“MEZZOGIORNO EUROPA”

Marzo-Aprile 2002

 

 

La Convenzione, un progetto democratico, un disegno costituzionale

 

di Giorgio Napoletano

 

La decisione presa a Laeken dai capi di Stato e di governo di dar vita a una Convenzione – sul modello di quella che nel 2000 ha redatto la Carta dei diritti fondamentali – per elaborare risposte impegnative ai quesiti sull’avvenire dell’Unione europea e quindi sottoporle a una nuova Conferenza Intergovernativa, ha rappresentato un importante successo delle forze europeiste più conseguenti e combattive. Per lunghi mesi, nel corso del 2001, abbiamo toccato con mano le resistenze e le reticenze di molti governi rispetto alla proposta della Convenzione, avanzata subito dopo Nizza dal Parlamento europeo: sono state necessarie, via via, le prese di posizione dei movimenti europeisti, della Commissione Prodi, dei governi più sensibili, e infine l’impegno della presidenza belga, per far maturare le condizioni del “si” che è infine venuto dal Consiglio di Laeken. E un’influenza positiva ha avuto in particolare la convergenza ricercata dal Parlamento europeo coi Parlamenti nazionali e sfociata, anche se con qualche difficoltà, nella risoluzione della COSAC di Stoccolma.

Ho voluto ricordare questo antefatto perché è importante partire dal valore del successo che si è ottenuto e dal significato dell’innovazione che si è decisa. L’idea stessa della Convenzione è parte del progetto democratico da perseguire in questa fase della costruzione europea.

Un progetto democratico che comprende, tra i suoi elementi essenziali, la valorizzazione della “componente parlamentare” dell’Unione: intendendo con questa espressione sia il Parlamento europeo sia i Parlamenti nazionali, entrambi garanti, nei loro distinti e diversi ruoli, della legittimità democratica dell’Unione europea in quanto Unione di popoli, di cittadini e non solo di Stati. Una valorizzazione che con la Convenzione si traduce in esercizio di un potere costituente condiviso dai Parlamenti con i governi e con la Commissione: quel potere di rivedere i Trattati – finora riservato ai soli governi, salvo la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali – e dunque, oggi, di elaborare un Trattato costituzionale, equivalente a una Costituzione, pur restando l’ultima parola – ai sensi dell’ancora vigente articolo 48 del Trattato – a una conferenza Intergovernativa. Non dimentico, certo, che per lungo tempo i movimenti europeisti e federalisti, ampie maggioranze nel Parlamento di Strasburgo anche per impulso di Altiero Spinelli, forze politiche di centro e di sinistra come quelle italiane (in particolare col referendum del 1989), avevano rivendicato l’attribuzione al Parlamento europeo di un pieno mandato costituente (e ancor prima si era invocata l’elezione di una vera e propria Assemblea costituente). Ma è stato giusto, credo, prendere atto dell’impossibilità di conseguire quel risultato, e quindi riformulare quella rivendicazione, sempre mirando a rompere il monopolio dei governi ma associando i Parlamenti nazionali nell’esercizio di una sia pur non esclusiva funzione costituente.

La nostra idea – mi riferisco al rapporto da me presentato e votato a Strasburgo il 7 febbraio – è fare della Convenzione non un esperimento una tantum per la sola prossima revisione dei Trattati, ma la soluzione, l’istanza, la combinazione – Parlamenti più governi più Commissione – da far valere d’ora innanzi in materia di elaborazioni e revisioni di valore costituzionale.

Il progetto democratico che è ormai indispensabile assumere per lo sviluppo dell’Unione comprende nello stesso tempo come elemento non secondario quello della trasparenza e della partecipazione. Trasparenza del processo decisionale e specificatamente del processo di formazione delle scelte per la revisione dei Trattati: il metodo seguito ancora per la Conferenza Intergovernativa del 2000 non l’ha in nessun modo assicurata, mentre per assicurarla – come già per la Carta dei diritti fondamentali – il metodo della Convenzione, la pubblicità dei suoi lavori, l’apertura a contributi esterni, il collegamento con la società civile. È molto importante che dal primo momento, e fino alla conclusione, si proceda davvero in questo senso, che si dispieghino tutte queste potenzialità: e ciò dipenderà dalla sensibilità e dall’impegno dei membri della Convenzione e del suo presidium, ma anche dalle sollecitazioni e dalle iniziative che verranno da tutti i paesi membri dell’Unione. Molto importante sarà lo stesso sforzo per dar luogo a un intenso rapporto tra i rappresentanti dei Parlamenti nella Convenzione e i rispettivi Parlamenti, informandoli e coinvolgendoli sistematicamente.

Desidero ancora soffermarmi sul grande tema della democrazia nell’Unione e su di esso. Non si tratta di agitare in modo ripetitivo la denuncia, o lo slogan, del “deficit democratico”. Di strada se ne è fatta non poca, da quando non c’era neppure un Parlamento europeo eletto a suffragio universale o da quando un formidabile impulso venne dato con l’approvazione, nel febbraio 1984, da parte dell’assemblea di Strasburgo, del progetto Spinelli.

Ma non ci si può di certo ritenere appagati: non si può sottovalutare il dato obbiettivo, e il motivo di disagio, rappresentato dall’insufficiente potere d’intervento di istituzioni rappresentative legittimate dal voto popolare nella formazione e nel controllo delle decisioni in diversi campi dell’attività dell’Unione. Né si può sottovalutare la grave difficoltà di comprensione e di partecipazione che tiene i cittadini europei lontani dal modo di operare dell’Unione, e che si traduce in un senso di estraniazione, in un crescente disincanto se non peggio, anche per confusione nelle aspettative cui corrispondono delusioni talvolta immotivate dinanzi ali risultati conseguiti. Di qui il rischio già emerso di una perdita di consenso per la costruzione europea e perfino di una crescita di oscuri timori.

È dunque un imperativo di primaria importanza il rafforzamento da tutti i lati dell’impianto democratico dell’Unione, nella fase nuova che sta per essere segnata da un allargamento senza precedenti e insieme dalla necessaria assunzione di nuove missioni e priorità.

Di qui, per quel che riguarda il processo di parlamentarizzazione, le proposte anche di recente votate a Strasburgo per superare i limiti del potere legislativo e di bilancio del Parlamento europeo, per arricchirne le funzioni di indirizzo e di controllo anche nella materia degli attuali secondo e terzo pilastro, per attribuirgli la prerogativa di eleggere il Presidente della Commissione europea – soluzione, quest’ultima, da preferire a quella, propria di un modello presidenzialistico e di una dialettica politica rigidamente bipolare, della elezione diretta da parte dei cittadini. Sempre nello stesso quadro, le nostre proposte per una stretta cooperazione tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali: la proposta, in particolare, di un vero e proprio accordo interparlamentare che li leghi in un impegno di esercizio complementare e convergente dei rispettivi, distinti mandati.

Il discorso sulla democrazia dell’Unione non può però limitarsi al peso da dare, senza più riserve e remore, ai Parlamenti, alla componete, diciamo pure al “sistema” parlamentare europeo. Tra gli altri capitoli da affrontare non meno decisamente, mi limito a richiamare quello della crescita di partiti europei che non siano semplici e flebili aggregazioni di vertice dei partiti nazionali, e più in generale della crescita di una ricca rete di attori politici e sociali su scala sopranazionale, di consistenti spazio di comunicazione e di dibattito pubblico, di un’opinione pubblica europea. Più che presupporre tutto ciò, e presupporre magari la mitica nascita di un popolo europeo, la scelta di una Costituzione europea può con grande forza sollecitare un tale processo.

Già dall’ottobre del 2000, con il rapporto Duhamel il Parlamento di Strasburgo ha elaborato sue proposte puntuali sui caratteri e i contenuti di una Costituzione europea, sul modo di giungere a quel traguardo per la via della semplificazione e ristrutturazione dei Trattati, sulla necessità di ottenere per via referendaria l’assenso dei cittadini. La base più significativa da cui partire è quella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, che ha rappresentato uno straordinario balzo in avanti nella costruzione di una cittadinanza europea anche se le resistenze di alcuni capi di governo hanno impedito di integrarla già a Nizza nei Trattati. Ma non ripeto qui tutte le posizioni e proposte che saranno portate dai rappresentanti del Parlamento europeo al tavolo della Convenzione.

Il punto cruciale mi sembra l’assoluta necessità di dare risposte soddisfacenti a tutti gli aspetti del problema della legittimazione e della partecipazione democratica per poter riguadagnare il consenso e il sostegno dei cittadini alla causa dell’integrazione e dell’unità europea. Sarebbe un grave errore ritenere che quella legittimazione possa scaturire di per sé dalla bontà del “prodotto” che l’Unione riesca ad offrire, che quel consenso sia legato solo al soddisfacimento di interessi materiali, al conseguimento di risultati tangibili in termini di benessere, equità e sicurezza, e non anche a delle garanzie di carattere democratico e a delle possibilità di effettiva identificazione di ciascuno con i valori e con i traguardi dell’Unione europea, con la visione che ne guida l’attività e gli sviluppi.

La stessa prospettiva ormai così ravvicinata di riunificazione, o di unificazione dell’Europa nel seno dell’Unione, non implica solo adattamenti funzionali – come quelli malamente concordati a Nizza – delle istituzioni dell’Unione, ma una sua rifondazione simbolica, una sua rinnovata finalizzazione, una sua forte riconoscibilità democratica. La Convenzione non può muovere da tre esigenze incontestabili: quella di un governo delle politiche economiche che integri il nuovo punto di forza rappresentato dalla moneta unica, ne colga le potenzialità e le ponga al servizio di una crescita competitiva dell’economia dell’economia europea; quella di un ruolo effettivo dell’Europa sulla scena mondiale, richiesto dalla lotta contro il terrorismo internazionale ma ancor più dalle tensioni e dalle incognite che il processo di globalizzazione porta con sé; e quella di un’azione comune a tutela sia della sicurezza sia dei diritti dei cittadini. Sono tre missioni, tre priorità che conseguono alla eccezionale novità dell’introduzione dell’EURO in 12 paesi e alla drammatica scossa dell’11 settembre 2001. C’è forse già una larga condivisione di queste esigenze, delle soluzioni a cui tendere, del disegno da ridefinire per il futuro dell’Europa unita? Dico francamente che non bisogna indulgere alle apparenze e alle illusioni: anche se tutti si dichiarano d’accordo sulla parola d’ordine di una Unione non solo efficiente ma più democratica, sull’obiettivo di una Costituzione europea, e in sostanza, sulla necessità di “più Europa”. No, tutte queste espressioni risultano ambivalenti e possono alludere a impostazioni addirittura opposte e inconciliabili. Penso sia necessario perciò indicare alcune discriminanti, attorno a cui ruoterà il confronto, l’indispensabile chiarimento e infine, mi auguro, la ricerca di un’intesa nella Convenzione e nella Conferenza intergovernativa ma non partendo dall’assillo prematuro del compromesso finale cui giungere, non dando magari per insuperabili le posizioni e le resistenze degli interlocutori più chiusi.

 

Democrazia

 

C’è chi la invoca per mettere in questione l’intera esperienza comunitaria e più specificamente i poteri della Commissione come istituzione sovranazionale, quasi che essa, una volta investita dal Parlamento europeo, fosse meno legittimata dei governi che ricevono l’investitura dai Parlamenti nazionali. La campagna che conduce in Italia la Lega Nord contro un pugno di “tecnocrati senza volto” che dettano legge a Bruxelles, contrapponendovi l’appello al popolo sovrano, è una pedestre espressione di questo modo di mistificare l’esigenza di una Unione più democratica. Ma anche da parte di ambienti politici più qualificati, compresi alcuni capi di governo, si teorizza comunque l’impossibilità di concepire la democrazia se non nel quadro nazionale, si ignora o si svaluta la funzione rappresentativa e la concreta capacità d’intervento del Parlamento europeo, si rimuove il discorso su una prospettiva di democrazia sopranazionale europea, nei suoi molteplici elementi, che possa integrarsi con gli storici presidi democratici nazionali e anche concorrere a rinvigorirli. Da tale teorizzazione discende tra l’altro la proposta della creazione di una cosiddetta seconda Camera composta di parlamentari nazionali, che senza poter soddisfare le giuste istanze di valorizzazione dei Parlamenti nazionali nei rapporti col processo di integrazione configura una grave confusione e sovrapposizione di ruoli ai danni del Parlamento europeo. 

 

Costituzione

 

Intanto, non è scontato che ci sia già accordo a farla scaturire come risultato della Convenzione e della Conferenza Intergovernativa. Le maggiori riserve restano quelle inglesi. Ma anche tra quanti consentono su quell’obbiettivo si colgono sia elementi di adesione solo generica sia elementi di evidente strumentalismo: c’è chi rinvia alla definizione (secondo il proprio particolare modello o calcolo) di una Costituzione europea l’accettazione di ogni concreto sviluppo sulla via dell’integrazione, c’è, soprattutto, chi pensa alla Costituzione come strumento per porre limiti insuperabili all’ulteriore corso del processo d’integrazione se non addirittura come leva per farlo regredire. In questo senso, il nodo è rappresentato dalla ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri, che andrebbe ridefinita appunto in Costituzione.

 

Necessità di “più Europa”

 

Sembra difficile per chiunque sfuggire all’argomento della palese inadeguatezza di risposte nazionali sia alle sfide che le economie anche dei maggiori paesi europei debbono fronteggiare sul piano della competitività globale, sia alle responsabilità che spettano all’Europa per un più equo e sicuro ordine mondiale. Ma con l’espressione “più Europa” si può intendere più cooperazione intergovernativa anziché sviluppo conseguente del metodo comunitario e della dimensione sopranazionale.

È perciò venuto il momento di fare fino in fondo i conti con alcune posizioni che penso possano essere solo definite mistificatorie. C’è stata davvero una estensione incontrollata e abnorme delle competenze dell’Unione, dell’iniziativa, della Commissione, dei poteri di appartati tecnocratici, o c’è stato piuttosto un eccesso di normative di dettaglio, un attenuarsi della distinzione tra decisioni politiche e decisioni tecniche, tra atti legislativi e atti amministrativi? Si tratta di stabilire finalmente una gerarchia delle norme, e di decentrare misure di applicazione degli indirizzi fissati con le direttive, o che cos’altro- quali competenze, quali politiche – bisognerebbe rinazionalizzare, restituire agli Stati nazionali? Il terreno è estremamente infido. Una cosa è essere rigoroso nella delimitazione delle competenze dell’Unione – ma sapendo guardare avanti, come fa il relatore della Commissione costituzionale del Parlamento europeo su questo tema che nell’affermare un criterio di rigore suggerisce tuttavia di includere la politica estera tra le competenze esclusive dell’Unione. Una cosa è essere seri nell’affermazione e nel rispetto del principio di sussidiarietà – prevedendo anche la possibilità di un controllo giurisdizionale e aprendo largamente il discorso alla considerazione non solo del livello di governo nazionale ma di quello regionale. Altra cosa è invece denunciare una presunta linea di “sempre più stretta integrazione” – formula che non si trova nei Trattati, i quali parlano solo di “sempre più stretta unione tra i popoli” – e insistere ossessivamente sulla presunta tendenza alla costruzione, magari strisciante, di un super Stato centralizzato “che sommerga le identità nazionali”.

Con tutto il rispetto per qualche illustre uomo di governo, come il primo ministro Blair, che agita questo spauracchio (lasciamo stare i leghisti nostrani che vedono dietro la Commissione di Bruxelles né più né meno che l’ombra di un super Stato “sovietico”), proprio di spauracchio, di falso e strumentale bersaglio si tratta. Si dica chi, quali forze politiche e di governo in Europa perseguono questo obbiettivo, c’è forse davvero una tendenza oggettiva, un rischio implicito in quel senso? Lo si dica, lo si dimostri.

La verità è che ci sono forze che resistono ancora alla logica di uno sviluppo coerente della dimensione sopranazionale del processo di integrazione europea, mentre il più maturo movimento politico e culturale europeista non contesta la compresenza di una dimensione intergovernativa e tanto meno il persistente ruolo degli Stati nazionali. Non nega né l’uno né l’altro, anche se si oppone alla deriva intergovernativa che è visibilmente in atto e che da alcune parti si vorrebbe accentuare.

Il disegno costituzionale che ormai si richiede di definire è quello di uno sviluppo in senso federale dell’Unione europea. La definizione proposta anni fa da Jacques Delors – Federazione di Stati nazionali – può considerarsi valida, a patto che alcuni dei suoi più recenti adepti non le torcano il collo, o meglio non le taglino la testa assumendone il richiamo agli Stati nazionali per ignorarne il soggetto Federazione.

Non sono comunque innocenti le accentuazioni di alcuni esponenti dell’attuale maggioranza di governo italiana sugli Stati nazionali come base, come asse da cui far partire il discorso sul futuro dell’Europa, il disegno dell’Europa del futuro. Non sono solo parole, o riferimenti anacronistici – come quello, che pure si è letto, all’“Europa delle patrie” cara a De Grulle – ma possono essere preannunci di posizioni che contrasterebbero radicalmente con la tradizione dell’europeismo italiano; posizioni che peserebbero in modo grave in una partita destinata a giocarsi, concretamente, in seno alla Convenzione, su temi come quelli della ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri, dell’estensione del voto a maggioranza (una maggioranza di Stati che rappresenti una maggioranza della popolazione totale dell’Unione, del ruolo di governo della Commissione.

Ci auguriamo che non ci sia un simile allontanamento da enunciazioni finora condivise, un simile slittamento negativo delle posizioni di maggioranza e di governo, specie tenendo conto del ruolo che può toccare all’Italia nel semestre di presidenza dell’Unione se si osserverà il calendario che anche noi consideriamo indispensabile per evitare di giungere senza conclusioni del processo costituente alle elezioni europee del 2004.

Ci auguriamo che da parte del centro destra italiano non si diano sponde a nessuna forza politica e di governo di altri paesi, a nessun’altra forza di destra o anche non di destra che voglia ostruire o frenare il cammino verso la costruzione di un’’Europa più unita e più forte. Neanche se dovesse trattarsi dell’attuale governo britannico. Un governo il cui primo ministro ha preso le distanze, con accenti drastici (nel discorso del novembre scorso a Birmingham), da quelle posizioni che nel passato hanno finito per collocare la Gran Bretagna ai margini del processo di integrazione europea, e che si orienta, superando un già serio ritardo ma per evitare un più grave errore, a proporre agli elettori l’ingresso nel sistema della moneta unica. Un governo che appare però ancora condizionato, oltre che da pregiudizio alimentati pesantemente dai mezzi d’informazione di quel paese, dai riflessi di una tradizione storica poco sensibile alle ragioni di una comune impresa europea. Viene fatto di ricordare come fallì, alle origini, nel lontano 1950 il tentativo francese di associare Londra a quell’impresa, come esso si infranse sullo scoglio del rifiuto – da parte del governo e del partito laburista – di qualsiasi forma di autorità sopranazionale, anche perché (argomento che oggi magari non viene rispolverato) avrebbe interferito nell’esperienza socialista britannica.

Faccia molta attenzione l’on Berlusconi. Il Presidente del Consiglio anche in quanto presidente di Forza Italia non può collegarsi a posizioni retrive su quei temi chiave per il futuro dell’integrazione europea che ho poco fa richiamato e nello stesso tempo dichiararsi d’accordo sulla linea ribadita ancora nello scorso dicembre da quel Partito Popolare europeo di cui si considera parte integrante. Una linea che riflette la continuità dell’impegno europeistico di varie componenti di quel partito e in particolare dei cristiano-democratici tedeschi, molto vicini su questi temi, nel loro paese, al partito di maggioranza socialdemocratico.

Questo orientamento bipartisan di un partner fondamentale dell’Unione europea come la Repubblica federale tedesca, le tendenze europeistiche sempre vive nella sinistra e in altre forze politiche francesi, i complessi ma non cristallizzati equilibri che caratterizzano l’attuale dibattito nell’Europa dei 15, le possibilità di dialogo fruttuoso con i rappresentanti dei paesi candidati, insieme con gli indirizzi largamente maggioritari del Parlamento europeo, fanno della Convenzione un campo aperto, anche se difficile, di confronto. E’ molto importante che l’Italia vi contribuisca dalla parte giusta. In questo senso noi opereremo in quanto Democratici di Sinistra e in quanto forze di centrosinistra – credo di poterlo dire – nel loro insieme, considerandoci a giusto titolo eredi e continuatori del lungo cammino dell’europeismo italiano, nella pluralità delle sue espressioni fin dai primi passi sulla scena del dopoguerra, e nella ricchezza dei suoi sviluppi. Non è arbitrario accostare i nomi di De Gasperi e di Spinelli. Non è arbitrario richiamare la più ampia comunanza di vedute realizzatasi in fasi successive.

Ciò non significa essere acritici laudatori, o ingenui apologeti, dello stesso presente dell’Unione, qual è emerso non solo dalle conclusioni di Nizza ma da significative vicende e prove recenti. Quel che conta però è il punto di vista da cui si esprime un atteggiamento critico, e la direzione in cui si sollecita un cambiamento. Il nostro punto di vista non può essere quello dei non pochi, oggi in Italia, che svalutano il formidabile bilancio di cinquant’anni di Europa comunitaria, rappresentano l’Unione come un mostro burocratico, seminano diffidenza o, in tutte le sfumature possibili, scetticismo. Di fronte alla campagna della Lega Nord nonché ai silenzi o alle ambiguità che vi si accompagnano in altri settori della maggioranza e dell’opinione di centrodestra, consideriamo un elogio il sentirci tacciati di eurofilia. Sul piano storico ci rammarichiamo piuttosto del ritardo con cui la sinistra e una parte specialmente, scelse il campo dell’europeismo.

Né il cambiamento che noi vogliamo può essere quello auspicato da quanti in realtà pensano a un ritorno al passato: alla difesa della sovranità nazionale in campi in cui è necessario passare a una condivisa sovranità europea, o al suo ristabilimento in campi nei quali essa è stata per buone ragioni già trasferita a un livello più alto. Anche la tutela – in senso all’Unione – dell’interesse nazionale (quando sia esso e non altro, in giuoco) è cosa da non confondere con una retorica o delle prove di forza esistenziali per lo sviluppo di un’Europa più unita.

La nostra “eurofilia”, o meglio la nostra fiducia nella forza della causa europea non è cieca. Siamo preoccupati per l’avvenire dell’Unione: il rischio che si vada verso una paralisi delle sue istituzioni, comunque verso una sua ingovernabilità, o verso una deliberata diluizione del processo di integrazione, è reale. Bisognerà dimostrare di essere all’altezza delle responsabilità dell’Europa e delle fondamentali intuizioni dei pionieri dell’impresa comunitaria. In loro era ben chiara l’idea di una Comunità politica anche quando decisero di cominciare col carbone e con l’acciaio o quando mirarono senza successo a una difesa comune. E che si trattasse di gettare le prime basi di una indispensabile Federazione, fu scritto nel documento fondativo di quell’impresa. Il metodo lucidamente indicato da Jean Monnet – affidarsi all’effetto di trascinamento progressivo delle realizzazioni parziali e delle solidarietà di fatto, per giungere all’Unione politica – ha ormai dato tutto quel che poteva, fino alla nascita, “trascinata” dal completamento del mercato interno, della moneta unica: è venuto il momento, come ci dice la stessa scelta della Convenzione, di un progetto compiuto, di un disegno costituzionale da perseguire esplicitamente. Se si è esaurito un metodo, non si sono esaurite, anzi si rafforzano rinnovandosi in un contesto storico tanto mutato, le motivazioni dell’impegno a costruire un’Europa unita secondo un’ispirazione federale. La sfida consiste nel far corrispondere a tali motivazioni e profonde ragioni, nella ricerca di valide soluzioni, un più alto livello di coscienza europea, un più alto livello di comune volontà politica.