"IL DENARO"

7 marzo 1998

L’Est e la globalizzazione

di Michele Capasso

Roma, 23 febbraio 1997. Incontro alcuni scrittori e poeti dell’Est. Vengono dalla Polonia, dalla Romania, dalla Georgia, dalle Repubbliche della ex Jugoslavia. "L’Europa è ancora difficile da costruire – mi dice Luan – perché non esiste una vera cultura della diversità. Noi, cittadini dell’Est, abbiamo assistito increduli e rassegnati ad una inutile competizione prevedere e programmare l’occidentalizzazione dell’Est non solo di quello europeo, ma anche di quello lontano per esempio della Russia, il mio paese. Vi è stata un’enorme confusione mentre da un lato, dopo la caduta del muro di Berlino, è stato facile misurare i desideri delle genti dell’Est, incantate dal consumismo occidentale, dall’altro è molto difficile, ancora oggi, valutare e ponderare i nostri sentimenti, i bisogni, le paure, le insicurezze. Per fare questo occorre cultura e rispetto in Europa ve ne sono sempre di meno". Ascoltando le voci e leggendo le sensazioni di molti amici dell’Europa dell’Est e del paesi della riva Sud del Mediterraneo, appare all’orizzonte un nuovo nemico la globalizzazione, o mondializzazione. Dopo la caduta del muro di Berlino, alle speranze ed alle manifestazioni di gioia sono seguite delusioni e frustrazioni. Soprattutto nell’Europa dell’Est e nei Balcani, ferite vecchie e nuove stentano a rimarginarsi. Quello che con superficialità viene chiamato "panslavismo" (se ci si riferisce ai popoli slavi d’Europa) o "nazionalismo" (se parliamo di altri popoli) è spesso solo un tentativo di riancorarsi al passato per non affondare nelle sabbie mobili della legge crudele del mercato globale. Nella sua recente visita a Roma, Eltsin ha dimostrato la volontà di volersi legare all’Occidente costituendo una grande famiglia mondiale. Eppure in Russia la nostalgia di una patria, di un’identità o di un interesse nazionale è scomparsa nei tentacoli della presunta "riforma" capitalistica. I socialdemocratici, come il Sindaco di Mosca Luzhkov, i russi del neoliberismo, gli estremisti di destra e di sinistra, i seguaci della Chiesa ortodossa e i fautori del nuovo capitalismo si scoprono tutti "molto più russi" di quanto non fossero all’inizio del 1922. Tutto ciò non va interpretato come una posizione politica né come una sbornia nostalgica. Questi fenomeni – attaccamento ossessivo alla lingua, alle tradizioni, ai costumi, alla religione, al modello politico, ecc – possono apparire oscuri, arcaici, regressivi, o, peggio ancora, generativi di scempi cupi, di ciechi nazionalismi o di vagheggiamenti di ritorno al comunismo. Tutto ciò sarebbe vero se vi fosse ancora un mondo bipolare, con qualche nazione capace di utilizzare e strumentalizzare queste delusioni. Per il prossimo futuro si può escludere questa ipotesi. Oggi i popoli, in gran parte, si fanno una guerra caratterizzata dalla competitività dei mercati e dalla capacità di attrarre risorse e sviluppo. Se ci sarà un nuovo polo, sarà quello cinese ma è troppo diverso e lontano dall’Europa e dal Mediterraneo per condizionarne, sin d’ora, le sorti future. Esistono due pericoli per il Mediterraneo e per la nuova Europa allargata ad Est il primo è il lento, inesorabile degrado di culture e di popoli, spesso troppo deboli per inserirsi nel turbine ossessivo della globalizzazione, che fa tremare e fibrillare anche i ‘grandi’ il secondo è costituito dalla sconfitta della borghesia filoccidentale, in qualche modo garante del processo di occidentalizzazione. Il Mediterraneo oggi è vittima di un nuovo inarrestabile processo la globalizzazione. Quest’area tanto piccola (è appena il 3% dell’Oceano Atlantico e poco più dell’1,5% del Pacifico) è stata da sempre ritenuta la culla di tutte le civiltà, il "centro culturale" del mondo, il punto di riferimento di tutte le nazioni del globo. La perdita di tale ruolo crea frustrazioni e fantasmi. Ma anche orgoglio. In Serbia per esempio – denominata oggi Repubblica Federale di Jugoslavia – antiche illusioni si accompagnano al nuovo isolamento. Il Paese sembra ritornare a modelli di vita arcaici, e, nell’ombra, cova il pericolo di una nuova pulizia etnica nel Kossovo: una tragedia immane che riporterebbe la Serbia indietro nella Storia.

Trieste 24 gennaio 1998. Si conclude la IX edizione degli "Incontri di Alpe Adria Cinema" ai quali la Fondazione collabora da tre anni assegnando il Premio Internazionale Laboratorio Mediterraneo ai vincitori. Quest’anno la rassegna è dedicata in gran parte ad opere di registi serbi. Per la prima volta, nella sezione "Onda nera", viene proiettato "WR – Misterije organizma" (I Misteri dell’organismo) di Du"symbol 154 \f "Arial" \s 14"an Makavejev un film tra i più censurati che racconta lo spaccato di una società oppressa e al tempo stesso vitale. Oggi i Balcani sembrano lontani, emarginati da quel Mediterraneo creativo e generatore di arte, creatività, genio. Schiacciati dalla globalizzazione si sentono senza passato la reazione è una rabbia composta che genera nuove idee-guida quali la fede ortodossa, il rifiuto della modernità (e della globalizzazione), la famiglia. Ciò che accade nel Sud-Est dell’Europa, fra i popoli affacciati su un mare che è sempre di più una griglia verso l’Occidente, è qualcosa che va in direzione opposta a quella della globalizzazione o modernità. Vi è il rifiuto – da parte di popoli vicinissimi a noi – dei nostri modelli. Makavejev dice "Nel mio Paese si ritiene che non potendo essere come loro (gli occidentali), tanto vale essere noi stessi; come possiamo, come vogliamo, come eravamo". Ecco il problema. Mentre si parla di "grande Europa" allargata ad Est, molti popoli guardano con nostalgia al passato. Se nell’Occidente industrializzato esistono società che si rifanno più o meno legittimamente ad altri modelli o a periodi storici precedenti – penso al gollismo in Francia o al fascismo da noi in Italia –, nei Balcani non esiste il passato politico se non in termini di etnie o reami (il re in Albania e Romania e così via). Oggi a Belgrado uomini come Vojslov Seselj – che per una manciata di voti non ha conquistato la presidenza della Serbia – rifiutano con forza i modelli economico-politici occidentali. Molti di loro predicano che l’ingresso tra i grandi costerebbe troppo alla loro gente, soprattutto in termini di orgoglio e di identità vale la pena, allora, tornare all’idea di "zadruga", del gruppo, della famiglia, della tribù, unico modello d’organizzazione sociale cui riferirsi. Nei Paesi della ex Jugoslavia le frustrazioni per una guerra voluta, combattuta, vinta e persa nella storia stimolano ritorni al passato. A Belgrado la povertà inflitta dalle sanzioni alimenta miti perduti del passato illuminati solo dalla disperazione e dall’angoscia. Anche nel Sud del nostro mare, dall’Algeria al Libano, la paura del nuovo, del confronto, del libero mercato e del modello occidentale non si coniuga con la tradizione e la religione. La tolleranza non basta più. Occorrono cultura e rispetto. Il dialogo interculturale deve essere considerato non come cura, ma come prevenzione. Per un futuro dove la globalizzazione diventi non un nemico, ma una sfida per migliorare.