“Panorama”

25 marzo 2002

 

Serve un muro fra arabi ed ebrei?

 

di Adriano Sofri

 

Fra i servizi che Panorama dedicava la settimana scorsa alla guerra israelo-palestinese  c’era un commento di Enzo Bettizza sul piano proposto dal Principe ereditario saudita Abdullah. Bettizza sottolineava l’autorevolezza e la credibilità della proposta, dovuta alla sua semplicità: riconoscimento dello stato di Israele e normalizzazione dei rapporti da parte di tutti i paesi arabi, in cambio del ritiro di qua dai confini del ’67. Forse è proprio la disperante tragedia che rotola da un anno e mezzo a indurre una speranza. Dev’esserci un fondo dal quale non si può che risalire. O almeno dovrebbe esserci. Ma i giorni passano come se non ci fosse fondo.

Mai avrei creduto di rassegnarmi all’idea di un muro divisorio. Buona parte della vita della mia generazione è scorsa, e forse si può dire che è stata inceppata, tra l’orrore dell’estate in cui un muro spaccò in due Berlino e la felicità della caduta di quel muro. Ci illudemmo di essere abbattitori di muri, costruttori di ponti. Poi la storia ha ricominciato ad arrotolarsi all’indietro, ad abbattere ponti. Oggi in Israele non sono solo alcuni militari e notabili politici, ma anche scrittori e artisti e storici fino a ieri impegnati nella ricerca della convivenza e del passaggio delle linee a dichiarare ineluttabile il muro, ad auspicarne, col cuore spezzato, la costruzione. Uomini come Yehoshua, come Benny Morris. Israele è un paese spaventato, incattivito, nel quale la discussione resta accanita, spesso dolorosamente dura.  Benny Morris è lo studioso capostipite della “nuova storia” della “revisione” della mitologia israeliana. I suoi libri più importanti, quello sulla responsabilità israeliana nella cacciata dei profughi palestinesi dopo il ’48, quello sulle “Vittime” di ogni parte, sono noti da noi, sono stati discussi su queste pagine. A suo tempo Morris fu incarcerato per aver rifiutato di servire da militare nella West Bank. Ora Morris ha raccontato drammaticamente di aver dovuto rivedere la propria posizione e soprattutto il proprio stato d’animo. Yasser Arafat è un bugiardo, gli arabi non hanno altro fine se non la distruzione dello stato d’Israele. Il conflitto non ha altro sbocco se non nella separazione forzata.  Il muro.

Ad alcuni dei suoi colleghi e allievi lo sfogo di Benny Morris appare come un rinnegamento di sé e un tradimento della propria parte. Ma Morris è solo uno dei tanti che non ci credono più. Che non hanno smesso di dichiarare che la politica degli insediamenti è iniqua e cieca, che occorre ritirirarsi, anche unilateralmente, dai territori occupati, che le rappresaglie sono spesso ottuse e odiose. Ma non ci credono più. Pensano che i capi palestinesi e arabi, ammesso che avessero davvero accettato l’idea  della pace a Oslo, siano tornati a vedere e sognare la liquidazione di Israele. Benché esistano descrizioni fortemente divergenti sulle offerte avanzate da Israele nelle varie fasi del negoziato, compresa la proposta di Ehud Barak a Camp David, pensano che comunque Arafat e i suoi non fossero disponibili ad alcuna conclusione, e che si fossero sempre tenuti una carta di riserva per la rottura. Non tanto lo statuto di Gerusalemme, meno difficile da comporre di quanto lo si faccia apparire, ma piuttosto la questione del “ritorno dei profughi”.

Preso alla lettera, il diritto al ritorno segnerebbe, come tutti intendono, la cancellazione di fatto dello Stato ebraico. Israele ha 5 milioni di ebrei e più di un milione di arabi, per la prima volta, in questa Intifada, animati da uno spirito nazionalista. I “rifugiati”, che sono ormai i figli e i figli dei figli dei profughi della guerra del ’48 e dei suoi postumi, sono fra i 3 milioni e mezzo e i 4 milioni. Il conto è eloquente. Il riconoscimento simbolico del diritto al ritorno, l’ammissione di una minoranza nei confini di Israele, l’accoglienza degli altri che lo volessero dentro lo stato di Palestina (molti vivono in Giordania, o in Libano, o altrove), col contributo finanziario di Israele, sono altrettante proposte ragionevoli e ignorate. In uno stato a maggioranza araba gli ebrei sarebbero cacciati o spinti a emigrare e confinati al ruolo di minoranza religiosa. Una prospettiva impensabile per Israele, dopo mezzo secolo di esistenza, a non voler dar peso a una storia di 2 mila anni.

Ariel Sharon ha contribuito a provocare la precipitazione sanguinosa e insieme ha promesso di fermarla. Il suo fallimento è finora rovinoso. La vita civile di Israele è in balia dell’orrore degli attentatori suicidi. La sua immagine pubblica è sfregiata da rappresaglie madornali quanto impotenti, che invertono le maschere: facendo passare Israele e i suoi carri armati e i suoi aerei per Golia, e i palestinesi per David. Inversione ingiusta se non in parte, ma micidiale. Mi si stringe il cuore a vedere che a Roma una grande manifestazione di sinistra, la mia parte, fino a prova contraria, impiega alla leggera la parola “genocidio” per definire la responsabilità di Israele contro i palestinesi, e si svolge mentre nel vicino ghetto i cittadini ebrei presidiano la sinagoga e il quartiere.

Bisognerebbe riuscire a essere solidali con la storia di sofferenze e umiliazioni dei palestinesi, e il loro diritto alla dignità e alla libertà, ma senza indulgenza e tanto meno simpatia per il cinismo e il fanatismo con cui dissipano le vite dei propri e degli altri. Bisognerebbe riuscire a denunciare la potenza brutale e inutile cui certi capi israeliani cedono, senza dimenticare per un momento che è l’esistenza stessa di Israele la posta in gioco, in un mondo che ha riattizzato il fuoco dell’antisemitismo.

L’idea di un piano di aiuti economici internazionale per la Palestina è ragionevole, soprattutto se li si collega a una democratizzazione di quella società. Decisiva è l’idea di un impegno europeo che si traduca nell’ingresso di Israele nell’Unione Europea, saldo di un debito inesauribile contratto tra l’Europa e i suoi ebrei, e caparra di una sicurezza dell’Europa stessa, ai suoi confini mediterranei.