"Il MATTINO"

28 gennaio 1995

(N. 4)

SARAJEVO, LA BARBARIE INFINITA

di Predrag Matvejevic’

Sarajevo ha battuto il triste record di Leningrado, che con novecento gironi tragici e gloriosi subì il più lungo assedio della Seconda Guerra Mondiale. Ha già superato il millesimo giorno: più di duecentomila morti, più di due milioni di profughi ed esiliati, città e paesi in rovina, ponti e edifici e distrutti a colpi di cannone, templi e monumenti rasi al suolo e profanati, violenze e torture d’ogni sorta, stupri e umiliazioni, campi di concentramento e epurazione etnica, "urbicidio" e "memoricidio", innumerevoli esistenze mutilate e straziate. La sofferenza umana non può essere riassunta.

Il terzo intervento si presenta alla città assediata. Il freddo è duro a Sarajevo. Non ci sono più alberi da abbattere nei giardini pubblici trasformati in cimiteri. Cibo, acqua, elettricità, gas, manca tutto. Gli abitanti sono fisicamente rovinati, moralmente prostrati. Li ho osservati a più riprese, durante questi anni di guerra. All’inizio credevamo fermamente che l’Europa si sarebbe mossa in loro soccorso. Ancora un anno fa si rivoltavano contro l’inerzia e l’indifferenza del mondo. Stanno diventando differenti anche loro, rassegnati davanti al presente e all’avvenire. È lo stato peggiore. Non sto parlando dei combattenti sul fronte, ma dei cittadini di Sarajevo.

In principio, quando furono attaccate la Slovenia e la Croazia, si trattava di un conflitto tra nazioni o tra stati, di differenti modi di concepire la Jugoslavia o la sua costituzione: federalismo, autonomi, secessione. L’aggressione della Bosnia da parte dei Serbi e dei Montenegrini, poi quella dell’Erzegovina da parte dei Croati, ha assunto la configurazione di una guerra civile e etnica. In quella regione segnata dalla Scisma cristiano e dai conflitti tra Cristianesimo e Islam, le opposizioni religiose hanno generato, in passato, un odio latente: per quanto lo si voglia dissimulare, si tratta ancora di una guerra di religione.

Quei regolamenti di conti nazionali, civili, religiosi o diversi, che avevano già insanguinato il paese durante la Seconda Guerra Mondiale, hanno lasciato le loro tracce. La guerra attuale è, almeno in parte, il prolungamento della precedente. La storia e la vita in comune non hanno cancellato ricordi implacabili.

LE IMPOSSIBILI DEFINIZIONI

Nelle guerre precedenti, su tutto il nostro continente e forse anche altrove, la maggior parte delle vittime trovava la morte sul campo di battaglia. La proporzione sembra essersi ribaltata. In Bosnia i civili sono diventati i bersagli principali, il numero di vittime tra di essi, è dieci volte più elevato di quello nei ranghi militari. Il banditismo, la mafia e il racket stanno diventando caratteristiche dominanti non soltanto della guerra in ex – Jugoslavia. Le definizioni si rivelano ormai penose, talvolta assurde.

I mezzi di comunicazione, per quanto possano essere adatti a captare l’informazione, difficilmente riescono a circoscrivere o a delimitare l’avvenimento in tutte le sue dimensioni. Di qui nasce l’ambiguità del discorso sull’ex Jugoslavia, all’estero come nello stesso paese, Clausewitz ha fatto su questo punto un rilievo che non ha perso di attualità. "Un avvenimento che non sia accuratamente riconosciuto in ogni sua parte, è come un oggetto visto da troppo lontano: si presenta da ogni lato allo stesso modo e non e non se ne distingue e non se ne distingue più la disposizione delle parti. È difficile ricostruire ed evocare gli avvenimenti storici in modo tale da poterli utilizzare come prove". Si perde facilmente di vista questo problema quando si tenta di definire la vera natura degli avvenimenti che si svolgono in Jugoslavia, e più in particolare in Bosnia Erzegovina.

La propaganda nel paese, diffusa in un gergo comunista e nazionalista nello stesso tempo, "utilizza come prova" avvenimenti strumentalmente "malricostruiti". Un linguaggio ambivalente, quello di cui numerosi osservatori stranieri fanno uso, confonde disinvoltamente aggressori e aggrediti, assedianti e assediati, carnefici e vittime, e nello stesso modo sanzione e intervento, negoziato e dialogo, crimini e punizione. Non è più necessario ripetere cose ormai ben note, e cioè chi ha commesso il maggior numero di crimini, aperto i primi campi di concentramento o praticato " l’epurazione etnica". Resta certo che è stata la Bosnia Erzegovina che ha sofferto di più. Ha versato più sangue di chiunque altro nella storia degli Slavi de Sud: più dei Croati in quest’ultimo conflitto, più dei Serbi nella Seconda Guerra Mondiale. Una propaganda tendenziosa, promossa massicciamente dalla Serbia, e anche dalla Croazia durante una fase della guerra ha presentato tutti i Musulmani della Bosnia come "fondamentalisti" o "integralisti", " minaccia islamica nel cuore dell’Europa cristiana". Le prime centomila vittime e neppure buona parte delle seconde centomila sono state sufficienti per smentire quelle menzogne. Non bastava nemmeno un milione di rifugiati che avevano dovuto lasciare le loro case, bisognava che ce ne fosse un altro milione. Non c’è stato un altro Santic che levasse la sua voce davanti all’esodo del Musulmani per conclamare:" Restate qui".

Il suo grido, d’altra parte, sarebbe stato davvero vano; gli imprudenti che avessero deciso di restare sarebbero subito diventate vittime. Il monumento eretto alla memoria di quel bardo è stato distrutto, la rabbia ha profanato persino la sua tomba. In seno all’intellighenzia, così spesso tradizionalista o frustrata nei Balcani e in Europa Centrale, sono rari coloro che collocano i valori dell’umanità al di sopra di quelli delle nazionalità. Per qualcuno è un atto di tradimento.

UN ATTO DI TRADIMENTO

È stato difficile per chi è nato in quel paese, fino a poco fa sereno, non prendere altro partito che quello a favore delle vittime, indipendentemente dalle loro origini: che si tratti di Vukover o di Dubrovnik, di Sarajevo o di Mostar, prima ho perso la maggio parte dei miei amici Serbi, quelli che non volevano "abbandonare i loro fratelli", o che trovavano altri alibi per non negare la propria solidarietà alla politica imposta dal loro capo di stato e dai suoi sgherri dalle mani insanguinate. Quando mi sono schierato dalla parte della Bosnia, molti compatrioti Croati mi hanno voltato le spalle. Un’emigrazione volontaria, o se si vuole una posizione "tra asilo ed esilio", come spesso ho detto, mi è parsa, moralmente, meno compromettente.

Può essere anche questo un modo di tirarsi indietro, ma più giustificabile degli altri. Anche in Bosnia Erzegovina, la regione dove sono nato e che ho sempre considerato parte integrante della Bosnia Erzegovina, una e indivisibile, è scorso del sangue. Nulla mi impedirà di urlare contro i "compatrioti" croati che in quella regione si disonorano, anche se i loro crimini sono meno rumorosi di quelli commessi dai cetnici serbi.

Cosa si può dire, di fronte ad una simile tragedia dell’ONU che si dimostra inadeguato ai mutamenti avvenuti nel mondo di oggi, con il suo presidente incapace e con più di un funzionario incompetente, o dalla Nato rimasta prigioniera della Guerra Fredda, di Unione Europea che così poco si preoccupa del resto dell’Europa, di una Russia che tenta di riprendere il ruolo dell’ex Unione Sovietica con il rischio di sembrare un orso da circo, di una Forpronu incaricata di un compito ad un tempo paradossale e assurdo – quello di "mantenere la pace" laddove c’è soltanto la guerra - , di tutti questi giochi, a mala pena, mascherati, dalle grandi potenze e dei loro interessi, cessate il fuoco disattesi mille e una volta, accordi costantemente traditi, negoziati volti in derisione e negoziatori tante volte resi ridicoli, risoluzioni internazionali ignorate o aggirate, convogli umanitari diventati, persino essi bersaglio di un divertimento vendicativo e assassino?

 

 

NON VI BASTA, SIGNORI?

Le tappe di questo calvario si chiamano Vukovar, Srebrenica, Groazde, Moster, Bihac, con il Golgota di Sarajevo, più di mille giorni stritolati nelle terraglie serbe, superando il triste record dell’assedio di Leningrado! Non vi basta, signori?