“IL DENARO”

15 settembre 2001

 

 

La cultura e il dialogo: unica speranza per la pace

di Shmuel Hadas*

 

I tragici eventi americani hanno dimostrato, ancora una volta, che il concetto di “sicurezza” si è anch’esso globalizzato.

Non è più possibile, oggi, parlare di “sicurezza locale o nazionale” allontanando le insicurezze ed i rischi proporzionalmente ai chilometri che ci dividono.

Siamo di fronte al solito circolo vizioso: non c’è pace se non c’è sicurezza, non c’è sicurezza se non c’è pace; non c’è pace senza il compromesso, non c’è compromesso senza la sicurezza.

Pace, sicurezza, dialogo e compromesso sono gli ingredienti indispensabili per una pace non solo in Medio Oriente ma anche in altre parti del mondo. Una pace che significa soprattutto rispetto dell’altro e condivisione delle risorse del pianeta, che significa lotta alle emarginazioni, alla fame ed alle mille insidie di cui sono vittime una gran parte di abitanti del globo e che non è più possibile ignorare.

Le azioni politiche necessarie per giungere ad un compromesso e, quindi, garantire pace e sicurezza, richiedono l’affermarsi della cultura: i politici, oggi più che mai, devono essere persone colte, capaci di avere una visione sociale e culturale e , perciò, politica nel senso più ampio.

In tale scenario indispensabile risulta il contributo di Università ed Alte Istituzioni culturali che possono aiutare i politici nell’attuazione di tale processo.

Vorrei, in questi momenti tragici, condividere le parole con cui l’amico Shimon Peres ha salutato la nascita dell’Accademia del Mediterraneo come risorsa di estrema rilevanza per il futuro e per la pace.

Il dialogo tra le tre grandi culture – ebraismo, cristianesimo e islam – potrà dare una grande promessa per il futuro dei nostri figli. La cosa importante da capire è che la pace si svilupperà in una nuova realtà e non nei campi militari o nelle stazioni di polizia. La pace germoglierà realmente nella vita accademica e nelle Università: che diventeranno un indispensabile strumento di pace e sviluppo.

La pace che stiamo cercando di conseguire nel Mediterraneo non riguarda solo le popolazioni che vivono in quell’area, ma è il tentativo molto più ambizioso di portare questa antica regione nella nuova era. Se il nostro compito si limitasse a porre fine alla guerra, la conseguenza sarebbe solo che il Medio Oriente rimarrebbe povero, ignorante, insoddisfatto, e tornerebbe alle vendette, ritorsioni antiche abitudini di combattere e uccidere.

Nella nostra era dobbiamo dire addio al concetto di “storia” e di “territorio”. Al concetto di storia perché non c’è tanto da essere orgogliosi di essa: i libri di storia contengono solo eventi e narrano una storia continua di guerre e di uccisioni, scritta con inchiostro rosso, e l’apocalisse che ha colpito New York costituirà, purtroppo, un capitolo indelebile della storia mondiale: uno spartiacque che cambierà la nostra storia e il nostro modo di vivere e di essere.

La guerra è costata molto ai giovani, alcuni hanno perso braccia, gambe, perfino la vita nella I e nella II guerra mondiale: che cosa abbiamo ottenuto da tutto questo in effetti? Niente di positivo: quindi abbiamo bisogno di una nuova storia.

Alla fine del XX secolo abbiamo assistito alla fine dell’economia basata sulla terra, sulle risorse naturali, sull’agricoltura: non abbiamo più, oggi, un’economia ed una politica legate agli eserciti, ai confini, alle sovranità. C’è una nuova “forza” che ci permette di esistere e ci darà la prosperità; una forza che non è più la terra ma la cultura e la scienza, non più il territorio ma la tecnologia, non più il suolo ma l’essere umano, poiché ci siamo resi conto che sia il nostro spirito sia il nostro intelletto hanno delle risorse che vanno ben oltre la ricchezza materiale.

           

            *Membro dell’Accademia del Mediterraneo

 

 

 

 

 

 

 

Siamo passati ad un tipo di economia in cui i confini hanno perso importanza e stiamo assistendo ad un nuovo fenomeno nell’era moderna per cui ciò che fondamentale non è più conservare beni e accumularne di nuovi, ma agire nel modo più veloce possibile. Quanto più siamo veloci, tanto più riceveremo profitti.

Nessuno potrà fermare questo processo, incentrato sulla velocità che fa risparmiare tempo, materiali, intermediari e capitali; inoltre la velocità ci porta a scoprire nuove tecnologie, nuove idee, nuovo commercio, nuova produttività.

Non credo che la globalizzazione e la privatizzazione siano ideologie ma risultati della nuova economia. Non è un concetto semplice, perché la globalizzazione ha posto fine, in un certo senso, ai tradizionali Stati Nazionali: questi sono troppo piccoli per i grandi problemi e troppo grandi per i piccoli problemi.

Ora, perché l’economia globale è staccata dalla geografia? Perché essa è l’economia delle infrastrutture, non è nazionale. Stiamo pensando ad un mondo di nemici, ad un mondo di pericoli; i nemici di ieri non sono più pericolosi, ma i pericoli di oggi sono seri se non siamo in grado di affrontarli nel modo migliore: primo fra tutti il terrorismo.

Pensiamo all’inquinamento, alla droga, a malattie quali l’Aids: possiamo fermare questi pericoli alle frontiere? La risposta è no, a meno che non lavoriamo insieme per far si che i nostri figli non muoiano né per la guerra né a causa di questi nuovi mali.

Se vogliamo avvantaggiarci della velocità dell’economia globale, dobbiamo stare attenti a non rallentare le economie nazionali. Possiamo usare Internet, i computer, appropriate forme di comunicazione, di elettricità e di turismo che rappresentano le nuove potenzialità.

Se guardo al Medio Oriente ciò che è evidente è il timore della guerra e l’invisibilità del nemico. E’ peggiore della guerra stessa o del nemico visibile, che però ha sempre un inizio e una fine. Il timore non ha fine. La guerra non segue la legge della natura; ogni cosa è distorta, falsata dal timore della guerra. Se guardiamo secoli di storia del Medio Oriente, vediamo che gli Imperi si sono avvantaggiati dei conflitti locali, si sono rafforzati per la debolezza delle popolazioni locali.

Il conflitto fra Stati Uniti e Unione Sovietica è ormai concluso. Attualmente non c’è nessuno che si interessa al conflitto del Medio Oriente e ciò che è evidente è che la nostra regione rimarrà ignorata, indietro rispetto alle altre, se non riuscirà ad ottenere la pace. So che molti pensano che Israele potrebbe danneggiare altri Paesi vicini, ma non è così, perché nessuno si potrà prendere carico della povertà di altri se deve fare i conti con la propria. C’è una doppia sfida da cogliere, l’economia mondiale da un lato, le infrastrutture nazionali dall’altro. Ricordo Jean Monet, il quale diceva: “I miei scopi sono politici, le mie spiegazioni sono economiche”.

La nuova economia, significa anche nuova diplomazia e politica del futuro: anche in questo caso il ruolo dell’Accademia del Mediterraneo è essenziale.

Quello che è essenziale è il ripristino della libertà, nel mondo Mediterraneo, perché non si può concepire commercio o progresso scientifico senza libertà: gli eventi tragici di oggi allontanano questo auspicio.