“PANORAMA”

21 marzo 2002

 

L’ultima speranza di pace

di Pino Buongiorno

 

 

La bandiera con la stella di Davide che garrisce a Riad accanto a quella con la spada dell’Islam dello stato “custode delle due sacre moschee”, di La Mecca e Medina? Per ora questo accade solo nel mondo virtuale, sul sito America Online. E’ un buon auspicio.

Mentre l’Onu approva una risoluzione in cui per la prima volta si parla di “stato palestinese”, ci si chiede: diventerà mai realtà il sogno delle due bandiere? Il principe ereditario dell’Arabia Saudita Abdullah Bin Aziz, 78 anni, ci crede tanto che uno dei suoi collaboratori lo definisce già “il nuovo Anwae Sadat”. “L’importante è cogliere il significato storico della nostra iniziativa” ha spiegato il reggente della monarchia saudita, la sera di martedì 12 marzo, nel corso di un sontuoso banchetto nella sua residenza privata di Gedda, in onore del premier italiano Silvio Berlusconi. Non c’è dubbio che il recente annuncio da parte dello stesso Abdullah che l’Arabia Saudita e la maggior parte dei paesi arabi sono pronti a riconoscere lo stato di Israele, se i soldati si ritireranno dai territori arabi occupati dopo la guerra del giugno 1967, ha acceso una fiammella di speranza per far cessare il conflitto che da 20 mesi oppone palestinesi e israeliani (oltre 1.300 morti).

Abdullah ha confessato a Berlusconi che il discorso con il quale doveva far conoscere al mondo intero l’offerta saudita era in programma già a gennaio, ma che poi è rimasto nel cassetto a causa dell’inasprirsi delle violenze. L’occasione per tirarlo fuori è arrivata a fine febbraio durante un banchetto con alcuni ospiti americani, fra cui il più noto commentatore di politica estera del New York Times, Thomas Friedman. Da quel momento “l’iniziativa saudita” è diventata l’ultima ancora di salvezza prima del naufragio in Medio Oriente. Il gesto del principe ereditario è sicuramente coraggioso. Se il consenso, come spiega l’analista politico saudita Nawaf Obaid, “è da sempre la moneta del reame”, in questo caso siamo ben lontani dall’averlo raggiunto. Due dei pilastri che sorreggono e legittimano la casa di Saud (l’apparato religioso e il pubblico generale) sono tutt’altro che ansiosi di vedere l’ambasciata di Israele accanto alla Reggia di Riad. “E’ una mossa che contiene grossi rischi” conferma a Panorama Youssef Ibrahim, uno dei maggiori esperti di questioni mediorientali del Council on foreign relations, importante centro di studi e analisi americano. “Se dovesse essere ignorata o non avere seguito il principe ereditario e la monarchia ne risentirebbero moltissimo”. A Gedda e a Riad tutti ricordano all’ospite straniero il giuramento solenne di re Faisal: l’Arabia Saudita sarebbe stata l’ultimo paese musulmano a riconoscere Israele. Ed è ancora nella memoria un’offerta di pace avanzata nell’81 dall’attuale re Fahd, ritirata d’urgenza in un vertice della Lega araba per l’opposizione dei cinque paesi del “fronte del no”: Siria, Libia, Iraq, Algeria e Mauritania. Ora Abdullah ha detto a Berlusconi che i tempi sono cambiati: certo, Israele ha una superiorità militare per almeno altri dieci, forse vent’anni, ma non può ignorare l’area del mondo in cui vive. “E’ arrivata l’ora di normalizzare i nostri rapporti” ha aggiunto il numero due del potente regno saudita. Naturalmente il principe non ha voluto rivelare che l’offerta a sorpresa serve in questo momento anche ad allontanare la minaccia di guerra all’Iraq e soprattutto a far pace con l’America dopo tutti i sospetti, i rancori e le accuse dei mesi scorsi, quando Fbi e Cia hanno scoperto che 15 dei 19 dirottatori di Osama Bin Laden erano sauditi. E che dalle fondazioni di carità islamiche di Riad sono arrivati i dollari per finanziare Al Qaeda in Afghanistan e le sue cellule terroristiche, in particolare in Bosnia e in Somalia. Dopo un primo attimo di freddezza, il presidente W. Bush si è affrettato a telefonare al principe “apprezzando con calore” la proposta saudita e ha spedito a Riad il capo della Cia George Tenet per saperne di più.

 

“I dettagli, i dettagli. Tutti li vogliono conoscere. Ma questa è materia di trattative fra le parti” sbotta con l’inviato di  Panorama uno dei consiglieri di politica estera di Abdullah. “Quello che importa è il principio, la fine di un tabù, un segnale che vogliamo mandare al mondo intero: la pace è possibile”. Eppure, sono in molti fra i commentatori dei centri di studi strategici a sostenere che quando dalle enunciazioni di principio si passerà ai singoli punti, salterà tutto.

“Lo stesso appoggio che oggi i leader arabi, con le eccezioni di Muammar Gheddafi e di Saddam Hussein, hanno dato ai sauditi deriva dalla convinzione che alla fine sarà  Israele a rigettare il piano. E dunque tanto vale non inimicarsi il paese musulmano più ricco” precisa l’esperto americano Youssef Ibrahim. I punti da chiarire sono tanti e non riguardano solo la futura capitale dello stato palestinese, Gerusalemme est, il ritiro dalle alture del Golan e la sorte degli insediamenti dei coloni nei Territori occupati. Che ne sarà, per esempio, del cosiddetto  “diritto al ritorno” dei rifugiati palestinesi, chiesto a gran voce da Yasser Arafat e rifiutato da tutti i governi israeliani, sia conservatori sia laburisti? Inoltre l’Arabia Saudita insiste per la “normalizzazione” dei rapporti. Il presidente siriano Bashar Al Assad preferisce la generica formula della “pace completa” con Israele, che non obbliga a instaurare rapporti diplomatici ed economici.

Di tutto questo i leader dei paesi arabi dovranno discutere a Beirut, dal 27 al 29 marzo, nel corso del vertice della Lega araba dedicato alla proposta saudita che andrà formulata in un vero documento da trasmettere ad Ariel Sharon e ad Arafat. Ma proprio perché non si nascondono le difficoltà, le trappole e le opposizioni, i monarchi sauditi hanno deciso di coinvolgere direttamente, e di più, l’amministrazione americana e i paesi europei. “Lei deve capire qual è il nostro stato d’animo” ha concluso il principe ereditario guardando negli occhi Berlusconi. “Per favore, lo trasferisca ai suoi colleghi europei”.