“CORRIERE
DELLA SERA”
15
novembre 2002
Il Papa e la Curia ci hanno dato una straordinaria lezione
di oratoria politica. Il discorso di Giovanni Paolo II non è l’ingerenza negli
affari italiani che molti dichiaravano di temere. Ma non è neppure una generica
allocuzione al mondo e ai fedeli sui grandi temi dell’apostolato cattolico.
Invitato al banco di presidenza della Camera dei deputati, il Papa, con
inattesa energia, ha parlato soprattutto agli italiani e ai loro rappresentanti
politici. E non ha esitato ad affrontare i temi all’ordine del giorno della
politica nazionale. E’ probabile che non potesse fare diversamente. Un discorso
meno «italiano» sarebbe piaciuto ai laici, ma avrebbe deluso il mondo cattolico
e sarebbe parso a molti una occasione mancata. Stretto fra due opposte
esigenze, il Papa ha pronunciato una magistrale allocuzione diplomatica in cui
ha detto con grande finezza, direttamente o indirettamente, tutto ciò che la
Chiesa desidera oggi dalla nazione italiana e, su alcuni grandi problemi,
dall’Europa.
Giovanni Paolo II ha sottolineato le radici cristiane dell’Italia e
l’indelebile impronta che l’«annuncio evangelico» ha lasciato sulla sua cultura
e la sua arte: è un modo per affermare che l’Italia è cristiana o non è. Ha
rivendicato i grandi meriti di alcuni Papi italiani, fra Ottocento e Novecento:
è una risposta a coloro che lo hanno criticato per la sua devozione alla
memoria di Pio IX, Pio XI, Pio XII. Ha condannato l’alleanza tra democrazia e
«relativismo etico»: è un modo per deplorare il matrimonio fra gay, le coppie
di fatto, le adozioni innaturali, la fecondazione assistita. Ha ammonito che il
futuro dell’Italia è minacciato dalla crisi delle nascite e dall’invecchiamento
della popolazione: è un modo per condannare l’aborto e deplorare la mancanza di
una vera politica per la famiglia. Ha dichiarato che occorre rendere meno
onerosa l’educazione dei figli: è un modo per esortare lo Stato ad assistere le
scuole private.
Ha reso omaggio alle esigenze della sicurezza, ma ha
ricordato che lo stato delle carceri esige un gesto di clemenza. Ha chiesto
maggiore attenzione per i membri più deboli del corpo sociale: è un modo per
ricordare che lo Stato deve assistere i disoccupati e gli immigrati. Ha chiesto
che nella «Casa comune europea» (espressione molto usata da Michail Gorbaciov)
vi sia il «cemento» della continuità religiosa e civile del continente: è un
modo per chiedere che la costituzione dell’Unione contenga un cenno alle sue
«radici religiose». Ha condannato il terrorismo e ha deplorato l’uso distorto
che si è fatto delle religioni: è un modo per sottolineare che l’Islam non può
essere considerato ispiratore degli attentati. E ha deplorato infine che nelle
vicende internazionali sembri prevalere la logica dello scontro: è un modo per
affermare che la guerra con l’Iraq può essere ancora evitata e che la crisi
palestinese esige una soluzione politica.
Queste sono alcune delle cose che il Papa ha chiesto
all’Italia e all’Europa. Chi ha seguito la sua opera in questi ultimi anni sa
che appartengono da tempo all’agenda politico-religiosa di Karol Wojtyla. Del
tutto nuovo, invece, è il luogo in cui queste richieste sono state avanzate.
Resta quindi da dire una parola sul modo in cui il Papa è stato ricevuto a
Montecitorio. Pensavamo che i deputati e i senatori della Repubblica lo
avrebbero accolto con simpatia, ascoltato con attenzione e applaudito, alla
fine, con calore. Ma l’emozione per l’eccezionalità dell’evento ha travolto
alcune regole dell’etichetta politica e molti parlamentari si sono impadroniti
di quelle parti del discorso che maggiormente convenivano al loro partito per
salutarle con fragorosi applausi. Senza volerlo il Papa è stato
spregiudicatamente usato dalla politica italiana. E’ probabile che la Santa
Sede, accettando l’invito, non avesse valutato questo rischio.