04 dicembre 2004
di Claudio Azzolini
Il correrete degli avvenimenti di grandissimo rilievo geopolitico – dalla rielezione di Gorge W. Bush, alla scomparsa di Arafat fino ai recentissimi eventi in Ucraina – sta definendo uno scenario internazionale segnato da linee di profonda evoluzione, di fronte al quale è necessario un “quind pluris” sul piano delle analisi e delle interpretazioni che forse fino ad oggi è manato, soprattutto, all’interno delle classi dirigenti europee.
I due versanti sui quali si
possono cogliere più agevolmente i limiti e gli errori di prospettiva prodotti
dalle tante “idées reçues” che permeano
oggi le strategie di politica estera – ma direi anche le mentalità – delle
dirigenze europee sono sicuramente le relazioni transatlantiche ed i processi
di ricomposizione del Continente: proprio su questi due temi si misura, invece,
la credibilità dell’Unione europea come soggetto di politica internazionale,
dotata di una propria autonomia e visibilità.
Non v’è dubbio che la conferma
di Bush jr. e la nomina di Condoleeza Rice a capo della diplomazia statunitense
determinano un “nuovo corso” nella politica estera americana ed incideranno
profondamente sulle variabili che determinano l’assetto delle relazioni tra le
due sponde dell’Atlantico.
“Siamo tutti multilateralisti,
adesso” ha scritto recente,mente sull’International Herald Tribune James
Dobbis, direttore del Centro politiche della difesa e della sicurezza
internazionale della “Rand Corporation”, descrivendo le nuove prospettive di
politica estera della seconda Amministrazione Bush.
Sono convinto che una decisa
opzione in favore del multilateralismo da parte degli Stati Uniti implichi il
consapevole riconoscimento, da parte di Washington, dei costi connessi alla
stabilizzazione democratica ed alla ricostruzione economica dell’Afganistan e
dell’Iraq, costi del tutto insostenibili per i soli Stati Uniti, ma non passa
al tempo stesso non dipendere del grado di apertura che i partener dell’Unione
europea sapranno dimostrare verso i primi segnali invitai dal Presidente Bush
per una nuova gestione condivisa delle maggiori crisi internazionali.
In tale prospettiva si è
rilevato assai utile l’intenso dibattito sulle “ragioni” del partenariato
transatlantico cui hanno dato un notevole contributo, in questi ultimi mesi,
personalità politiche europee ed americane (penso, per citarne soltanto due, a
Kissinger e ad Amato), studiosi di vaglia ed autoroveli centri internazionali
di ricerca ed al quale ho provato a dare il mio personale apporto come
“rapporteur” sul tema delle “Relazioni tra Europa e Stati Uniti”, all’Assemblea
parlamentare del Consiglio d’Europa che discuterà la mia relazione – adottata
all’unanimità dalla Commissione Affari politici – nella prossima sessione
plenaria di gennaio.
Penso che l’Italia possa
concorrere efficacemente e consolidare
questo nuovo quadro delle relazioni transatlantiche, apportandovi quella felice
combinazione di europeismo e di atlantismo che risiede nel codice genetico della
nostra politica estera, con il lascito più vivo ed attuale dell’esperienza
degasperiana e che si è puntualmente ritrovata nella scelte difficili, ma
coerenti, del Governo Berlusconi, ispirate dalla visone che la solidarietà
euro-atlantica non solo costituisca un elemento “costruttivo” della posizione
internazionale dell’Unione, ma resti lo strumento privilegiato per
l’edificazione di un ordine internazionale fondato sulla pace e sulla
democrazia. Sul versante dei processi comunitari di allargamento, la “querelle”
sull’adesione della Turchia e la deflagrazione della “rivoluzione arancione” in
Ucraina stanno facendo rapidamente diventare obsoleti due cardini della
politica estera dell’Unione: la più volte evocata “dimensione mediterranea”
dell’azione comunitaria, rimasta spesso lettera morta, e la “politica di
prossimità” nei riguardi dei Paesi confinati dell’Europa orientale che appare
ora del tutto inadeguata di fronte alla crisi in atto a Kiev.
Occorre essere realisticamente
consapevole che il differimento “sine die” dei negoziati per l’adesione di
Ankara implicherebbe il definitivo declassamento della politica mediterranea
comunitaria: al contrario, il suo ingresso nell’Europa comunitaria, pienamente
giustificato dalle credenziali democratiche dell’attuale Governo turco e dagli
standard economici del Paese, comporterebbe la netta affermazione di un modello
di relazioni tra statualità ed Islam incentrato su un equilibrata laicità
accanto ad un più vasto riassetto geopolitico dal quadro mediorientale, segnato
della molte luci ed ombre del dop-Arafat.
Anche gli avvenimenti ucraini
impongono una rapida ridefinizione della strategia di prossimità elaborata in
questi anni dall’Unione europea: di fronte ai milioni di cittadini scesi nelle
piazze ucraine per reclamare, in nome degli ideali del costituzionalismo
europeo, un presidente liberamente eletto, designato dal consenso democratico,
Bruxelles deve sapere rispondere incentivando le prospettive integrante del
Continente europeo.
Sulla crisi ucraina, l’Italia può
fornire un utile contributo all’affermazione di una credibile posizione
dell’Unione europea, proprio alla luce delle sue opzioni internazionali: come
stiamo fornendo un convinto appoggio al “regime ch’ange” promosso
dall’Amministrazione Bush in Iraq, così non possiamo accettare che, di fronte
agli avvenimenti ucraini, prevalga a livello comunitario, una linea di
disimpegno.
Il Governo italiano è stato uno
dei primi, in Europa, a credere alla rilevanza strategica del partenariato tra
la Russia, gli Stati Uniti e l’Europa di fronte alle grandi sfide eversive
globali che rappresenta oggi una delle grandi “rivoluzioni copernicane” nelle
relazioni internazionali contemporanee: questa consapevolezza non deve
impedirci di leggere negli avvenimenti di Kiev l’opportunità di un autentico
“punto di svolta” nel consolidamento di una politica estera europea degna di
quello che il cardinale Ratzinger definisce efficacemente un “Continente
culturale”, ispirato nella sua proiezione internazionale agli ideali di libertà,
di democrazia e di rispetto della dignità umana.