L’UNITA’

26 giugno 2001

 

MOSTAR E COSI’ SIA

 

di Predrag Matvejevic’

 

Le immagini crudeli e insopportabili, scorrevano davanti ai nostri occhi durante dieci anni: più di duecentomila morti, più di due milioni di profughi e di esuli, città e paesi in rovina, ponti ed edifici, scuole e ospedali bombardati e distrutti, templi e monumenti rasi al suolo e profanati, violenze e torture, stupri e umiliazioni di ogni sorta, campi di concentramento e pulizia etnica, genocidio e culturicidio, “urbicidio” e “memoricidio”, innumerevoli esistenze umiliate e straziate.

La sofferenza umana non può essere riassunta.

 

Non si può qualificare allo stesso modo ogni fase di una guerra, né coloro che via hanno preso parte. In principio, quando furono attaccate la Slovenia e la Croazia, si trattava di un conflitto tra nazioni o tra stati, di differenti modi di concepire la Jugoslavia o la sua costituzione: federalismo, autonomia, centralismo, secessione, ecc. L’aggressione della Bosnia da parte dei serbi, poi quella dell'Erzegovina da parte dei croati, hanno assunto la configurazione di una guerra civile ed etnica. In quella regione segnata dallo scisma cristiano e dai conflitti tra cristianesimo e islam, le opposizioni religiose hanno generato in passato un odio latente: c’era di mezzo anche una componente religiosa.

Quei regolamenti di conti che avevano già insanguinato il paese durante la Seconda guerra mondiale, hanno lasciato le loro tracce. La guerra degli anni novanta fu, ,almeno in parte, il prolungamento della precedente. Cetnici e ustascia si sono nuovamente presentati sul proscenio con le loro ideologie fanatiche e le loro pratiche micidiali. La storia e la vita in comune non hanno cancellato ricordi implacabili. Sono perdurati in sordina prima di essere improvvisamente ravvivati: ci sono elementi di una guerra di memoria, difficile da circoscrivere, e forse la più dannosa.

Una guerra si definisce anche per il carattere dei belligeranti. Questi cambiavano da un periodo all’altro. Al momento dell’intervento, relativamente anodino, in Slovenia (è stata chiamata “una guerra operetta”), c’erano in seno all’esercito “jugoslavo” ufficiali e soldati che intendevano sinceramente difendere la Jugoslavia all’interno delle sue frontiere, accanto a quelli che cercavano soltanto di conservare i privilegi della loro casta, favorita dal regime. A mano a mano che la guerra si estendeva, i militari croati e sloveni si sono visti esclusi da quell’esercito. In Bosnia Erzegovina non vi si trovavano più bosniaci musulmani né, evidentemente, macedoni, albanesi, ungheresi o latreminoranze nazionali. Vista la frenesia che si era impadronita degli oppressori, anche quegli ufficiali serbi o montenegrini che non condividevano i fantasmi dei loro capi sono stati allontanati. (Alcuni di loro si sono suicidati). La composizione dell’esercito è stata in quel modo modificata. Unità “paramilitari” hanno reclutato numerosi criminali comuni (fra i quali Arkan era il più conosciuto) e si sono infiltrate nell’esercito stesso, con l’accordo di Milosevic e anche di Tudjman. Dopo tutte quelle epurazioni, non è più stato possibile pretendere che l’Esercito Popolare Jugoslavo (così si chiamava una volta) fosse sempre lo stesso, venuto fuori dalla Resistenza, che contava nei suoi ranghi, in partenza, membri di tutte le nazionalità e delle minoranze nazionali.

Gli anni Trenta hanno visto i combattenti delle Brigate internazionali impegnarsi come volontari in Spagna per difendere la libertà. Alla fine del nostro secolo, si affida a professionisti, praticamente mercenari, il compito spesso difficile di difendere “zone di sicurezza” o territori di “particolare interesse”. Nelle guerre precedenti, su tutto il nostro continente e forse anche altrove, la maggior parte delle vittime trovava la morte sul campo di battaglia. Anche nel corso dell’ultima guerra mondiale, quando molte città furono crudelmente bombardate, era ancora così. La proporzione sembra essersi ribaltata. In ex Jugoslavia, i civili sono diventati i bersagli principali: il numero di vittime tra di essi è dieci volte più elevato di quello dei ranghi militari.

I mezzi di comunicazione, per quanto possano essere adatti a captare l’informazione, riuscivano difficilmente a circoscrivere gli avvenimenti in tutte le loro dimensioni. Di qui nascevano durante un lungo periodo diverse ambiguità all’estero come nello stesso paese. Clausewitz ha fatto su questo punto un rilievo che non ha perso di attualità: “Un avvenimento che non sia accuratamente ricostruito in ogni sua parte, è come un oggetto visto da troppo lontano: si presenta da ogni lato allo stesso modo, e non se ne distingue più la disposizione delle parti.

E’ difficile ricostruire ed evocare gli avvenimenti storici in modo tale da poterli utilizzare come prove”.

La propaganda del paese, diffusa in un gergo nello stesso tempo nazionalista  e ex comunista, utilizzava “come prova” avvenimenti strumentalmente “mal ricostruiti”. Un linguaggio ambiguo confondeva spesso aggressori e aggrediti, assedianti e assediati, carnefici e vittime, e nello stesso modo sanzione e intervento, negoziato e dialogo: CRIMINE E PUNIZIONE.

Cosa si potrebbe dire oggi, di fronte ad una simile tragedia, dell’Onu che si dimostrava inadeguata ai mutamenti avvenuti nel mondo, con più di un funzionario incapace e incompetente, della Nato che rimaneva prigioniera della guerra fredda, di una Unione europea che così poco si preoccupava del resto dell’Europa, di una Russia che tentava di riprendere il ruolo dell’ex Unione Sovietica con il rischio di sembrare un orso di circo, dei caschi blu incaricati di un compito ad un tempo paradossale e assurdo quello di “mantenere la pace” laddove c’era soltanto la guerra, di tutti questi giochi, a mala pena mascherati, ,delle grandi potenze e dei loro interessi, cessate il fuoco disattesi mille e una volta, accordi costantemente traditi, negoziati volti in derisione e negoziatori resi ridicoli, risoluzioni internazionali ignorate o aggirate, convogli umanitari diventati, persino essi, bersaglio di una rabbia vendicativa e assassina? Le tappe di questo calvario si chiamano Vukovar, Srebrenica, Gorazde, Mostar, Bihac, Kosovo, Kraina, con il Golgota di Sarajevo, per più di tre anni stritolata nelle tenaglie dei Karadjic, Mladic e altri criminali di guerra.

Si è potuto osservare, da vari luoghi, i molteplici legami tra una guerra difficile da capire e una memoria che la sottendeva. La tragedia si svolgeva su un territorio dove la geografia da secoli sfida la storia, nel crocicchio di particolarità che non cessano di confondersi o di contrapporsi.

Ciascuno di quegli avvenimenti e molti altri che la storia non aveva potuto interinare hanno lasciato le loro tracce, spesso indelebili. Nel corso della Seconda guerra mondiale gli ustascia di un sedicente “Stato indipendente croato”, creato dai nazisti e fascisti, sostenuti da Hitler e Mussolini, hanno massacrato la popolazione serba; i cetnici a loro volta hanno sterminato i musulmani della Bosnia orientale; un gran numero di croati che non avevano avuto alcun rapporto con la minoranza ustascia ha dovuto espiare per anni i crimini dei loro compatrioti, coperti di obbrobrio.

Ognuna di quelle memorie è di sventura. Sopravvivono tutte insieme, benché opposte, in ciascuna nazione e religione: su questo territorio le nazioni e le religioni spesso si confondono.

Ciascuno ha qualche ragione per accusare l’altro e giustificare se stesso: lo spirito espansionistico dei serbi, pronto a celebrare persino le proprie disfatte; la frustrazione dei croati, degli sloveni e di altre nazionalità ex jugoslave segnate da secoli di assoggettamento e dipendenza. Le vittime di ogni provenienza non potranno dimenticare né perdonare il male che hanno subito. Sapranno dominare la loro ostilità verso i carnefici? Non sarà facile.

Come disarmare una memoria vendicativa? E’ questa nello stesso tempo la prima e l’ultima domanda del grande dibattito che si deve aprire alla fine e dal quale potrebbe dipendere un avvenire comune. Ci troviamo su un poligono propizio a quei regolamenti di conti di cui la storia talvolta ha bisogno (non fosse altro che per inaugurare una nuova tappa storica: una lunga marcia verso il post comunismo, per esempio).

Vi si è paradossalmente ritrovato proprio nel paese comunista meno chiuso e più liberale degli altri?

Quel paese meritava un destino migliore.