7 maggio 2002
UNA LETTERA
POSTUMA DI SARAJLIC’ A MATVEJEVIC E CAPASSO
«Viviamo
in un mondo di second’ordine»
A Izet Sarajlic’, uno dei più grandi poeti bosniaci e dei paesi balcanici scomparso nei giorni scorsi, la Fondazione Laboratorio Mediterraneo - presieduta da Predrag Matvejevic e Michele Capasso - attribuì nel 1997 il «Premio internazionale Sarajevo». Izet scrisse una lettera alla Fondazione, pregandola di farla pubblicare dopo la sua morte.
Carissimi Predrag
e Michele, cari amici.
È una grande disgrazia che un
poeta debba rivolgersi alla gente con le parole del politico. E la disgrazia è
talmente grande da non poter essere più grande.
Nei miei 66 anni – non calcolo i
due anni della guerra scorsa passati a Dubrovnik e quei cinque-sei
mesi trascorsi in aereo o in viaggio – ho vissuto in Bosnia-Erzegovina.
E ora vogliono prendermi anche questo.
Non lo permetto: non soltanto
perché desidero trascorrere in Bosnia-Erzegovina
anche questa misera parte della vita che resta, ma anche perché in essa voglio
morire. Non altrove.
Un tempo, come l’eroe di Andrej Platonov, credevo che per
l’uomo la cosa più importante fosse non disturbare l’altro nella sua vita.
Adesso la penso un po’ diversamente: è ancora più importante fare tutto il
possibile perché nessuno possa disturbare la vita degli altri.
Nell’arte, nella politica, in
tutte le sfere della vita mi è chiaro che viviamo in questa fine secolo (e
millennio!) in un mondo di persone di second’ordine.
Forse la tragedia bosniaca
sarebbe potuta accadere anche al tempo di Sartre, Camus, Picasso, Krleza, Iwaszkiewicz, Nerval, Ehrenburg, Chruscev, Eisenhower, Charles de Gaulle, Willy Brandt, Sandro Pertini, Olof Palme, Nehru, Neruda, Brecht, Heinrich Böll, Alberto Moravia, Arthur Miller, Max Frisch, ma sarebbe stata minore per la dimensione dei
crimini.
Le battaglie di Stalingrado e di
Normandia, che trainano la storia in avanti, vengono vinte da generali come Zukov o Sir Alexandre.
Cosa può aspettarsi il mondo, la Bosnia in un generale come McKenzie,
che invece di difendere i bosniaci – che d’altronde era il suo mandato –
frequenta le case chiuse cetniche dove gli offrono
bambine musulmane per violentarle. Cosa aspettarsi da un Major che, al
contrario di Tito che ha saputo dire "No" anche ad un onnipotente Dzugasvili, non è in grado di dire "No" ad un
comune bandito da strada di Pale.
E cosa è rimasto dei veri ma
stanchi intellettuali, dei veri artisti, dei veri scrittori? Che ne è di loro?
François Tanguy a Parigi ha fatto lo sciopero della fame per giorni
interi: non potete immaginare cosa abbia significato per noi nella Dachau di Sarajevo il suo gesto. Tanto per Sarajevo, tanto
per la verità su Sarajevo, hanno fatto anche lo spagnolo Juan
Goytisolo, la bulgara Blaga
Dimitrova e lo svizzero Franz
Hohler. Philip David o Stanko Cerovic; non li tratterei come stranieri.
La tragedia sarajevese
non ha lasciato indifferente nemmeno Henri Bernard Levy. Più volte in
giubbotto antiproiettili è sceso a Sarajevo passando per il monte Igman, mentre Susan Sohntag ha messo
in scena, in una Sarajevo in guerra, Beckett, anche
se non so perché proprio lui. Naturalmente neanche questo è poco, al contrario,
ma io comunque non posso non pensare al modo in cui la pensano gli altri sarajevesi che in questo modo prima di tutto hanno voluto
migliorare il proprio rating nel mondo. Sparando sui bambini di Sarajevo ha
voluto migliorare il proprio rating, in verità fra i fascisti, anche lo
scrittore di second’ordine, di quella che un tempo era la letteratura russa di
prim’ordine, Edvard Limonov.
Perlomeno Hanke non ha sparato contro di noi ma a se
stesso.
Nal suo diario
dell’altra guerra, la seconda, Thomas Mann ha annotato le parole dell’articolo di Ludwig Marcuse "Chi osa
cambiare": “Per il fatto di non aver commesso alcun crimine sanguinoso
come quelli commessi da Hitler, molti sentono di aver
la coscienza pulita. Se Thomas Mann
una volta nella sua vita avesse mostrato quanto è grande la colpa
dell’intellettuale europeo nell’attuale stato delle cose, avrebbe fatto
qualcosa di straordinariamente importante”.
Dal momento che la battaglia per
Sarajevo e la Bosnia-Erzegovina non è stata ancora
vinta, gli onorati intellettuali europei e mondiali hanno ancora il tempo di
interrogare la propria coscienza. Se crollasse l’idea della Bosnia nel mondo
crollerebbe l’idea di una morale ed in quel mondo non so se varrebbe più la
pena vivere...
È il momento di essere triste,
come scrisse il mio fratello di vita Josif Brodskij nella sua poesia del ’93, che, insieme ad altre
cose, mi ha portato non molto tempo fa una straniera a me cara, con la quale
fino a questa guerra aveva vissuto nello stesso paese, perché non perdessi il
contatto con un’epoca che vorrebbero rendere loro proprietà privata vari pigmei
politici, molti dei quali, come modellatori del futuro ordine mondiale, si
aggirano anche a Sarajevo.
Sì. È il momento di essere
tristi. Ma oggi forse è una cosa comune, essendosi la gioia ritirata dalle
nostre vite. E’ lo stato normale di un normale uomo di fine secolo, e forse lo
sarà anche per molto tempo del prossimo.
Non ho provato molto piacere
nelle cose che ho letto. In realtà al di fuori di "Finestre
fiamminghe", di alcuni testi saggistici di Josif
Brodskij (la poesia che ha fatto seguito al magnifico
necrologio al maresciallo Zukov avrebbe potuto,
dovuto, essere di gran lunga migliore: temo che questa non l’avrebbe accettata
nemmeno Ana Achmatova) e di
tre-quattro testi piuttosto avvilenti di Christa Wolf – si tratta di pura
affettazione letteraria, la quale farà piazza pulita anche di quei pochi
lettori che sono riusciti a conservare le generazioni di Heinrich
Böll, Bohumil Hrabal, Juri Trifonov,
Milan Kundera, Danilo Kis e forse anche di qualche latino-americano, anche se a
loro gloria si sono sparse molte più parole di quanto non meritino realmente.
La cattiva politica mondiale,
oggi senza un punto di riferimento, senza personalità che siano in grado di
trainare l’epoca in avanti, con una vita spirituale di livello criminosamente
basso, con spot televisivi che probabilmente vengono prodotti in tale quantità
con l’intento di ridurre più gente possibile al livello dei più comuni
imbecilli, con il teatro nuovo nel quale la cosa più importante è l’assenza del
teatro, con bosniaci e ceceni il cui martirio si
guarda (se ancora si guarda) come una volta, quando i fiumi fluivano placidi,
si guardavano i serial televisivi – questo è dunque il futuro che da Thomas Mann ai nostri giorni
hanno sognato le più grandi menti del secolo.
I medici sembrano resistere
ancora, almeno ancora riescono ad amputare bene una gamba.
Gli autisti della metropolitana
sono ancora più bravi: due anni fa, durante un’assenza da Sarajevo durata
quindici giorni, grazie a loro ho provato il piacere di girare per Monaco.
Gli scrittori - da quando sono
usciti di scena quelli a cui hanno passato il testimone della staffetta Cechov e Gorkij, da Stefan Zweig e Sherwood Anderson, da Eugene O’Neill e Karel Capek, Unamuno
e Georges Duhaniell – pare
che loro stessi siano stati fregati dalla generale decadenza del mondo. Che
questo sia un piccolo rimprovero che un prigioniero del lager di Sarajevo fa ai
suoi colleghi nel mondo è indubbio: Fratelli, ciò che state facendo forse vi
condurrà anche al palazzo reale di Stoccolma, ma ciò che state facendo è un
mero sfogo di parole e sulle parole, che ci sono comunque date perché con esse
diciamo qualcosa.
A una cena all’Holiday Inn durante la guerra,
offerta dagli accademici francesi in onore dei loro colleghi sarajevesi (probabilmente fu la prima volta che gli ospiti
organizzarono una cena per i padroni di casa, ma gli ospiti ricevevano
regolarmente lo stipendio e tutto ciò che spettava loro, mentre a quel tempo
noi avevamo solo i barattoli di ICAR, che non voleva mangiare neanche il mio
gatto, e sigarette di foglie di tiglio essiccate), dunque a questa cena, alla
quale partecipò anche il generale Maurillon, ad un
certo punto io ho provato il bisogno di comunicargli, tramite Hanifa Kapidzic Osmanagic, che lui non è il primo francese di riguardo
venuto a Sarajevo, che tanto, tanto tempo prima di lui in questa città, senza
vantarsi della propria celebrità, anzi ammutolendo di fronte alle tante
meraviglie della città sconosciuta, ha soggiornato anche Gerard
Philippe, regalandoci non solo l’annunciata
interpretazione del "Cid" di Corneille per la regia di Jean Vidar, ma anche la divina interpretazione della
"Libertà" di Eluard. Il generale non
sembrava infastidito della mia intrusione: al contrario, si è girato verso di
me recitando "Sul muro di ogni casa scrivo il tuo nome, Libertà".
Soltanto che noi in città, in
quel momento, non avevamo neanche un muro su cui poter scrivere simili versi.
Non era come il generale belga Brickmann, ma anche il generale Maurillon
faceva parte degli ufficiali stranieri migliori, quelli che hanno cercato di
fare qualcosa in Bosnia. In ogni caso, non era come quel generale canadese McKenzie che visitava le case chiuse, con le bambine
musulmane condotte lì con la forza, dei dintorni di Sarajevo. Se n’è andato
anche l’ammiraglio Layton Smith.
A Bruxelles gli hanno conferito addirittura un’alta onorificenza per ciò che ha
fatto in Bosnia. Il fatto è che noi bosniaci non sappiamo ciò che ha fatto: ha
forse fatto rientrare i profughi a Banja, Luka e Stolac? Non lo ha fatto.
Allora cosa ha fatto? Era questo il suo principale compito. Convincere Belgrado
e Pale di che cosa? Di rivolgersi all’Umanesimo ed al Rinascimento? Ha trovato
gli indirizzi giusti.
Sembra tuttavia che i generali
stranieri vengano da noi esclusivamente per i loro futuri libri di memorie.
Solo che a noi non importa delle loro memorie future, a noi importa la pace, ma
non quella di Dayton, una pace sul modello svizzero o
belga. Per una pace all’irlandese non mi batterei.
Mi è capitato spesso durante la
guerra in Bosnia, in seguito a un mio intervento radiofonico, televisivo oppure
su un giornale, di essere chiamato addirittura da persone sconosciute che mi
hanno detto che le mie parole le avevano fatto piangere. In verità, io non ho
mai afferrato la penna o il microfono per strappare le lacrime, ma in questo
momento non ho niente neppure contro questo ruolo. Risvegliare i buoni
sentimenti oggi è forse più importante di quanto lo sia mai stato in tutta la
storia umana. Non volesse Dio, con tutta la sua gloria, che io fossi Charles Bukowski. Men che meno Brana Crncevic.
Wolfang Borget, Heinrich Böll, Hans Werner
Richter, Gunter Grass, Hans Magnus
Enzensberger dopo il crollo della Germania hanno
fatto di tutto, fornendo elementi per completare l’atto d’accusa contro il
nazismo, per restituirle la dignità di patria degli uomini. Mentre Brana Crncevic continua,
schiumante di rabbia nazional-sciovinista, a tener
discorsi nei quali del criminale Karadzic dice che
forse non lo faranno santo, ma che ha un posto assicurato fra i martiri del
popolo serbo. Simili discorsi dello scrittore serbo di sicuro non faranno
piangere nessuno, e non credo nemmeno che qualcuno, come nel ’92, andrà a farsi
ammazzare per il "serbismo" di un
istigatore alla guerra che ha il culo al caldo.
Tuttavia non sono qui per dare
lezioni a nessuno. Sto semplicemente parlando. Nell’estate del ’94 è capitato
che per alcune questioni letterarie sono praticamente dovuto andare a Monaco
per quindici giorni. La nostra lingua a Marienplatz,
nelle cui vicinanze alloggiavo, era per così dire la lingua madre della più famosa
piazza tedesca. Osservavo quelli che fino a ieri erano i miei compatrioti ed
ecco cosa ho annotato su un mio quaderno ritrovato recentemente in una borsa
"Povera gente, /ma non di Dostoevskij /povera
gente /dell’ex Jugoslavia. /Qui stanno a meraviglia, /soprattutto quando
riescono a rinnovare il Duldung /di altri sei mesi.
/Qui stanno a meraviglia. /Allora perché la sera sono tutti infelici, /tanto
infelici /che in un istante /questa vita qua /la cambierebbero /per una
qualunque morte là".
Forse anche questa poesia
trascritta dal mio quaderno di appunti di Monaco farà piangere qualcuno. Questa
volta, lo voglio.
Caro Predrag,
caro Michele. Per voi, miei fratelli di vita, una sola parola per quello che
avete fatto e che farete per noi bosniaci: grazie.
Izet Sarajlic