischiare la vita per la propria terra; non sono disponibili a considerare come "vita normale" quella che vede i propri vicini ammazzati, le figlie di un parente falcidiate in una discoteca; non sono disponibili ad accettare i dati di un’arida tabella che indica il rischio di morte per attentati in Israele appena 6 volte maggiore, come probabilità, ad un incidente mortale su un’autostrada a forte traffico; non sono disponibili a morire per Israele. Vogliono, e sono in tanti, gli israeliani come i palestinesi, semplicemente vivere.