3 aprile 2001
di
Francesco Romanetti
Luan Starova era un intellettuale jugoslavo. Poi è
diventato un intellettuale macedone. Da jugoslavo è stato ambasciatore a
Tunisi. Quando la Repubblica federale si è dissolta, da macedone se ne è dovuto
tornare a casa. Cioè a Skopje, dove ha ripreso ad insegnare all’università.
Ora, all’interno della Macedonia, fa di nuovo parte di una minoranza, quella
albanese. “Sono il prototipo – dice con autoironia – dell’homo balcanicus”. Scrittore, docente di letteratura francese, in
una trilogia ha raccontato cento anni di storia balcanica attraverso una saga
familiare, dove il padre-protagonista “vede crollare tre imperi: quello
ottomano, quello nazista, quello stalinista”. “La penisola balcanica – osserva
– è in fondo un piccolo territorio, in cui da secoli convivono numerose
comunità, ognuna delle quali spesso parla una lingua sconosciuta alle altre. In
un momento o nell’altro della storia, ogni comunità è divenuta minoranza subendo
discriminazioni e soprusi. Il problema nasce quando un’etnia diventa nazione,
crea frontiere e ingloba un gruppo che diviene minoranza…”.
Professor
Starova, l’arresto di Milosevic che cosa rappresenta nella storia recente
balcanica?
“Il destino ultimo di un dittatore. Milosevic si credeva messaggero di un grande disegno, quasi un dio. Per la soluzione dei conflitti, nell’ex Jugoslavia come altrove, non vedo altra soluzione che la democrazia. Cioè impegnarsi per “cambiare le teste”, non per “tagliare le teste”.
La disgregazione e il conflitto sono comunque processi complessi. Tutta colpa solo di Milosevic?
“Senz’altro Milosevic ha giocato su contraddizioni esistenti. E lo ha fatto per trarne profitto per il suo popolo: la sua colpa è non aver stimolato legami preesistenti tra le diverse comunità, ma al contrario avere abbracciato il nazionalismo, quello teorizzato dal Memorandum dell’Accademia serba”.
L’esplosione del conflitto in Macedonia avviene dopo fenomeni di disgregazione in Croazia, Bosnia, Kosovo: quale esito immagina?
“In Macedonia non è in atto una guerra. C’è un tentativo di destabilizzazione da parte di gruppi albanesi, infiltrati soprattutto nel Kosovo. Ma credo che queste provocazioni non abbiano la possibilità di successo. Certo, esiste una situazione di antagonismo tra comunità macedone e albanese, ma penso anche che dieci anni di evoluzione democratica abbiano posto le premesse per affrontare la questione attraverso il dialogo. Ho fiducia che le grandi energie ispirate dai nazionalismi e dal ruolo di Milosevic, che hanno condotto alle guerre, si siano esaurite”.
Su quali valori condivisi, su quali principi, le ex repubbliche jugoslave potranno intraprendere un percorso comune?
“Non vorrei sembrare un nostalgico, ma credo che vadano recuperati alcuni valori di solidarietà che nella ex Federazione jugoslava in passato hanno garantito la convivenza tra diverse comunità. Il comunismo jugoslavo, a modo suo, aveva tentato di dare una risposta alla questione nazionale. Ma era anche totalitarismo. Oggi i popoli e le repubbliche della ex Jugoslavia devono ritrovare la capacità di comunicare, ma su basi democratiche. D’altra parte, non sarebbe giusto che mentre tra i Paesi europei si aprono le frontiere nei Balcani continuassimo a chiuderle”.