“CORRIERE DELLA SERA”
19 novembre 2002
Un «patriarca» galantuomo
con il sogno della sinistra unita
Severo su Craxi: ebbe
intuizioni giuste ma le smentì nella pratica
di Paolo Franchi
Diciamolo anche noi, ma sottovoce, sfidando il rischio
della retorica, con affetto e con un po’ di nostalgia per una stagione che
adesso sentiamo davvero tramontata: con Francesco De Martino, l’ultimo
patriarca del socialismo italiano, che se ne è andato ieri alla bella età di 95
anni, se ne va davvero un pezzo importante del Novecento democratico e
socialista di questo Paese. Nel Partito socialista il giurista napoletano entrò
tardi, nell’agosto del ’47, assieme a personalità del calibro di Vittorio Foa,
Riccardo Lombardi ed Emilio Lussu, quando si concluse la breve, intensa
parabola di quel Partito d’Azione cui aveva aderito giusto in tempo per
partecipare alla Resistenza. E della vita del Psi fu subito un protagonista.
«Li ricordo bene, quegli anni», disse a chi scrive alla vigilia delle ultime
elezioni politiche: «Da professore, non da funzionario di partito, trovai
finalmente la tranquillità della coscienza proprio partecipando a quei
congressi, a quelle assemblee, dove cadevano le differenze di classe, e
prevaleva la comunanza di sentimenti e di ideali».
Altri tempi, altri uomini, un’altra Italia. Stava per consumarsi la scissione
di Palazzo Barberini, e Pietro Nenni, ci confidò De Martino, non era per nulla
convinto che, alla fine, Giuseppe Saragat se ne sarebbe andato davvero. E quasi
55 anni dopo, non sarebbe giusto riconoscere che Saragat, sul piano storico,
aveva ragione? Rispose di sì, da quel galantuomo che era. Ma disse pure che, in
quegli anni, a volere l’unità del Psi, e anche quella tra socialisti e
comunisti, era la grande maggioranza dei lavoratori; e che comunque quella
scissione fu un colpo mortale alla speranza di costruire, anche in Italia, un
grande partito socialista. Lui, De Martino, stava dalla parte dell’unità.
Fu marxista, ma anche autonomista, e riformista. Alla morte di Rodolfo Morandi,
nel ’55, fosse stato solo per Nenni, sarebbe stato lui, non Pertini, il
vicesegretario del Psi. Lo diventerà solo nel ’59, quando il vecchio Pietro,
che al congresso di Venezia era stato messo in minoranza, riconquisterà il suo
partito. Quattro anni appena e, nel dicembre del ’63, nasceva il primo
centrosinistra organico: Nenni vicepresidente del Consiglio, De Martino
segretario di un partito che stava conoscendo una nuova scissione, quella del
Psiup. «Nenni pensò che quello fosse il prezzo da pagare per fare il centrosinistra»,
ci raccontò De Martino: «Quando gli dissi che rischiavamo di perdere anche
Riccardo Lombardi, allargò le braccia e mi disse: "Che ci vuoi fare"?
Io feci di tutto per trattenerlo, e ci riuscii. Chi dirige un partito lungo un
passaggio storico ha il dovere di preservarne l’unità».
Ripensandoci su tanti anni dopo, diceva di portarsi ancora
appresso il dubbio che il centrosinistra fosse stato la scelta migliore. E
preferiva glissare sul tentativo, penosamente fallito, di sanare la scissione
di Palazzo Barberini mediante la riunificazione tra Psi e Psdi, che andò in
frantumi nel luglio del ’69. Anche perché, quando al congresso di Genova, nel
’72, riguadagnò la segreteria del partito, tutta la scena politica italiana era
cambiata: il Sessantotto aveva virtualmente decretato la crisi delle speranze -
o delle illusioni - riformiste del centrosinistra, era aperta, e non solo
virtualmente, la questione comunista.
Il Psi di De Martino fu, secondo la formula d’epoca, il Psi
degli «equilibri più avanzati», («avanzati», si capisce, soprattutto nei
confronti del Pci) in un’Italia che, con il referendum del divorzio e le
elezioni regionali del ’75, sembrava andare, e fortemente, a sinistra. Così a
sinistra da indurre De Martino, con un editoriale sull’ Avanti! il
giorno di Capodanno, all’errore principale della sua vita politica,
all’apertura, cioè, della crisi del governo Moro-La Malfa che spianò la strada
alle elezioni anticipate. Il 20 giugno del ’76, dalle urne uscirono due
vincitori, la Dc e il Pci, e il Psi, che aveva condotto la campagna elettorale
con la parola d’ordine: « Mai più al governo senza i comunisti »,
precipitò sotto il 10 per cento. Un disastro, un risultato che metteva in
discussione la sopravvivenza stessa del partito. E fu proprio in nome del primum
vivere che il 12 luglio, all’hotel Midas, quella che allora sembrò una
congiura di palazzo propiziata dal «parricidio» del demartiniano Enrico Manca,
rovesciò il Professore, e portò alla segreteria Bettino Craxi. L’età del
demartinismo nel Psi era finita. Pochi mesi dopo, il rapimento del figlio Guido
(per il quale fu pagato un riscatto alla camorra) tolse di mezzo anche la
possibilità, per De Martino, di essere eletto presidente della Repubblica: ad
eliminarlo dalla rosa provvidero, all’indomani del sequestro e dell’assassinio
di Moro, proprio quei comunisti verso i quali era accusato di nutrire uno
spirito eccessivamente unitario.
Nel giudizio sulla stagione craxiana, che, come ha detto
Emanuele Macaluso, «visse con grande dignità e senza rotture», il Professore
(eletto l’ultima volta nell’83 a Napoli con i voti del Psi e del Pci, e
nominato nel ’91 da Francesco Cossiga senatore a vita) fu severo: «L’intuizione
era giusta, ma nel concreto Craxi fece tutto l’opposto, proprio negli anni in
cui il Pci si rendeva sempre più autonomo da Mosca la polemica di Craxi si
faceva più aspra, come se il Psi avesse deciso di andare in senso contrario al
processo storico, mettendosi sulla china che passo passo lo avrebbe portato
fino alla scelta del cosiddetto Caf».
Adesso, i socialisti della diaspora e i postcomunisti lo ricordano con commozione. A chi scrive, piace ricordarlo quando, novantaquattrenne, gli parlò della sua giovinezza («la borghesia mangiava la carne una volta la settimana, la povera gente due o tre volte l’anno»), e degli straordinari passi avanti che aveva fatto l’Italia. Ma non nascose che, a suo giudizio, la parola socialismo una verità e un fascino («finché ci sarà disuguaglianza»), lo avrebbe mantenuto comunque: «A me, pensi, il futuro interessa molto più del passato. Stiamo vivendo un passaggio d’epoca, e quello che più mi addolora della vecchiaia è che non potrò mai sapere come andrà a finire».