Ipotesi di vivibilità e sviluppo di una Medina mediterranea dal cuore antico. *

 

 

“Non si deve mai confondere la città con il discorso che la descrive, eppure tra l’una e l’altro un rapporto c’è”(Marco Polo a Kublai Khan) [i]

 

 

 

Con la parola medina, nelle città mediterranee di origine araba,  si intende   il “cuore pulsante” delle città, il “centro del centro”. Il termine indica  l’insieme di memoria, storia, scambi, saperi, che costituisce il capitale sociale e umano delle città: un bene spontaneo che va catalogato, tutelato, valorizzato e promosso, allo stesso modo con cui viene catalogato, tutelato, valorizzato e promosso il capitale architettonico-monumentale ed il capitale culturale-artistico.

A queste tre risorse-capitali delle città se ne aggiungono altre due: la vivibilità e la sicurezza:  dalla loro armonica presenza dipendono lo sviluppo sostenibile, il benessere  e la qualità della vita degli abitanti e dei turisti, la partecipazione sociale.

Nel Corano la parola medina è citata diciassette volte, per enfatizzare l’importanza dell’habitat sedentario rispetto al nomadismo. Ancora oggi molti credenti islamici si lamentano del fatto che nelle città moderne la medina non occupa più il posto che meriterebbe. Analoghe lamentele si sentono anche da parte di credenti di altre religioni, cristiani ed ebrei: lo spazio consacrato, come pure lo spazio dedicato specificamente alle relazioni umane e sociali tipiche, è diminuito rispetto al passato, tanto a Napoli che ad Atene, a Barcellona, a Dubrovnik, a Tunisi o a Beirut.

Partendo dalle antiche medine, il capitale sociale e umano si è esteso spesso al di fuori dello spazio che delimita la medina stessa. Lo dimostrano le osterie e le botteghe artigiane sorte vicino al mare, i diversi centri in cui questo capitale sociale e umano, in varie epoche, si è radicato nel Centro Antico come nelle periferie, dove esistevano già vecchi centri di villaggi inglobati poi nelle grandi città.

Da questa considerazione si comprende l’assoluta prevalenza del capitale sociale e umano di una città rispetto allo spazio materiale che teoricamente delimita e identifica centri e medine e l’assoluto valore di questo capitale che, se si sposta o viene meno, svuota le architetture e gli spazi umani  rendendoli privi di significato e di vita. Per questo è impossibile identificare modelli urbani allo stato puro: “sono gli uomini che costruiscono le città e non i muri soltanto o le navi senza passeggeri”, ricordava Tucidide all’alba dell’età storica, e Sant’Agostino scriveva “La civitas, il Centro Antico, la medina non sta nei sassi, ma negli uomini”.

Voci, suoni, odori, saperi, sapori, leggende, memorie, osterie, botteghe, preghiere, spezie, mercati, canti e quant’altro; prima ancora che pietre, mura, stucchi, pitture, sculture: un grande patrimonio “immateriale” che costruisce la linfa vitale ed il senso stesso della “materia architettonica e monumentale” delle città.

Per comprendere meglio il valore di questo capitale sociale e umano percorriamo alcuni luoghi emblematici della medina di Marrakech e di Napoli.

La piazza Jemaa el Fna di Marrakech è l’esempio eclatante del valore primario del capitale sociale e umano della medina: vuota è una distesa d’asfalto rovente e informe, lercia e sudicia, contornata da costruzioni insignificanti senza alcun valore architettonico; piena di gente è un campionario d’umanità unico e irripetibile, tanto da essere inserita, per questo, dall’Unesco nella lista del patrimonio mondiale “immateriale” dell’umanità.

La piazza è uno spazio enorme dove si susseguono, pittoresche e lugubri, la storia e la memoria, la miseria e l’immaginazione: attraverso gli odori, i sapori, i suoni, i colori, gli antichi saperi, le tradizioni, le superstizioni, le magie, le stregonerie, i racconti…..

In ogni ora del giorno e della notte questo luogo muta non solo per effetto della luce e delle ombre, del sole o della pioggia, del vento o della sabbia, ma, soprattutto, per il variare del suo contenuto umano. Di giorno prevalgono i venditori di frutta, verdura e spezie, gli spremitori di agrumi, i cavatori di denti, i giocolieri e i cantastorie; di pomeriggio i saltimbanchi, gli indovini, gli incantatori di serpenti: tutti protagonisti di una soggiogante corte di patetici miracoli, che di sera e di notte, nella spettrale luce delle lampade ad  acetilene invase dai fumi dei mille fornelli di improvvisati ristoratori, continua il suo perpetuo  lavorio di complessa esistenza, popolata spesso da molti silenzi e dalle pipe di Kif che passano, ritmicamente, da una bocca all’altra.

Dalla piazza ci si addentra nella medina: una penombra densa di chiacchiere, di piani, di esseri e di oggetti, di cloache allagate. È la Marrakech secolare dei mercati e dei mercanti, degli artigiani, dei mendicanti. Seicento ettari in cui vivono quasi mezzo milione di persone: un brulichio umano che riempie fino all’inverosimile le strade coperte dai tendoni e disseminate di un’infinità di negozi.

In essa - come altrove – convivono i tre “domini” che già nel V secolo A.C, Ippodomo da Mileto., uno dei primi pensatori dell’urbanismo nella storia umana, riteneva essenziali per la vita delle città: il sacro, il pubblico, il privato.

 

Dagli spazi di sogno e colore di Marrakech al crogiuolo di Napoli.

Il centro storico partenopeo rivela le enormi contraddizioni del suo sviluppo urbanistico,  con le sue tante sovrapposizioni e fratture: emblematica fra tutte l’apertura del Rettifilo, che mutò radicalmente la funzione urbanistica ed il contenuto umano del quartiere. L’isolato di Sant’Agostino alla Zecca, ad esempio, sito tra il Rettifilo e la via Pietro Coletta, costituisce uno degli esempi più eclatanti dei guasti di questa modifica urbana che, pur non intaccando il complesso religioso, ne ha modificato la funzione epicentrica, isolandolo dal nuovo contesto urbano creatosi.

Un tempo questa zona si affacciava direttamente sul mare – che era avanzato di circa 300 metri rispetto a com’è oggi –  e la chiesa di S. Agostino, insieme al monastero e al chiostro, riuniva intorno a sé una molteplice struttura edilizia, caratterizzata da attività commerciali e artigiane dipendenti dal complesso religioso: candelai, tornieri, fabbri, scultori e riproduttori di immagini sacre trovavano la loro collocazione negli edifici intorno alle chiese anche dopo la completa ricostruzione della stessa nel XVIII secolo; come era pure per le tante osterie e botteghe. In questi luoghi, prima del Risanamento del 1884, una varietà di funzioni e attività coniugavano perfettamente questa parte del quartiere con il resto della città.

L’operazione “Risanamento”– caratterizzata dall’apertura del Rettifilo – ha smembrato questa centralità distruggendo l’equilibrio esistente e creando un’insanabile frattura tra botteghe di fabbri, arrotini, bilancieri e lattonieri ed i caotici magazzini del Rettifilo.

Questo caso singolare fa comprendere che, in genere, interventi radicali sul “cuore delle città” sono difficili: bisogna fare attenzione a non intaccare la memoria della città, le sue radici, la sua storia; rispettando, il più possibile, il suo patrimonio globalmente inteso (quello sociale e umano, quello monumentale-architettonico e quello artistico-culturale).

Le città cambiano, talvolta troppo presto, senza adattarsi al cambiamento. Continuando il paragone al corpo umano, si potrebbe affermare che molte trasformazioni sono assimilabili a “trapianti” seguiti da infiniti rigetti.

“Les formes d’une ville changent plus vite que le coup d’un martel”, affermava con rimpianto Baudelaire in seguito alle imprese di Haussmann a Parigi che pure furono di tutt’altro tenore rispetto a quelle del Rettifilo che dall’esperienza francese trassero spunto. Queste trasformazioni vengono accettate (o subite) con nostalgia e con protesta, specialmente in quelle città che hanno radici antiche.

Ciò vale ancora di più per Napoli, che è una città fondata su una verticalità unica, stratificatasi nei secoli. In questa città, e specialmente nella sua medina, confluiscono le più deliziose radici orientali ed occidentali possibili. L’espressività della sua gente può sembrare una caricatura dell’Europa viennese, ma appare del tutto concreta in un qualunque mercato mediterraneo, dove invece la seriosità di un britannico può scatenare il riso.

Napoli, Neápolis o Città Nuova, quale neo-annesso membro alla moltiplicata espansione della Grecia, mantenne la sua armonia anche quando Roma già imperava, quando la lingua greca continuò ad essere la lingua normale di Napoli: come oggi il napoletano è la lingua popolare.

Le prove di questo processo sono nella storia, specialmente in quella della medina di Napoli, le cui vicende sono connesse in un intimo rapporto tra architettura, urbanistica e società.

Nel Centro Antico di Napoli le architetture hanno inciso sui comportamenti sociali e viceversa. Solo come esempio è il caso di citare la crescita di casupole e bassi usate per attività di facili costumi quando, dopo il 1266, Napoli cade nelle mani degli Angioini . Questo periodo caratterizzato da “uomini che vestivano abiti corti e stretti in maniera assai dissoluta e donne che esponevano le proprie grazie cantando e gorgheggiando come le donne generose di Francia   ins.  Aut. fu combattuto fermamente da una regina catalana del ramo maiorchino, Sancha, sposa di Roberto d’Angiò e figlia di Giacomo II di Maiorca. Regnò a Napoli prima di Alfonso d’Aragona e la breve dinastia insulare fu assai legata al francescanesimo più rigorista, arrivando persino a sfidare l’autorità popolare. Addirittura papa Giovanni XXII avvertì la regina Sancha che il suo ascetismo non la esentava dai propri doveri di sposa e di regina e che il popolo non andava “oppresso”.

Per contrastare “relazioni sociali”, allora ritenute leggere e oscene, Sancha utilizzò l’architettura, comprendendo come in questo modo si potessero modificare e modellare i comportamenti sociali: fondò monasteri dappertutto e chiese austere. Fra tutti quello di Santa Chiara, il cui perfetto disegno gotico unito ai 600 monaci strettamente osservanti che originariamente l’abitavano indusse timore e rispetto nella zona e modificò non poco i costumi e le relazioni sociali che tutt’intorno si svolgevano.

In maniera analoga, in uno studio svolto anni orsono in cui si ipotizzava  il trasferimento delle attività e delle botteghe dei pastori di Via San Gregorio Armeno in altra parte della città, fu evidenziata l’assoluta insignificanza in termini di perdita di attività e flussi turistici  legati all’ artigianato, me la totale perdita d’identità della strada e del quartiere con conseguente degrado e riduzione del flusso turistico per l’indotto e per i monumenti vicini. Questi ultimi, ancorché importanti è di assoluto valore, vivono in gran parte come “indotto”, tenuto conto che la maggior parte dei visitatori del Centro Antico di Napoli, specie in prossimità del Natale, è attratta dai pastori e presepi con tutte le attività ad essi connessi.

Quest’ultima considerazione dimostra in modo chiaro l’assoluta prevalenza del capitale sociale e umano sugli altri due (capitale architettonico-monumentale, capitale culturale-storico) e la necessità di tener conto di questo in tutte le azioni di progettazione e riqualificazione degli spazi e dei luoghi in cui questo capitale maggiormente è presente e si esprime in quanto risorsa essenziale per lo sviluppo delle città.

L’architettura, specialmente nelle città mediterranee, solo eccezionalmente è assoluta: per questo deve essere considerata soprattutto come pratica sociale. È indispensabile valutare il luogo dove si colloca l’intervento, l’edificio che sta accanto, la strada e l’insieme del tessuto urbano, sociale e umano.

In molte città per troppo tempo si è prodotto solo “architettura d’accompagnamento”, traendo l’idea stessa di architettura che, al contrario, deve essere “di sostegno”spiegare meglio. Un problema rilevante è quello relativo al riuso dei vecchi manufatti: se e cosa demolire, quando correggere, cosa aggiungere o sostituire al demolito.

Questi temi sono autonomi ma  collegati tra loro. Cancellare, fare “tabula rasa” è una violenza ricorrente, una pratica consueta dalle nostre parti, che spesso ha impoverito anziché arricchito il patrimonio delle città mediterranee, realizzando solo spazi spesso privi di vita.

 

Centro antico e spazi urbani

I sociologi e gli psicologi ci hanno abituato a differenziare meglio lo spazio dal luogo: il primo neutro, impersonale, vago, il secondo personalizzato, integrato nell’identità dell’ambiente, dotato d’un genius loci. Nelle nostre città nascono molti più spazi – parcheggi, aeroporti, supermercati, che spesso non si sa come trasformare nei luoghi della città. Così gran parte della città mediterranea perde ogni relazione col suo centro (o con i centri) e con il porto.

Non esiste, evidentemente, una identità generica delle città mediterranee, ma esistono gli elementi o i fattori, percepiti come punti di riferimento. Esiste il centro con gli edifici del potere e dell’amministrazione, della fede e della difesa: “la città salda e compatta” (così il Salmo 121 descrive  Gerusalemme, quale primo modello della città giudeo-cristiana). Sulla sponda del Sud c’è la medina, il centro con la grande moschea del venerdì, i luoghi sacri, collegati immediatamente con loro, i mercati (suk, bazar), di cui  oggi in molte città del sud, è ancora immutato, il fascino. Bazar è una parola persiana (wazar, vuol dire piazza) mentre affascinante è il destino del termine suk. Con questa parola, nel dialetto semetico dell’Acadia, si indicava tutto ciò che è stretto, contiguo. Vi furono suk celebri a Siviglia, Toledo, Majorca; in Spagna e in Portogallo le parole zoco, azoca, azog, azoque, derivano tutte dal termine suk.

Lo spazio per le funzioni  del cosiddetto centro rimane, invece,  sempre più esiguo.

A ciò si aggiunga che le città mediterranee di solito non hanno un solo “centro storico” e tutti i centri non appartengono alla stessa epoca o ad uno stile comune o simile. Si tratta dunque di varie reti di riferimenti e di diverse identificazioni. C’è dall’altra parte il porto e la posizione della città riguardo a lui: porto vecchio, talvolta il primo nucleo urbano, vicino al centro, nonché i nuovi porti più o meno lontani e funzionali. Anche i porti  stessi si differenziano fra di loro e esprimono i diversi  rapporti delle città con il mare.

 La città e il suo patrimonio sociale, umano e culturale vanno declinati o coniugati insieme. La cultura della città è collegata con una cultura nazionale senza essere completamente determinata da quest’ultima né sottoposta ad essa. Lo stato “a discipinè la ville, violemment ou non”, diceva Braudel. La cultura nazionale – soprattutto nazionale-statale – ha la tendenza ad omologare. La cultura della città preferisce differenziare, esser diversa, conservare la sua identità particolare, talvolta particolarista. In questo confronto nascono spesso problemi. Jacques le Goff considera che gli italiani hanno difficoltà a fare i conti con il passato, fra l’altro perché temono di percepirlo più in relazione a una regione e a una città che in rapporto all’Italia. Vi sono, da una parte, le tendenze nazionali, i concetti che rinviano ad una omogeneità complessiva, idee ereditate dai secoli scorsi, risorgimentali, unificanti, statalizzanti: d’altra parte, le antiche caratteristiche della polis (autonomia, isonomia, eleutheria ecc.) appaiono sotto le forme innovative, esprimendosi nelle pratiche associative, comunitarie, talvolta corporative nel senso positivo della parola. La città diventa, non solo sul Mediterraneo, un banco di prova del modo e della qualità di vita, delle nuove culture cittadine e civiche: tolleranza, convivenza, spontaneità e solidarietà sono i nuovi valori che gli abitanti delle città portano come patrimonio essenziale delle città stesse. Questi valori vengono promessi attraverso le relazioni sociali che si sviluppano nel cuore delle città, le medine.

 

Unitarietà e confini tra passato e presente

Le città mediterranee hanno avuto la loro evoluzione perdendo o ritrovando unità o coerenza nel passato o nel presente. Il loro splendore e, in modo altrettanto evidente, le loro eclissi ne portano cicatrici. Oggi esse condividono numerosi problemi con le città continentali, distanti dalle coste. Si tratta di questioni di conservazione o di gestione, di esiguità di spazio o di estensione eccessiva, di pianificazione del territorio e di salvaguardia ambientale, di costruzioni abusive o selvagge, di immigrazione e di rigetto, di comunicazione tra i cittadini, tra “vecchi abitanti” e “nuovi venuti”, dei mutati “diritti della città”, dell’assenza di identificazione, valorizzazione e promozione del capitale sociale e umano delle città stesse, della partecipazione sociale alla vita e gestione della città.

La città non possiede per sua natura quell’unità assoluta che alcuni le attribuiscono”; questa considerazione, così premonitrice, ci proviene dall’antichità, formulata dallo “Stagirita”. Aristotele ricordava nella “Politica”, che tre giorni dopo la presa di Babilonia, “un intero quartiere della città ignorava l’avvenimento”. Le città che hanno componenti troppo eterogenee o ripiegate su se stesse, sono infatti tuttora votate alla perdizione. Infatti, secondo un altro avvertimento, che figura nella “Repubblica” di Platone, “la città non dovrebbe mai estendersi oltre il limite in cui, pur essendosi ingrandita, conserva la sua unità”.

Il problema del legame tra le parti, tra i centri delle città , si presenta in tutta l’area mediterranea, anche se di volta in volta in modo specifico. Le città più antiche sono caratterizzate da una complessa stratificazione: una certa verticalità piuttosto difficile da proteggere e da gestire. In esse le connessioni con uno o più centri storici si combinano con le relazioni tradizionali o nuove che collegano la città. Quanto all’orizzontalità urbana, essa rischia di prendere le proprie caratteristiche a forza di estendersi e di rendersi uniforme. In questo modo, una identità dell’essere (le architetture, i costumi, i linguaggi) non riesce più a incontrare una identità del fare adeguata, indispensabile (il capitale umano e le relazioni sociali).

In questo gioco di “forme” e “contenuti” male assortiti e squilibrati, la città si rifugia spesso nella sua memoria, per non tradire se stessa.

La teoria dello sviluppo si è evoluta nel corso degli ultimi cinquant’anni. In un primo momento ha avuto gran seguito una teoria meccanicistica che dei nei  paesi emergenti esaltava la  modernizzazione come panacea e garanzia dello sviluppo. Era una modernizzazione che  doveva appoggiarsi su un processo semplice, per non dire semplicistico: il recupero del ritardo.

Era sufficiente - secondo i suoi sostenitori- dare alle società emergenti gli strumenti che le nazioni industrializzate avevano inventato nel corso della loro rivoluzione industriale, affinché, attraverso l’uso – si pensava – ne conseguisse per le società emergenti un processo di recupero del ritardo scientifico e tecnico accumulato dalle nazioni in via di sviluppo.
Era questa l’epoca in cui, sul piano della teoria, fioriva l’ordine del trasferimento delle tecnologie e, sul piano pratico, l’uso smodato di strutture ritenute essere modernizzanti e dunque apportatrici di sviluppo, “chiavi in mano”.

Questo approccio meccanicistico e semplicistico al concetto di sviluppo mostrò presto i suoi limiti e condusse, in un secondo tempo, ad un’analisi più complessa delle situazioni e ad un’attenzione più viva ai dati sociali e culturali suscettibili di aiutare o di bloccare il processo di sviluppo economico.

Oggi si ammette, poco a poco, che il processo di sviluppo non poteva essere appreso soltanto in una dimensione economica. L’individuo e la società non possono essere ridotti a un homo economicus, ad un’unica dimensione che i sostenitori dello sviluppo meccanicista avevano promosso come unico soggetto d’interesse. (4)

 

Vivibilità come progetto

La vivibilità  in  città, qual  ad esempio Napoli, è uno dei fattori indispensabili per lo sviluppo e deve coniugare le architetture dei luoghi con la evoluzione della vita dei suoi abitanti (quelli stabiliti ed i turisti) in rapporto a nuovi bisogni e nuove esigenze dettate dalla globalizzazione e dall’evoluzione dei servizi richiesti.

Assicurare vivibilità significa innanzitutto identificare i bisogni dei cittadini attraverso un dialogo costante, “dal basso”, tra questi ultimi e l’amministrazione. Per far ciò occorre:

1)      Diagnosticare i bisogni assegnando un ordine di priorità.

2)      Progettare azioni consequenziali per ridurre o eliminare i bisogni individuati.

3)      Realizzare gli interventi progettati assicurando un coordinamento ed un’assistenza pluridisciplinare anche dopo la loro realizzazione.

4)      Redigere un “quadro logico”, spiegare quale esempio di buona pratica degli interventi realizzati, esportabile anche in casi analoghi ed in altre città.

 

 

Tale azione richiede l’individuazione obiettiva e reale dei bisogni e, per questo – come per ogni altra azione di questo processo – è indispensabile la partecipazione sociale, il pieno coinvolgimento degli abitanti ad un dialogo “dal basso”  - tra cittadini e amministrazione.

Si tratta di attuare una politica di “management” del quartiere attraverso l’utilizzo di  competenze delle  persone, degli spazi, dei luoghi; non solo architetti e urbanisti ma psicologi, ingegneri, antropologi, sociologi, storici, musicologi, storici dell’arte, storici dell’architettura e dell’urbanistica, restauratori, artigiani e quant’altri sono chiamati – in un’armonica e funzionale azione di squadra – ad un compito non facile dal cui buon esito dipende il futuro della città stessa.

L’individuazione dei bisogni e l’attribuzione di criteri di priorità nell’attuazione di azioni specifiche tese al loro soddisfacimento richiede un meticoloso censimento che solo dal basso, dagli stessi abitanti, può essere intrapreso. Un criterio applicabile, sia in termini di catalogazione che in termini di selezione per tipologia degli interventi , può essere il seguente:

 

 

 

 

In tale contesto, la progettualità di azioni specifiche per ridurre o soddisfare i bisogni individuati – tradizionalmente affidate ad architetti ed urbanisti – richiede l’applicazione di specifiche azioni di partecipazione sociale fino ad oggi poco seguite, trattandosi, spesso, di incarichi dall’alto (top – down) affidati ai professionisti dall’alto (amministrazioni) con indicazioni applicative il più delle volte dettate da equilibri e compromessi politici e non dai reali bisogni degli abitanti.

La diffusione dei progetti preliminari, la discussione aperta in riunioni con tutti gli abitanti e le categorie interessate, la massima pubblicità ai primi risultati conseguiti di comune accordo (anche attraverso l’affissione degli schemi di progetto in apposite “bacheche” di quartiere) sono doveri a cui i progettisti incaricati devono assolvere nell’ottica di un’etica professionale che, oggi più che mai, dovrebbe impedire la progettazione e realizzazione di spazi asettici che non diventeranno mai “luoghi della città” per l’assoluta incomunicabilità con i suoi abitanti.

Si è già accennato al paragone delle città ad un essere umano, ciò lo si riscontra ancora di più a Napoli. Nel suo libroarticolo? “La Città Porosa” l’architetto Francesco Venezia riafferma questo concetto paragonando Napoli ad un grandissimo corpo in costante rapporto “fisico” con i suoi abitanti. D’altra parte nella tradizione popolare, ancor oggi vivissima, il muoversi dentro Napoli è indicato dall’uso di preposizioni come abbascio, ‘ncopp, ‘for, sotto, dentro, il luogo di piazza, via, largo, vicolo e via dicendo in uso in molte città: in dialetto si dice “for’ a Marina”, in luogo di “a Via Marina”; “ ‘ncopp o Vommero”, “abbascio à Sanità” e così via.

Questa similitudine consente di paragonare l’azione degli architetti e degli urbanisti a quella dei medici per un essere umano, con la conseguente assunzione di più alte responsabilità e, anche per essi,  di un codice etico comportamentale.

“Curare” il cuore e il corpo delle città mediterranee e di una città come Napoli richiede altresì un coordinamento ed un’assistenza – quasi una “manutenzione programmata” – anche dopo la puntuale realizzazione degli interventi progettati per la soddisfazione dei bisogni degli abitanti, prima citati.

Partendo dall’uomo occidentale, la vivibilità potrà essere sacrificata - se non distrutta – dall’affermarsi in maniera dissoluta delle idee di proprietà e di profitto ad ogni costo: Vivibilità come progetto significa tutelare innanzitutto il capitale sociale e le relazioni umane, e, da questo punto di vista, il Sud, il Mediterraneo, costituiscono un’efficace strumento di difesa.

L’apparente inadeguatezza delle medine e, in generale, delle città mediterranee nel loro insieme, la loro distanza da i centri industrializzati del Nord in cui vengono, spesso, decise le sorti economiche dell’Europa, ne fanno un punto di vista privilegiato: da “periferia apparente” queste città possono costituire il baricentro culturale dell’area euromediterranea attraverso cui riaffermare il valore indispensabile della vivibilità intesa come rispetto delle diverse identità sociali e umane che da elemento di conflitto devono trasformarsi in risorsa indispensabile per riequilibrare i rapporti e le distanze – all’interno della città stessa e tra le città – non soli in termini di “misura” ma soprattutto in termini di “valore”.

La “lentezza” tipica delle città mediterranee, specialmente del Sud, può essere un esempio con cui criticare la “eccessiva velocità” imposta dalla società dei consumi e costruire un modello di vivibilità fondata sulla valorizzazione e partecipazione del capitale sociale e delle relazioni umane.

Vivibilità come progettazione sociale quindi da attuarsi con l’impiego di molteplici professionalità: si tratta di una nuova “architettura sociale” in cui l’ “architetto della vivibilità” lavora in squadra avendo sempre chiaro l’insieme del problema, per evitare che eccessivi particolarismi specialistici possano distogliere l’azione dall’insieme della città.

La città di Napoli è ritenuta, a torto o a ragione, “invivibile”.

Quest’affermazione è semplicistica e risente di umori di antiche demagogie.

Il problema è più complesso. Napoli (orograficamente accidentata) è ancora oggi, un’estensione iperbolica nella quale si è radicata la falsa convinzione di poter pianificare isolando “pezzi della città”. Senza “vedere” il “corpo” della città stessa. Nel nostro caso un corpo antico, fragile e sensibile ad ogni mutamento che non coinvolga e protegga il “capitale sociale e le relazioni umane”; un corpo capace di reagire in maniera quasi “umana” alle sregolatezze che su di esso si attuano. È  come se la città si vendicasse delle violenze perpetrate su di lei.

Sono evidenti  i danni provocati dai cosiddetti interventi di riqualificazione urbana su “pezzi”[ii] del tessuto della città e la necessità di assicurare “vivibilità”  con una progettualità articolata. L’esempio, esposto nelle pagine precedenti,  dell’apertura del Rettifilo, che ha reciso l’antica articolazione del quartiere Pendino verso il mare; i nuovi edifici di via Marina, immemori della storia e della vita della città; l’interminabile barriera del porto, che – nonostante la iniziale eliminazione a Piazza Municipio – continua ad “isolare” i “centri” di Napoli dal proprio mare, sono ostacoli ad un progetto di vivibilità globale. Queste sregolatezze, i danni conseguenti e la “vendetta” operata dalla città sono sotto gli occhi di tutti. All’iniezione di programmi economici, utilizzati in gran parte per alimentare inutili quanto egoistici interessi, non è corrisposta l’iniezione di programmi culturali capaci di valutare la storia, i bisogni della città e il suo inestimabile patrimonio umano e relazionale.

La vivibilità è la linfa vitale dei “centri” di Napoli, perché questa città ha una storicità policentrica. Il rapporto di Napoli con la storia è anzitutto un rapporto con la propria memoria ed i propri simboli. In molti casi è splendido. In altri ricade nello storicismo che ha prodotto e produce, come già accennato, solo  “architetture di accompagnamento” prive di vita (e di vivibilità!) laddove è indispensabile avere “architetture di sostegno”. C’è un problema di produzione dei luoghi della città avendo la consapevolezza che Napoli è fatta di parti in continuo rapporto con un insieme, ognuna delle quali ha un proprio “centro”. Non è possibile perciò parlare di un “unico centro”. La sua storia è stata talmente densa da determinane diversi. Come, per esempio, piazza Mercato, piazza San Domenico Maggiore, piazza Municipio, piazza del Gesù, l’antico Largo di Palazzo – oggi  piazza Plebiscito. Questi luoghi hanno costituito – e costituiscono – ciascuno a proprio modo, un “centro”, la cui importanza è dipesa dallo sviluppo della città e dal modo con cui si amministrava.

La tipologia dei baricentri mutava col susseguirsi dei periodi storici, durante i quali la città ha avuto espansioni diverse. Come pure si modificava il rapporto tra gli stessi centri ed il porto. O i porti. Osservando, tra le tante carte di Napoli, quella elaborata da Antimonio Bulifon nel 1685, appare evidente il naturale collegamento tra i “centri” della città e i suoi “porti”; il porto di Chiaia, quello di Santa Lucia, il Molo Grande e la Lanterna, i piccoli attracchi di piazza Mercato e Mergellina, i porticcioli di Nisida, Miseno, Pozzuoli.

Ciascun centro di Napoli era legato al suo porto – e quindi al Mediterraneo – anche attraverso i mestieri di artigiani, maestri d’ascia, salatori, calafatori; ed ancora da luci, odori, suoni, sapori, reti, imbarcazioni, boe, funi, bitte, empori.

Questi legami assicuravano, allora, la vivibilità dei luoghi della città in rapporto allo sviluppo sostenibile che comprendeva, purtroppo, anche fondaci maleodoranti e sovraffollati che spinsero al Risanamento.

Un’analisi storica comparata consente oggi, una volta realizzati gli interventi ipotizzati per soddisfare  i bisogni della città partendo dal suo “centro antico” e dai suoi “centri” (definiti, simbolicamente, medine) di redigere un quadro logico spiega  quale esempio di buona pratica da utilizzare in casi analoghi e da diffondere in altre città. Dimostrare gli obiettivi perseguiti e le azioni realizzate  consente di programmare e guidare lo sviluppo sostenibile nella medina e nel resto della città.

 

Città del domani  e sviluppo sostenibile
Lo sviluppo sostenibile riprende per conto suo una lotta secolare per la giustizia e la democrazia coniugandolo con delle preoccupazioni nuove: la nozione d’interesse generale estesa al nostro ambiente e al futuro delle generazioni a venire, allargando il campo dei processi democratici alla partecipazione cittadina e alle scelte tecnologiche che condizionano le società.

Società che, in un’era definita postindustriale – caratterizzata dall’espansione dei servizi, dell’informazione e della comunicazione – sono lontane dall’aver risolto i problemi di povertà, di salute, di ingiustizie e di disuguaglianze sul piano delle opportunità e delle risorse disponibili.

Sviluppo sostenibile significa, quindi, dare prioritariamente risposta a questi problemi legati innanzitutto ai diritti umani, attraverso lo strumento della “democrazia” che, proprio mentre a livello mondiale si acuiscono problemi sociali ed economici, sta diventando sempre di più un valore universale.

Un ruolo importante in questo processo di democratizzazione è affidato alla nuova tecnologie di comunicazione ed all’informazione. La mancata diffusione di omogenei e democratici funzionali sistemi di comunicazione contrasta con il peso che ha l’informazione: con la rapidità con cui essa circola, con la penetrazione che ha e la velocità con cui può essere utilizzata. Questo stato di cose da una parte scatena competizione, dall’altra genera continua dissonanze sul piano cognitivo alimentando – come un incendio infinito – le enormi contraddizioni che attraversano la vita del nostro pianeta.

Architetti e urbanisti, un tempo “unici” gestori della pianificazione delle città e, specialmente, dei centri storici ed antichi e – in quanto tali – inconsapevoli “creatori” di strategie e strumenti per lo sviluppo, non possono oggi fare a meno di valutare prioritariamente i sistemi di comunità, coniugando il particolare con il generale, il locale con il globale in un’ottica di architettura globale che prima di tutto deve tener conto della comunità locale/globale e dei problemi emergenti.***

Per risolvere le crisi in atto – quali ad esempio: l’emergere di un individualismo che valorizza la competizione e, con essa il “primato della forza”; la diffusione di problemi ambientali quali la siccità, il buco dell’ozono, il processo di desertificazione, ecc; l’aumento della fame e della povertà in molte parti del mondo; la mancanza del rispetto dei diritti umani, ecc. – occorrono da un lato teorie sociali, politiche ed economiche più “adeguate ad una strategia di sviluppo che trovi nello sviluppo di comunità il suo punto di riferimento centrale” (Newbrough, 1989).

Il bisogno di comunità, del “capitale sociale e umano” è oggi, specialmente per le città mediterranee, indispensabile per la realizzazione dei processi democratici di sviluppo delle città stesse. In altri termini non solo gli individui hanno bisogno di comunità, ma è la società stessa – a livello dei “nuclei – base”  - che rischia di cadere a pezzi se non può contare su comunità locali capaci di permettere ai cittadini di partecipare attivamente alla vita sociale e politica, di trovare attraverso la connessione con gli altri e la partecipazione attiva, un senso per la propria esistenza e di concorrere alla costruzione positiva del futuro.

Dal termine “comunità” deriva la parola “Comune”, con cui definiamo oggi città medio-piccole e, per analogia, potrebbero definirsi i quartieri delle grandi città: dal punto di vista architettonico-urbanistico, antropologico, culturale e sociologico-psicosociale sono ambiti territoriali favorevoli allo sviluppo sostenibile di processi comunitari in quanto spazi privilegiati per la partecipazione dei cittadini.

In questi luoghi, - e non spazi! – esistono infatti vincoli comuni, interdipendenze, attività economiche e servizi comuni, influenze reciproche, una o più identità e culture condivise, associazioni di varia natura; elementi fondamentali per lo sviluppo delle comunità a condizione che le persone, i gruppi, il governo locale e gli operativi si impegnino affinché vengano rese possibili le relazioni sociali e comunitarie attraverso un processo di totale democrazia.

Questa strategia è l’unica per perseguire uno sviluppo sostenibile ed assumere al tempo stesso, un altro valore importante: contro la legge dei mercati e dei mercanti, contro i miti del primato economico e dell’individualismo,  contro i legami locali intesi come appartenenza e clientelismo, contro i tentativi dell’omologazione globale sono proprio i valori dell’identità personale, culturale e sociale ad assicurare l’esistenza stessa delle comunità.

Proprio nelle principali città mediterranee assistiamo oggi ad un bisogno di radicamento, di avere radici: lo dimostra l’insorgenza del fenomeno dell’associazionismo, del volontariato, di una particolare “etnicità”.

Ciò lo si riscontra specialmente nelle medine dove si riconoscono attività pratiche e materiali capaci di ristabilire legami sociali e simbolici, di rigenerare un senso comune di appartenenza per ricolmare le fratture tra i comportamenti di produzione degli spazi della città (e non i luoghi), di consumo, di residenza (spesso nelle periferie): ricompensando, in questo modo, il senso unitario del vivere.

I Comuni, le Città e le Autonomie locali devono costituire, quindi, il luogo del vivere insieme attraverso uno sviluppo sostenibile che risponda ai bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di rispondere ai propri.

Gli strumenti per questa strategia di sviluppo sono anche di natura legislativa.

Per esempio in Italia sono occorsi più di quarant’anni per tradurre in pratica il dettato costituzionale. La legge 142 dell’8/06/1990 (Nuovo ordinamento delle autonomie locali) riprende l’emendamento che il deputato socialista Tristano Codignola presentò nella seduta del 27 giugno 1947 tendente a rafforzare il ruolo delle autonomie locali: “La Repubblica Italiana riconosce le autonomie locali nel quadro della propria inscindibile unità, mediante un largo decentramento di funzioni e servizi: esso avvicina l’Amministrazione ai cittadini, promovendone la responsabilità democratica”. L’emendamento non fu accolto, ma quell’espressione era così chiara e così vicina allo spirito di Stuart Mill: “Senza istituzioni locali una nazione può darsi un governo libero ma non lo spirito di libertà”.

Il destino del Mediterraneo è affidato alle sue città e alla capacità di collegamento tra esse. Da questa capacità di gettare, costruire e gestire reti, di intessere collegamenti, si determinerà lo sviluppo e il futuro di quest’area geografica. Le città del Mediterraneo: mille volti e mille storie, differenti colori e culture, degradi, violenze, progetti, vari livelli di ripresa, periferie che soffocano i centri storici, debolezza delle istituzioni nel governare. Queste città (come ogni altra città) sono nate per libera volontà degli uomini e, come gli uomini, crescono, vivono, si ammalano, guariscono o muoiono.

 

Un compito essenziale è quello dei sindaci: essi potrebbero essere definiti come edificatori, costruttori delle città e gestori dell’enorme sistema di relazioni umane e sociali. Questi uomini dovrebbero operare in tal senso anche in situazioni difficili. Il conformismo dei loro predecessori era un atteggiamento più facile, perché non li costringeva a esporsi. Adesso, quando si agisce in pubblico e per il pubblico e quando si costruisce bisogna rischiare ed esporsi, ma, soprattutto, rendere conto a tutti.

Il Mediterraneo sembra proprio tornare al tempo in cui le città avevano un ruolo fondamentale. Assistiamo al risveglio di una volontà nuova da parte delle sue principali città che vogliono diventare protagoniste della politica del Mediterraneo, sebbene la rete di questa città non sia ancora operante come al nord Europa. Si tratta infatti di una sfida, da cui le città ottengono due risultati essenziali: il recupero della propria identità, attraverso la valorizzazione del capitale sociale e umano e l’accelerazione di un’integrazione culturale che può trasformare molte di loro in elemento portante per l’indispensabile partenariato tra Nuova Europa e Mediterraneo.

In questi ultimi tempi abbiamo assistito al risveglio di una volontà nuova da parte delle principali città mediterranee tese a sviluppare politiche di piano; molte finalmente “si parlano”, cercano insieme di affrontare problemi comuni trovando soluzioni adeguate. Alcune hanno una struttura particolare: un’orizzontalità ed una verticalità collegate con la loro storia; altre hanno una grande profondità verticale, una stratificazione che è al tempo stesso ricchezza e angoscia: è il caso di Napoli, Marsiglia, Alessandria e Costantinopoli. Le città del Mediterraneo sono quasi tutte afflitte da una grave malattia.

 La “cura”, la sfida è passare da una irrazionale fase quantitativa a un progetto qualificativo che recuperi e razionalizzi l’esistente: soprattutto in termini di capitale sociale e relazioni umane. Esse offrono un volto comune: il volto devastato da decenni di malgoverno e di assenza assoluta di professionalità e progettualità. Cultura e patrimonio, capitale sociale e umano, qualità della vita, ambiente e comunicazione, strategie di sviluppo economico: questi i temi su cui si costruirà il destino delle città mediterranee.



* di Michele Capasso



[i] Calvino, “ La città e i segni”, p. 6-7

[ii] Capasso,  “Napoli: centro storico e politica di piano” 197,