La Stampa

10 marzo 2002

 

La scelta americana

di Igor Man

NEI territori governati (si fa per dire) dall’Autorità Palestinese, è annunciato, oggi, uno sciopero generale. La gente è chiamata a protestare contro il «cerchiobottismo» di Washington: è vero che Bush ha finalmente intimato l’alt a Sharon, tuttavia i carri armati del «Cesare israeliano» sono sempre lì. Lo sciopero intende allertare i democratici di tutto il mondo: musulmani, ebrei, cristiani, affinché l’obbedisco di Sharon a Bush si traduca in un effettivo ritiro di Tsahal. In verità era stato pensato dall’ala radicale di Al Fatah come un segnale, duro e preciso, al vecchio al Walid (padre): basta coi giri di valzer con Peres e quant’altri, se negoziato dev’esserci bisognerà tutelarlo con una forza internazionale di interdizione.

Una volta ancora Arafat è riuscito a strappare ai suoi giovani fedayn una tregua, «per non fare il giuoco del nemico». Sulla durata di codesta tregua non si accettano scommesse. Il cosiddetto fronte arabo moderato ostenta un cauto ottimismo sulla missione dell’inviato americano Zinni; qualche raîss fa scrivere ai suoi giornali che il progetto, o «piano», del principe Abdallah d’Arabia Saudita, potrebbe essere il paper ideale del prossimo vertice della Lega Araba, a Beirut (il vertice della dernier chance).

Epperò Hamas che pratica un’efficace assistenzialismo predicando, del pari, la sacralità vincente del terrorismo suicida, trova orecchie attente quando denuncia che Bush si sarebbe deciso a fermare Sharon soltanto per spianare la strada al vice presidente Cheney, incaricato di ricompattare il fronte moderato arabo in vista dell’ineludibile (per il giovine W.) blitz contro Saddam Hussein. Fra Sharon e Arafat, affermano gli irriducibili, la Casa Bianca ha già scelto il primo, destinato, per altro, a scaldare la sedia a «Bibi» Netanyahu, ritenuto più spendibile. Ci auguriamo che i fatti smentiscano un simile (scoraggiante) scenario.