di FRANCESCO JORI

Presidente Prodi, in che misura l'Europa è stata coinvolta dall'attacco terroristico dell'11 settembre a Manhattan?

«È stato un attacco a tutti noi; ai nostri valori, al nostro modello di vita, alla nostra società. Ma non è stato il capitolo di una guerra di civiltà. È stato un brutale e devastante atto terroristico, che i terroristi auspicavano divenisse innesco di una guerra di civiltà. Così non è avvenuto perché la successiva risposta è stata dell'intero mondo contro il terrorismo. Pertanto, l'Europa è stata coinvolta dall'11 settembre esattamente come se l'attentato fosse stato compiuto direttamente contro di essa».

Attraverso quali percorsi si può allora costruire un ordine europeo capace di combattere efficacemente il terrorismo?

«Non è questione di costruire un nuovo ordine europeo, ma di sviluppare le strutture comuni già esistenti. Per ciò che era di sua competenza (coordinamento delle operazioni di intelligence, lotta al riciclaggio di denaro sporco e al finanziamento occulto di organizzazioni terroristiche), la Commissione Europea ha reagito fulmineamente, e tutte le strutture necessarie erano già operative a poche ore dall'agressione agli Usa. Il Consiglio Europeo, subito dopo, ha adottato tutti gli altri meccanismi comuni fondamentali».

I passi successivi da compiere?

«Ci vogliono tempi più lunghi, perché servono strutture di coordinamento tutte da costruire. Penso all'esercito europeo, la cui costituzione è stata comunque significativamente accelerata. E penso a ulteriori collaborazioni in materia di giustizia e polizia, in fase di perfezionamento. In ogni caso, il percorso principale resta quello della maggior integrazione, con il consenso delle popolazioni dei Paesi interessati».

A proposito di consenso: l'attuale presidenza spagnola della UE ha scelto come slogan "più Europa per i cittadini". Come si fa a tradurlo in prassi quotidiana?

«La Commissione Europea è l'istituzione comune che opera negli interessi dei cittadini senza essere soggetta a pur legittimi interessi particolari e nazionali (come nel caso del Consiglio Europeo), o ad altrettanto legittimi interessi di schieramento politico. E questo risulta evidente nei campi d'azione di competenza della commissione: come la concorrenza, la sicurezza alimentare o il commercio estero dell'Unione. Ci sono poi settori come la giustizia e gli affari interni, che divengono caso per caso competenza della Commissione dopo decisioni ad hoc da parte del Consiglio; e infine settori di totale competenza del Consiglio, dove sono i governi a decidere volta per volta: come per la politica estera e di sicurezza».

Una costruzione difficile da cogliere, per chi la guarda da fuori.

«Ma i cittadini europei devono avere sempre chiaro che queste sono le loro proprie istituzioni: Commissione, Parlamento, Consiglio. Non sono una sovrastruttura esterna, lontana, talvolta incomprensibile, bensì entità che esistono nell'interesse stretto ed esclusivo delle popolazioni europee. Non dimentichiamo che il Consiglio è composto dai 15 governi dei Paesi membri (governi che rispondono ai rispettivi Parlamenti); che il Parlamento europeo è eletto direttamente a suffragio universale; che la Commissione riceve mandato dal Consiglio e risponde al voto del Parlamento. In ogni caso, la Convenzione europea appena lanciata si occuperà proprio di definire gli ulteriori passaggi per rendere queste istituzioni ancora più vicine agli interessi dei cittadini».

E tuttavia, ci sono evidenti esempi di timori diffusi nell'opinione pubblica di molti Paesi, specie sul processo di allargamento: è possibile attuarlo senza una massa critica di consenso sociale?

«No, certo che non è possibile. Ma perché continuiamo a girare attorno al problema? Le istituzioni comunitarie, lo ribadisco, non sono entità aliene. Quando il Consiglio, composto dai governi membri che rispondono direttamente alle loro Camere, adotta all'unanimità una strategia politica, confermata poi con successivo voto dai parlamenti nazionali e da quello europeo, il consenso della maggioranza dei cittadini europei c'è o non c'è? Per l'allargamento vale esattamente lo stesso principio. Ogni decisione europea è presa con il consenso e nel consenso, ricercato nelle popolazioni dell'Unione e in quelle dei Paesi candidati. Senza di esso, le mie opinioni, quelle della Commissione, quelle dei Paesi che si trovassero eventualmente in minoranza, lasciano il tempo che trovano. Ed è giusto che sia così: questa è la democrazia».

Quindi nessuna possibilità di deriva, sull'allargamento?

«Sono convinto che esso sia un'opportunità storica, unica e irripetibile, per riunificare l'Europa nella pace e con il consenso, senza atti di guerra o prevaricazione, e dopo millenni di divisioni che hanno prodotto effetti devastanti. L'Unione ha garantito ai Paesi che ne hanno fatto parte pace, stabilità e sviluppo. Spero non si sia già dimenticato che l'esistenza stessa della UE, col suo potenziale di attrazione e il lancio del progetto euro, sono stati tutt'altro che ininfluenti nel processo di liberazione di quella forza centrifuga che portò prima l'Europa orientale ad allontanarsi dalla Russia sovietica, e poi l'Urss stessa a implodere».

Il Gazzettino

10/03/2002

Prodi: «Nessuno fermerà l'allargamento Ue»

E comunque l'Unione ha già vissuto altre fasi analoghe.

«Certamente. E ogni allargamento deciso in passato, compreso quello a Paesi come Spagna, Portogallo, Irlanda e Grecia allora in ritardo di sviluppo, si è trasformato in occasione di crescita economica e sociale di cui tutti hanno usufruito. Perché quest'ultimo allargamento dovrebbe essere diverso? Accogliamo Paesi di innegabile tradizione europea, di indiscutibile cultura, civiltà, capacità scientifica e intellettuale. Oggi sono in ritardo di sviluppo; ma quanto sono cresciute Irlanda e Spagna dall'adesione in poi? E quanto si è sviluppata la nostra Italia da quarant'anni a questa parte, e quanto è più prospera ora?».

C'è qualche allarme anche a Nordest, per questo passaggio: a ragione o a torto?

«Per il Nordest si aprono ampi spazi di sviluppo ulteriore. In realtà, è più corretto dire che si riaprono, perché le ferite della guerra mondiale e della guerra fredda avevano di fatto amputato alla macroregione il proprio tradizionale mercato di espansione».

Nel '99, a Helsinki, venne stabilito che non si potesse raggiungere l'ampliamento dell'Unione senza una cornice istituzionale adeguata. Basta il trattato di Nizza, o ci vuole altro?

«Ho voluto proprio io la Convenzione, nella notte di Nizza, e proprio con l'obiettivo di garantire un processo di riforma che, oltre a far crescere e a rendere più vicine ai cittadini le istituzioni europee, consenta di operare l'allargamento senza rendere meno efficaci le strutture comuni. All'epoca ero solo a proporre questa strada, nella diffidente ostilità generale. Un anno dopo, ecco la Convenzione. Ed è una novità per la storia dell'Europa unita. Per la prima volta sono chiamati a discutere della Carta costituzionale europea rappresentanti eletti dal popolo o nominati dai governi; tutti riuniti in un'assise democratica, trasparente e aderente ai desideri delle opinioni pubbliche».

Si riuscirà a concludere i negoziati per l'ampliamento entro l'anno, e a far partecipare i nuovi Paesi alle elezioni dell'Europarlamento del 2004?

«Sono ottimista. Penso che le scadenze previste saranno rispettate. Adesso stiamo affrontando gli ultimi dossier ancora aperti; i più difficili, comunque, cone l'agricoltura o le fasi transitorie».

La maggior sfida di un'Europa più grande sarà rappresentata nei prossimi anni dall'immigrazione, tema che divide governi e opinioni pubbliche. È possibile una sintesi?

«Sono sicuro che sarà presto trovata. L'immigrazione incontrollata e clandestina è inaccettabile, e crea un clima di generale ostilità nei confronti di immigrati che, per la maggior parte dei casi, altro non sono che gente alla disperata ricerca di un posto migliore dove poter vivere. Una certa dose di immigrazione controllata e ben governata ci è invece necessaria per colmare un crescente buco di manodopera e una carenza di personale tecnico specializzato, avvertiti in tutta Europa. Tutto ciò può essere coordinato e controllato efficacemente solo a livello europeo».

Ci sono forti critiche alla burocrazia europea: non si rischia un bis peggiorato delle burocrazie nazionali?

«Una seria ed efficiente burocrazia è necessaria. Una strategia per migliorare quella comunitaria l'abbiamo già identificata, e abbiamo iniziato con successo ad applicarla. Io ho proposto una profonda riforma delle procedure e delle regole della Commissione, che una dopo l'altra stanno venendo messe in atto con evidenti benefici generali. Entro brevissimo sarà applicata anche l'ultima parte della riforma, che riguarda carriere e reclutamento».

E i paradossi che ogni tanto sollevano polemiche, per esempio la ventilataguerra della pizza?

«Facciamo attenzione a non confondere con problemi originati da Bruxelles errori che si verificano in realtà nei Paesi membri. E facciamo anche attenzione a non dare troppo credito a quanti, per nascondere proprie carenze o per motivi demagogici, inventano inesistenti nemici. Prendiamo propio il caso del panico per la presunta intenzione della Commissione di vietare i forni a legna per le pizze. A Bruxelles, una cosa del genere non era mai venuta in mente a nessuno; si trattava semplicemente di un colpo di teatro di un esponente politico di un Paese membro, alla ricerca di popolarità a buon mercato. Atti di irresponsabilità come questo minano senza valido motivo istituzioni che operano nell'interesse di tutti e rappresentano una straordinaria opportunità di crescita, mai un freno. Non dimentichiamo che l'uso adeguato delle risorse europee è all'origine dei miracoli spagnolo e irlandese. Se altri Paesi o enti locali non sono stati capaci di cogliere questa opportunità, non se la prendano con inesistenti responsabili».