LA STAMPA

                                                       29 MARZO 2003

 

 

 

   Tribù

  Quello che gli americani non hanno capito.

 

Di keled fouad allam

 

L’attuale conflitto che oppone la colazione anglo-americana all’Iraq è per molti versi atipico, non tanto in ragione della legittimità dello stesso – su cui i pareri sono alquanto contrastanti – ma quanto alla sua tipologia. Quella che si sta svolgendo è probabilmente la prima guerra multiculturale dell’era globale. Ma attenzione: non mi riferisco allo scontro di civiltà teorizzato dal celebre politologo Samuel Huntington. La nozione di guerra multiculturale vuole invece evidenziare come in questo caso le logiche dell’avversario iracheno, e dunque le sue capacità difensive e di attacco, siano totalmente estranee a quelle che stanno alla base della strategia anglo-americana, di Klausewitz e le logiche belliche più recenti legate la concetto di guerriglia urbana.

A una settimana dall’inizio della guerra, balza agli occhi come la strategia anglo-americana abbia completamente sottovalutato, per non dire ignorato, la dimensione culturale della complessa società irakena, e soprattutto la reale strutturazione del potere politico dell’Iraq di Saddam Hussein. Ne risulta un’enorme confusione in cui i singoli fatti sembrano tra loro in contraddizione. L’episodio della consegna da parte degli americane di derrate alimentari alla popolazione sciita, seguita da danze euforiche e slogan inneggiati a Saddam Hussein, appare paradossale agli occhi occidentali. Esso fa intuire le difficoltà incontrate dagli anglo-americani nell’individuare un blocco sociale che permette di stabilire dei contatti localmente; e questo avviene semplicemente perché la colazione non conosce la società irachena e il suo funzionamento. Non si è considerato, ad esempio, che nei dodici anni trascorsi dalla guerra del Golfo il potere politico di Saddam Hussein non si è fondato unicamente sull’ideologia del partito nazionalista arabo Ba’ath : egli ha infatti rafforzato la sua legittimità politica basandosi su qualcosa che nelle società arabe e radicato molto più profondamente di quanto possa farlo qualunque ideologia: le strutture tribali, che definiscono un sistema di solidarietà e di coesione sociale e territoriale del tutto diversa da quella individualistica che regna in occidente. Saddam Hussein, per rafforzare una dinamica politica funzionale al suo totalitarismo, ha tribalizzato lo stato e stabilizzato le tribù.

Perché controllare le tribù significa due cose: instaurare un rapporto di dipendenza della periferia verso il potere centrale attraverso un sistema basato sull’assegnazione di doni e privilegi ( come il collocamento dei capi tribali nei più alti apparati dello stato ) alle tribù più importanti e dunque egemoniche sul territorio; e aumentare la forza carismatica del suo potere. In effetti, a metà degli anni ’90, Saddam Hussein ha assunto il titolo di « capo dei capi » ( lo Sheikh al-Mashayikn ) . Perciò, se non si tiene conto della diluizione del potere realizzata attraverso il sistema tribale, spezzare il regime di Saddam Hussein si rivela un’impresa molto complessa. Questa guerra sta diventando asimmetrica non tanto a motivo del gap tecnologico relativo ai mezzi bellici, ma soprattutto perché in essa si scontrano due modelli, due concezioni del potere politico. Nel caso iracheno, il totalitarismo di Saddam Hussein è in realtà conforme alla natura del potere politico del mondo arabo-islamico, il mulk. Il mulk è un potere di tipo dinastico che si regge sul sistema della parentela e che mantiene attraverso il potere coercitivo; esso non si traduce soltanto in un esercito istituzionalizzato, ma è presente in un’identità collettiva, quella tribale, che interviene ogniqualvolta si presenti una minaccia esterna per opporvisi. In questo caso il confine fra civile e militare si dissolve.

Quello che in occidente è interpretato come tradimento, in oriente si chiama takiyya o kitman ( dissimulazione ) e rappresenta un principio classico della strategia araba per cui l’individuo, il qualunque momento, si sente chiamato a difendere il territorio, la tribù, il clan. Ecco perché questa guerra presenta un’enorme difficoltà e complessità; e il dopoguerra sarà ancor più difficile e complesso, perchè sarà necessario servirsi di una griglia di lettura totalmente diversa da quella classica occidentale. Il carattere multiculturale di questa guerra è dato anche dal fatto che la strategia irackena deriva da un dosaggio molto sottile di elementi strategici imparati, nelle accademie militari d’occidente e di elementi della strategia araba classica che si basa sul sistema di solidarietà clanica e su forti richiami di ispirazione religiosa e non, anche se filtrati dall’acculturazione. Dunque la confusione contraddittorietà  della situazione corrisponde semplicemente all’incapacità anglo-americana di interpretare il codice culturale del nemico, e di conseguenza di individuare una strategia in grado di indebolirlo. La troppa informatizzazione,insomma, ha finito di far trascurare la dimensione umana nello svolgimento nella vicenda bellica.

Fra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento, all’epoca degli imperi coloniali, gli eserciti occidentali, in particolari quelli britannici e francesi, erano in grado di leggere questo mondo pertinente: per farlo avevano inventato una nuova disciplina, la sociologia coloniale, avevano fondato delle scuole specializzate per ufficiali – nelle colonie francesi erano i celeri Bureaux Arabes – conoscevano le lingue e i dialetti di questo mondo, erano capaci di costruire equilibri, trattenendo ogni singola tribù, oppure di rovesciare quelli esistenti per servirsene ai propri fini. Ovviamente per questo mondo rappresenta una triste memoria, ma tuttavia esso costituiva un ricco universo di conoscenza, non va dimenticato che molti grandi orientalisti provenivano all’amministrazione militare. Ma oggi una tale formazione culturale e conoscenza effettiva del terreno manca completamente nella strategia dei war games.

Ciò riduce drammaticamente la portata politica di questa guerra-vale a dire una prospettiva di democratizzazione -  e rischia di trasformarla in un’azione di pura distruzione meccanica. Ogni guerra si prefigge un obbiettivo politico; tuttavia è grande il rischio di vincere militarmente la guerra di perderla politicamente.