CORRIERE DEL MEZZOGIORNO

3 novembre 2004

 

 

“Il Corano non serve a spiegare Al Qaeda”

di Jessica Fraser e Massimo Galluppi

 

 

Fred Halliday, uno dei più eminenti studiosi del mondo arabo contemporaneo, inaugurerà oggi pomeriggio alla Fondazione Laboratorio Mediterraneo un ciclo di dieci seminari sul Medio Oriente. Come molti intellettuali europei della sua generazione, Halliday è decisamente contrario alla politica mediorientale degli Stati Uniti; ma la sua critica investe più in generale il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. Capace di esprimersi senza difficoltà in arabo (in questa lingua interviene regolarmente su Aljazeera), grande conoscitore della scena meridionale e dei personaggi politici che la animano, le sue riflessioni sull’Iraq, sulla Palestina, sull’Iran, su Al-Qaeda, sul problema dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea o sul ruolo dell’Europa nel conflitto israeliano-palestinese sono di straordinaria attualità e meritano la più grande attenzione.

 

A oltre un anno e mezzo dal crollo del regime di Saddam Hussein, la situazione in Medio Oriente appare più incerta che mai. La rimozione di Saddam avrebbe dovuto aprire una nuova fase di maggiore stabilità nella storia di questa regione, ma apparentemente è accaduto il contrario. Qual è la sua opinione in proposito?

Saddam Hussein una volta ha detto: “Ci si può anche sbarazzare di me come presidente ma quando me ne sarò andato ci sarà bisogno di almeno sette presidenti per tenere a bada questo paese”: una specie di versione irachena delle parole di Luigi XV: “Dopo di me il diluvio”.

La situazione potrebbe migliorare ma occorre tenere conto del fatto che la caduta di Saddam ha avuto alcune conseguenze non previste. La più importante è il grande rafforzamento dell’Iran, il tradizionale rivale dell’Iraq. Un alto diplomatico arabo mi ha detto recentemente che in Iraq non sono gli Stati Uniti, ma l’Iran la potenza occupante; una potenza che esercita la sua influenza dalle frontiere occidentali della Cina fin dentro il Libano dove i suoi alleati, gli Hezbollah, sono la principale forza politica e militare. Ero a Beirut qualche mese fa e lì ho incontrato i capi di questa organizzazione. Mi ha sorpreso il fatto che discutessero con me apertamente dei loro legami con l’Iran e che fossero disposti ad ammettere che tutte le più importanti decisioni che riguardavano il loro gruppo erano prese dal leader spirituale radicale iraniano, l’ayatollah Kamenei.

Anche la Turchia ha accresciuto la sua influenza in Iraq. Con un contingente di cinquemila uomini installato permanentemente nel nord del paese e con la possibilità di inviarne, se necessario, molti di più, la Turchia è la potenza con il maggior potere di interdizione in Iraq. Per la verità anche Israele è convinta di far parte della categoria dei vincitori, grazie alla caduta di Saddam. Ma la sua è una pericolosa illusione. Sharon ha giocato molto male le sue carte e per colpa sua vi saranno altre giornate nere nel futuro di Israele.

         Il Medio Oriente sembra essere ancora una volta il principale focolaio di tensioni della politica mondiale; tensioni destinate a durare e ad avere un fortissimo impatto sulla situazione interna di molti paesi dell’Occidente. Quali sono, secondo lei, le principali conseguenze della crisi medio-orientale sulla situazione internazionale nel suo complesso?

Il Medio Oriente è un’area di decisiva importanza strategica per molte e ovvie ragioni: soprattutto perché è l’area di crisi più vicina all’Europa e perché è  la maggiore riserva di petrolio e di gas naturale del mondo. Per molti decenni sarà ancora così ed è molto probabile che la dipendenza dell’Europa nei suoi confronti aumenterà nei prossimi vent’anni.

Inoltre, negli ultimi decenni il Medio Oriente è stata la causa più o meno diretta di gravi crisi politiche interne allo stesso Occidente. Sia l’Europa che gli Stati Uniti, sono sempre stati molto vulnerabili alle crisi medio-orientali e continueranno ad esserlo: a causa del petrolio, del terrorismo, degli immigrati e delle armi di distruzione di massa. Infine, dovremmo riconoscere – cosa che raramente facciamo – che è dal Medio Oriente che sono venute le scintille che hanno fatto esplodere l’Europa nel ventesimo secolo. L’evento di un regime militare radicale in Turchia nel 1908, quello dei Giovani Turchi, condusse alle guerre dei Balcani del 1911-1913, che a loro volta furono una delle scintille che provocarono lo scoppio della guerra europea del 1914-1918; e fu la Prima Guerra Mondiale che, con il suo impatto in Russia e poi il suo clima politico e ideologico dell’Europa del dopoguerra a modellare i conflitti del ventunesimo secolo fino al 1991. coloro che sono così pazzi o hanno la vista tanto corta da sostenere che la Turchia dovrebbe essere esclusa dall’Europa non si rendono conto che questo paese è già stato parte dell’Europa e continuerà ad esserlo.

         Torniamo alla situazione attuale. Qual è lo stato delle cose, dopo l’11 settembre e l’invasione americana dell’Iraq?

Penso che per capire la crisi che sconvolge oggi il Medio Oriente e compromette le sue relazioni con l’Occidente, sia utile servirsi della famosa distinzione operata dalla scuola storica degli Annales tra breve, medio e lungo periodo. In una prospettiva di breve periodo (évenementielle) le principali crisi da affrontare riguardano quattro Stati: Iraq, Palestina, Afganistan e Arabia Saudita, per non parlare del confronto, potenzialmente esplosivo tra Stati Uniti e Iran sulle armi nucleari.

In una prospettiva pluridecennale – nell’ambito di quello che era per gli Annales è un “contesto congiunturale” – sono due le cose di cui dobbiamo preoccuparci. Innanzitutto, il terrorismo e la conseguente e mal congeniata risposta americana e poi il problema delle risorse energetiche. Poiché è poco probabile che nei prossimi vent’anni si scopra un sistema diverso dalla combustione per far muovere le automobili e vengano alla luce nuovi giacimenti di petrolio e di gas naturale fuori dal Medio Oriente, l’Europa e il mondo nel suo insieme, compresa una Cina sempre più affamata di energia, dipenderanno per i loro rifornimenti dalle riserve del Golfo (per il petrolio) e del Nord Africa (per gas naturale).

Quanto alla terza dimensione temporale, quella della longue durée, si tratta del sistema di relazioni tra l’Islam e Occidente. Per quanto riguarda il profilo culturale, ho letto molto sullo “scontro di civiltà” e sulle sue radici, e molto ne ho sentito parlare. Ma, come ho argomentato nei miei libri penso che, storicamente e politicamente, questo sia falso, e per di più un falso irresponsabile e pericoloso.

Naturalmente è essenziale non equivocare sulla natura di Al Qaeda e del terrorismo islamico. Il terrorismo può apparire irrazionale e distruttivo, ma il comando e il controllo del terrorismo, così come i suoi scopi, sono razionali. In questo senso il terrorismo, come la guerra, è “la prosecuzione della politica con altri mezzi”. La strategia politica di Al Qaeda è chiara: colpire il più duramente possibile l’Occidente come mezzo per avere l’appoggio del mondo musulmano nella conquista del potere di un certo numero di paesi. Non si potrà mai capire Al Qaeda estrapolando qualche citazione del Corano, bisogna vederla nel suo contesto politico e alla luce dei suoi obiettivi politici.

         Come dovrebbe reagire l’Occidente di fronte a questa monaccia? Gli Stati Uniti hanno proclamato dopo l’11 settembre “Guerra contro il Terrorismo”, e già recentemente Bush ha annunciato una “Grande iniziativa in Medio Oriente”…

La minaccia militare deve avere una risposta militare. Ma bisogna anche cercare di capire perché la minaccia è nata e si è estesa, e quali sono le responsabilità dell’Occidente e in particolare degli Stati Uniti. Per quanto riguarda il problema delle riforme in Medio Oriente, questa è una prospettiva condivisa da molti nel paesi arabi e io arriverei fino al punto di dire che alcune delle proposte contenute nella “Grande iniziativa” di Bush sono sensate anche se fatte con molto ritardo. Ma per le riforme occorre tempo, inoltre, funzionano quando si tratta di iniziative interne ad una società o a uno Stato, non quando vengono all’estero. Per esempio, vi è un’enorme domanda negli Stati del Golfo di governi onesti e di controlli efficaci nelle finanze pubbliche. Questo a causa della convinzione diffusa che le prospettive di lavoro stiano diminuendo a causa dell’appropriazione, anzi del furto, della maggior parte delle risorse derivanti dal petrolio e dagli investimenti esteri da parte di élites irresponsabili. Allo stesso tempo, il livello di ostilità nei confronti degli Stati Uniti è tale che anche riforme ben intenzionate, come i diritti delle donne o la trasparenza bancaria, sono rifiutate perché proposte dallo Stato che ha sempre incondizionatamente sostenuto Israele”.

Al-Qaeda, Iran, Iraq e Palestina: questi, dunque alcuni dei principali fattori di crisi. Soffermiamoci sulla Palestina: ci può dire qualcosa di più sulla possibile evoluzione della crisi palestinese in un prossimo futuro?

Non vedo nessuna possibilità di ritorno ad un negoziato che possa dare qualche risultato, o a qualcosa che possa essere definito un “processo di pace”: non fino a quando, da entrambi i lati, la leadership politica sarà quella attuale. E’ mia opinione che una possibilità di pace vi sia stata dopo gli accordi di Oslo del 1993 ma nei processi politici, come in amore e negli affari, occorre fortuna e tempismo. A partire dal 2000 e soprattutto nel 2004, non vi è stato altro che guerra ad oltranza; una guerra nella quale, per la prima volta è sempre di più coinvolto tutto il mondo arabo-islamico.

In realtà, vi è ben poco che il mondo esterno possa fare per fermare questo conflitto e, a mio avviso è disonesto parlare di “road map” o di “processo di pace” perché ciò serve solo a legittimare uno stato di guerra. Sharon non ha alcuna intenzione di consentire la nascita di uno Stato palestinese indipendente. Per quanto riguardai Palestinesi, la piccola comunità di politici e di intellettuali favorevoli alla soluzione: “un territorio, due Stati”, è stata completamente travolta da una più vasta corrente di opinioni tornata alle certezze militari del periodo precedente al 1967, ossia alla distruzione dello Stato di Israele. Inutile chiudere gli occhi di fronte alla realtà: vi potranno essere dei cessate il fuoco o altre iniziative del genere, ma quello a cui stiamo assistendo è uno scontro all’ultimo sangue.

Vi è un ruolo particolare che l’Europa potrebbe svolgere in questo scenario di crisi così complesso?

Penso che, invece di comportarsi passivamente o farsi paralizzare dalle difficoltà, oppure appoggiare o cercare di contrastare senza molto successo la politica americana, l’Europa potrebbe e dovrebbe avere una politica attiva e indipendente, a breve, medio e lungo termine.

A breve e medio termine, l’Europa deve impegnarsi stabilmente affinché la transizione politica in Iraq si concluda con successo. Non si tratta di sapere se deve o non deve inviare delle truppe – la cui importanza militare sarebbe comunque relativa – così come non serve limitarsi a strepitare “contro la guerra”. Il popolo iracheno ha bisogno di essere aiutato e noi questo aiuto glielo dobbiamo dare, se si tiene conto del fatto che tutte le maggiori potenze occidentali – in un certo senso tutto l’Occidente – hanno sostenuto la dittatura di Saddam Hussein per trentacinque anni.

A lungo termine il problema è quello delle relazioni con il mondo mussulmano. In Europa dobbiamo riflettere con cura su cosa intendiamo per “laicismo” e sui limiti che vogliamo imporre alla religione nella vita pubblica. Il laicismo è, in senso lato, parte della concezione europea della legalità e della democrazia, ma deve essere riesaminato criticamente alla luce delle idee contemporanee di diritto e di pluralismo. Noi dobbiamo ricordare ai Francesi che non sono i soli, e non sono stati necessariamente i primi, a proporre l’idea di laicità (laicité) nella politica moderna! Insomma, dobbiamo avere una politica comune europea sulla laicità, a livello legale, politico e culturale, e prima l’avremo e meglio sarà. Soltanto così le comunità mussulmane che vivono in Europa e il mondo mussulmano nel suo insieme capirebbero (e noi stessi capiremmo) qual è la nostra posizione.

A questo scopo è chiaro che dovremmo sbarazzarci dei miti che si sono radicati nella vita accademica e pubblica europea a proposito delle relazioni dell’Europa con il mondo islamico. Innanzitutto, dell’idea che, storicamente, l’Europa abbia definito se stessa in contrapposizione all’Islam. E poi che l’Islam è estraneo all’Europa. Infine, che, oggi come in passato, l’Europa deve affrontare un periodo che qualcuno definisce seriamente come una “minaccia islamica”. E soprattutto, dovremo liberarci dell’idea che nell’Islam come religione è in qualche modo insita la violenza contro l’Occidente, contro l’Occidente in quanto tale.