28 maggio 2004
di Arianna Di Genova
La Madonna con il bambino
“nutritore”, che distribuisce una manna ai fedeli, straordinaria icona del
Duecento, amata, studiata, pregata, simbolo di un grande patrimonio artistico,
non esiste più. Al suo posto c’è un buco nero fuliggine: ha preso fuoco insieme
alla chiesa che la ospita, Bogorodica Ljeviska di Prizren, ed è stata
volutamente scalpellata e mutilata nelle sue parti inferiori. L’immagine,
proposta sul sito www.salvaimonasteri.org,
con un inquietante paragone – com’era prima e come si presenta adesso – fa
sussultare chiunque si fermi a guardarla. Non c’è bisogno di essere storici
dell’arte per lanciare l’allarme e gridare all’orrore.
Da ieri, sono a Roma due monaci
ortodossi venuti dal Kosovo, per testimoniare con le loro parole le distruzioni
dei monasteri cominciate nel 1999, dopo l’intervento della Nato e riprese con
estrema violenza nel marzo 2004: almeno trenta sono gli edifici devastati
dall’ex Uck (la formazione armata kosovaro-albanese formalmente disciolta, la
cui sigla campeggia sinistramente sulle rovine dei monasteri), durante la
recrudescenza degli scontri, con conseguente epurazione etnica (di serbi e rom),
morti e centinaia di feriti, mentre a Belgrado finiva in fiamme, in risposta
all’attacco, la principale moschea della città.
In questi quattro anni, sono
andate letteralmente in fumo – vi è stato appiccato il fumo o sono state fatte
saltare in aria con esplosivi – 140 chiese, con tutto il loro corredo di
oggetti liturgici e i loro cicli di affreschi, considerati tra i documenti più
importanti della cultura bizantina. La violenza contro i luoghi sacri è diretta
non ad una appartenenza religiosa ma a una identità, alla memoria di un Kosovo
culla della civiltà serba, che ospita, insieme a Costantinopoli e Salonicco, le
maggiori testimonianze, architettoniche e figurative dell’arte bizantina.
È così che un comitato, dal
significativo nome “Salva i Monasteri”, ha invitato Sava Janijc e Andrei Sajc,
giunti dal Monastero di Decani, a raccontare la distruzione sistematica della
storia messa in atto sotto gli occhi di 20mila soldati dell’Onu. Alla base c’è
l’appello lanciato da Massimo Cacciari: “Il Kosovo ospita opere d’arte di
straordinaria importanza per la vicenda europea. La distruzione di un edificio,
di quegli affreschi equivale al massacro di San Marco e Sant’Apollinare a
Ravenna. È la stessa area paleocristiana influenzata da Bisanzio. Per noi, i
cicli pittorici serbo-ortodossi sono diecimila volte più significativi dei
Buddah di Barmiyan”. Poi l’intenzione è cresciuta e il documento si è
trasformato in un’iniziativa spontanea ed è stato firmato da centinaia di
personalità della cultura (fra questi, gli storici dell’arte Valentino Pace e
John Lindsay Opie) e della politica. Esiste anche un’interrogazione dei Verdi
sottoposta al ministero degli esteri e della difesa italiana, condivisa oggi da
più parlamentari di diversi schieramenti. L’appello, cui partecipano anche
l’Istituto centrale per il restauro e l’Ong Intersos, già da tempo attivi sul
territorio, è rivolto alla comunità internazionale affinché cerchi di salvare
quanto più possibile. L’Unesco ha visitato i siti devastati in aprile e sta
preparando una relazione mentre il ministero per i beni culturali comincerà i
primi lavori a Decani a metà giugno.
Attualmente, le truppe italiane
in missione in Kosovo (Kfor) presidiano e tutelano i tre maggiori monumenti: il
complesso di Pec, Gracanica e Decani. Ma, come spiega lo storico John Lindsay
Opie, “tre siti, pur eccezionali, non sono tutto. È come se venisse salvato
solo San Marco a Venezia e qualche basilica ravennate, lasciando tutto il resto
andare alla deriva. Ci sono chiese di cui non è rimasta neanche una pietra, che
non si potranno restaurare mai più, sono sparite”. Non solo cattedrali ma anche
teatri, biblioteche, cinema, cioè edifici di culto e più propriamente
culturali, sono andati in rovina. È un patrimonio dell’umanità intera che
rischia di estinguersi, un tesoro dell’arte medioevale europea che va dal XII
al XV secolo.
A Prizren, in marzo, dopo varie
profanazioni, è stato appiccato il fuoco alle chiese di Bogorodica Ljeviska –
il cui nartece conserva l’importante galleria dei ritratti dei Nemanja dell’inizio
del Trecento – e di st. Georgy. La cattedrale della Madonna Ljeviska, con i
suoi affreschi di valore inestimabile, era stata sguarnita di protezione dal
presidio tedesco. Valentino Pace, docente di arte medievale all’università di Udine, ha commentato così
la notizia del danneggiamento del ciclo figurativo: “Questi affreschi sono un
capolavoro assoluto. Si potrebbe dire cha hanno la stessa rilevanza della
Cappella degli Scrovegni a Padova. I ritratti della dinastia regnante serba, i
Nemanja, risalgono al XIV secolo: vi sono rappresentati il fondatore della
dinastia, Simeone, divenuto monaco sul monte Athos e altri esponenti della sua
famiglia, vescovi e re. L’altro affresco importantissimo è la Madonna col
bambino cosiddetto “nutritore” (oggi un testo pittorico divenuto illeggibile,
secondo quanto pubblicato sul sito di “Salva i Monasteri”, ndr.). il soffitto
ligneo che li sovrasta è bruciato provocando danni ingenti al patrimonio
sottostante: sembra essersi miracolosamente “conservata”, interamente, la
figura centrale di re Simeone.
Tra gli altri luoghi, Devic
(secolo XIV) è in rovina, il Monastero di Sant’Arcangeli è stato attaccato e
distrutto, gli alloggi devastati, i suoi “abitanti” dormono ancora sotto le
tende e si sta pensando come ovviare al rigido inverno kosovaro.
Il monaco serbo-ortodosso Sava
Janijc, nella conferenza romana, ha tenuto a sottolineare con forza che “gli
attacchi sono sistematici, fanno parte di un progetto di cancellazione di una
cultura. Non stiamo parlando di una distruzione avvenuta in guerra ma di
qualcosa che viene perpetrato “dopo”, contro i monumenti della cristianità e
nonostante le truppe della Nato e le Nazioni Unite. Quella che va perduta è la
coscienza di una civiltà, la sua memoria. È necessaria allora una mobilitazione
internazionale ma tutto dipende dalla stabilità e sicurezza che si potrà dare
in seguito al Kosovo. È inutile ricostruire o restaurare un patrimonio se poi
questo viene ridotto in macerie nel giro di qualche mese”. E soprattutto senza
i serbi cacciati dal territorio kosovaro.