INTERVENTO
di Vittorio Emanuele Parsi

Professore straordinario di Relazioni Internazionali
Università Cattolica del Sacro Cuore


Se vogliamo inquadrare correttamente l’attuale crisi della stabilità in Medio Oriente, occorre riconoscere che essa non deriva semplicemente dalla decisione unilaterale americana di ricorrere alla guerra contro il regime di Saddam Hussein. Essa è piuttosto la fase finale di quel processo di progressiva entropia del sistema d’ordine mediorientale, che si è palesato definitivamente con l’11 settembre 2001. Nei suoi caratteri essenziali, la struttura di quel sistema rimontava al 1919, alla fine della Prima guerra mondiale e alla conseguente scomparsa dell’Impero Ottomano. Benché nata all’insegna della provvisorietà, quella sistemazione era riuscita a superare enormi cambiamenti e profonde crisi di origine sia interna sia esterna alla regione. Si trattava di un ordine basato su uno scambio rozzo ma robusto, in nome del quale, se le potenze occidentali instauravano nella regione una serie di regimi vassalli, questi ultimi dal canto loro si impegnavano ad assicurare la stabilità interna dei propri “Stati”, e il flusso costante dei rifornimenti petroliferi. Così, mentre l’importanza delle riserve petrolifere del Medio Oriente si faceva strategica, veniva affermato con chiarezza un principio: la stabilità regionale era di gran lunga preferibile a qualunque ipotesi di democratizzazione, ovvero la stabilità sarebbe stata perseguita a costo della democrazia.
In gran parte realizzato attraverso Stati disegnati a tavolino, privi di legittimità effettiva, e secondo la logica del più classico divide et impera, il sistema mediorientale è fin dalle origini tormentato da crisi ricorrenti, superabili sempre e solo in forza di interventi esterni, ed è caratterizzato da una entropia devastante. Esso però mette in mostra anche un’eccezionale vischiosità, sopravvivendo a una nuova guerra mondiale, al sorgere del nazionalismo arabo e alle tante rivoluzioni che assicurano la transizione interna dei diversi regimi della regione. Negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, esso riesce persino ad adattarsi e sopravvivere all’introduzione dell’elemento maggiormente innovativo e disequilibrante del quadro originario: il sorgere dello Stato di Israele.
In gran parte il sistema mediorientale riesce a resistere a un carico crescente di tensioni destabilizzanti perché queste si producono negli anni della Guerra Fredda, in cui ogni tensione geopolitica locale o regionale è compressa e va inquadrata all’interno del confronto strategico planetario tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Eppure, proprio in quegli anni si verificano due episodi che dimostrano come il teatro mediorientale stia iniziando a sviluppare una capacità autonoma di scaricare pressione e tensioni verso l’esterno, cioè nei confronti dell’intero sistema politico internazionale. Nel 1973 i Paesi arabi membri dell’OPEC (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) decretano l’embargo petrolifero nei confronti dell’Occidente, responsabile di aver aiutato Israele durante le fasi più critiche della guerra della Yom-Kippur. Si tratta della prima volta che una crisi interna alla regione produce conseguenze permanenti sull’intero sistema politico ed economico internazionale, alterando in modo strutturale una degli clausole del “contratto” originario: quando i regimi della regione torneranno a garantire il flusso del petrolio, lo faranno “liberando” il prezzo del greggio dall’ipoteca della protezione politica e lasciandolo fluttuare su un mercato di cui essi controllano la domanda. Nel 1979 il regime filoccidentale dello Scià di Persia viene rovesciato dalla rivoluzione khomeinista. Anche in questo caso è un debutto. Si tratta della prima volta che una rivoluzione si afferma nel nome di principi e di categorie politiche programmaticamente “altre” rispetto alla tradizione occidentale. Per comprendere la portata della novità costituita dall’avvento della teocrazia e dello Stato islamico, basti pensare che fino a quel momento tutte le lotte di liberazione o di modernizzazione e sviluppo erano state proclamate in nome di principi (dal nazionalismo al marxismo-leninismo) riconducibili alla tradizione occidentale, che fino a quel momento esercitava una pressoché completa egemonia sulla cultura politica mondiale.
La Guerra fredda non può bloccare il verificarsi di questi eventi, ma ne inibisce le conseguenze e ostacola la piena consapevolezza della loro novità. Negli anni Ottanta il nuovo inasprirsi del confronto tra URSS e USA dirotta l’attenzione verso il teatro centrale della Guerra fredda, l’Europa. All’inizio degli anni Novanta, con il crollo inaspettato e improvviso dell’Unione Sovietica, la storia si rimette in moto proprio nel Vecchio continente, la cui carta geografica viene stravolta, non sempre in maniera pacifica. Le democrazie occidentali, vincitrici di uno scontro durato oltre quarant’anni nei confronti del comunismo sovietico, ingaggiano così una corsa contro il tempo nel tentativo di stabilizzare una regione che si estende dall’Atlantico al Pacifico e dal Mare del Nord al Mediterraneo.
Le trasformazioni cui l’Europa va incontro nel decennio dei Novanta, d’altronde, fanno sì che neppure il fatto che il primo grande conflitto post-Guerra Fredda si svolga nel Medio Oriente sia sufficiente ad assicurare le risorse necessarie (politiche, militari ed economiche) per stabilizzare in maniera permanente un ordine mediorientale ormai in caduta libera. La stessa Guerra del 1990-91 resta intrappolata dalle sue contraddizioni e dal suo carattere ambiguo. Essa viene combattuta con lo scopo di restaurare la sovranità kuwaitiana, e questo ne fa una guerra al cui centro concettuale sta un rispetto quasi “totemico” della sovranità. Allo stesso tempo, però, la stessa guerra del 1990-91 rappresenta forse il vertice nella consapevolezza che la ricerca di un “nuovo ordine mondiale” è una necessità, come del resto il decennale conflitto nella ex Jugoslavia dimostrerà di lì a poco. Ma questo nuovo ordine non lo si sa immaginare se non fondato sull’intangibilità dei confini e su un’idea di legalità internazionale che è ancora circoscritta in un mondo in cui solo gli Stati sono in grado di garantire o minacciare la sicurezza. La guerra del 1990-91, cui il concetto di nuovo ordine mondiale è intrinsecamente associato, è in realtà una guerra per il ritorno a un ordine antico, che non si era mai compiutamente realizzato, ma che era stato promesso alla fine della Seconda guerra mondiale.
Per la sua ambizione di rifondazione e rinnovamento di un sistema d’ordine complessivo, la Guerra del 1990-91 è talmente sovraccarica di significati globali da lasciare sullo sfondo il destino del Medio Oriente. In effetti, essa sarà immediatamente seguita dal disfacimento dell’URSS e dalle guerre balcaniche e caucasiche, cioè da una serie di eventi che avvengono “altrove” rispetto al Medio Oriente e che costringeranno a concentrare lontano dal Medio Oriente le risorse dell’Occidente, scarse per definizione rispetto alla complessità delle situazioni da affrontare. Il risultato è che, al di là che se ne inizi ad acquistare consapevolezza, non si riescono a concentrare né l’attenzione né i mezzi necessari per affrontare la sempre più evidente instabilità strutturale del Medio Oriente, la quale, soprattutto, è ormai pronta per essere esportata dalla regione in tutto il sistema (come il primo attentato al World Trade Center e gli attentati qaedisti contro le ambasciate americane in Tanzania e Zaire tristemente annunciano).
Occorre riconoscere che nella fase conclusiva del suo secondo mandato, Bill Clinton cercherà quell’accelerazione che possa almeno disarmare l’innesco della deflagrazione, attraverso l’attiva promozione degli accordi di Oslo a Camp David 2. Proprio il fallimento della trattativa di pace israelo-palestinese e l’avvio dell’”intifada delle bombe”, con la recrudescenza di violenze e ritorsioni, trasformerà il maggior impegno e attivismo americano in un bersaglio ancora più allettante per il nuovo terrorismo di Al Qaeda, che comunque ha bisogno di servirsi della causa palestinese come di un ponte simbolico tra i propri ambiziosi obiettivi globali e il sostegno locale. Il “nemico lontano” è Washington perché sostiene il “nemico vicino” che è Israele. Bisogna colpire il pilastro dell’ordine globale, perché questi è anche il garante dell’ordine locale: questa è la logica che salda insieme i militanti qaedisti e quelli dei gruppi più o meno jihadisti che operano nei Territori occupati. E questa logica verrà rafforzata, anziché essere spezzata, dai comportamenti che americani e israeliani terranno negli anni successivi. Il problema è che, se dal punto di vista di Gerusalemme lo sforzo per far rientrare nella stessa logica gruppi terroristici diversi come Hamas o Hetzbollah e Al Qaeda è perfettamente comprensibile e politicamente avveduto, dal punto di vista di Washington l’accettazione di una simile equazione sarebbe assai meno efficace. Essa infatti priva il gioco americano di una serie di mosse e di carte determinanti a fare il vuoto politico intorno ad Al Qaeda, e semmai rafforza il discorso propagandistico di quest’ultima che, come detto, cerca di mettere in luce agli occhi delle masse arabe la saldatura tra nemico lontano e nemico vicino.
L’11 settembre 2001 la nuova amministrazione Bush, peraltro fino a quel momento poco incline a fare della politica estera l’architrave della sua agenda, si ritrova a non potersi più limitare a raccogliere i frutti della fine della Guerra Fredda, ma a dover fronteggiare un’emergenza di portata globale, connotata da caratteri di novità rivoluzionari, ai quali si devono opporre contromisure altrettanto rivoluzionarie. Per la prima volta da tempi assai lontani, praticamente quasi dalle stesse origini westphaliane del sistema politico internazionale, la sfida alla stabilità del sistema politico internazionale e alla sicurezza della potenza egemone proviene dall’esterno del mondo occidentale (il Medio Oriente), è condotta nel nome di un’ideologia non riconducibile alla tradizione politica dell’Occidente (il jihad), è portata da un attore non statale e non modellato sulle istituzioni occidentali (il gruppo terroristico di Al Qaeda). A questa sfida l’America reagirà proclamando il proprio diritto alla guerra preventiva, allo scopo di impedire che altri 11 settembre possano ripetersi. Nel frattempo, con la guerra in Afghanistan, gli Stati Uniti si proporranno di realizzare un triplice obiettivo: chiarire che gli USA si riservano di colpire e distruggere le basi operative e logistiche di Al Qaeda ovunque esse siano ospitate; lanciare un monito a qualunque altro regime sulle conseguenze di un suo appoggio anche indiretto ai terroristi; operare un regime change in Afghanistan, cioè sostituire il governo totalitario dei Talebani con un altro regime, legittimato dal sostegno popolare verificato attraverso il suffragio elettorale.
Il terzo obiettivo è quello che, a partire dalle conseguenze di un’altra guerra (quella in Iraq del 2003), costituirà l’asse portante della nuova strategia della seconda amministrazione Bush nella War on Terror. Si tratta di una strategia più “politica” e meno “militare”, che vede nella promozione della democrazia la sola possibile strategia vincente contro il terrorismo. In questo senso si spiega la nuova attenzione riservata dal Bush agli alleati europei: Si tratta di una nuova attenzione che non sconfessa per nulla le scelte strategiche precedenti – né ovviamente svaluta l’apporto di quei Paesi che in quelle scelte non hanno lasciato da sola l’America – ma che parte da una semplice considerazione. Se la strategia contro il terrorismo è in una fase prevalentemente militare, l’America può agire da sola o con il concorso di pochi alleati. Se la strategia antiterrorista è invece in una fase prevalentemente politica, allora l’America ha bisogno di tutti i suoi alleati.
Proprio osservando la composizione del commando terrorista dell’11 settembre e della struttura di Al Qaeda, dove abbondano sauditi ed egiziani, salta agli occhi come la propaganda del terrorismo di matrice islamista e del fondamentalismo islamico abbia fatto un maggior numero di proseliti proprio in quei Paesi nei quali gli Stati Uniti e l’Occidente hanno sostenuto regimi non democratici. E’ lì che si concentrano regimi che sono a un tempo autoritari e però deboli, perché non legittimati democraticamente e quindi sempre costretti alla sistematica repressione violenta del dissenso, ma soprattutto incapaci di concorrere al mantenimento della sicurezza regionale. E’ la loro stessa natura a costituire una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e del sistema politico internazionale, a meno che tali regimi non procedano rapidamente alla propria liberalizzazione e democratizzazione.
Da questa nuova consapevolezza nasce la volontà di una strategia più “complessivamente politica” e meno “esclusivamente militare” nella lotta terrorismo. A partire da qui il vecchio trade-off su cui per quasi un secolo si era fondato l’ordine regionale – stabilità a spese della democrazia – viene abbandonato a favore di uno nuovo: stabilità attraverso la democrazia. L’intento è quello di perseguire la stabilizzazione della regione mediorientale (e così la sicurezza complessiva del sistema politico internazionale) attraverso la democratizzazione dei regimi della regione. In questa nuova “intelligenza strategica” la strada del regime change imposto militarmente dall’esterno, come in Iraq, deve rappresentare l’eccezione e non la regola. Assai più importante e decisivo è invece riuscire a incoraggiare, spingere, accompagnare e proteggere i processi interni di cambiamento, in un quadro strategico che gioca la carta della stabilità attraverso la democrazia e non a discapito della democrazia. In tal senso il destino del Libano rappresenterà una cartina di tornasole dell’efficacia della strategia e dell’adeguatezza dei mezzi, a partire dalla concreta volontà politica, rispetto ai fini.
E’ una strada sicuramente lunga, del cui risultato finale nessuno ci può garantire, se non la convinzione che le democrazie sono i soli regimi in grado di evitare quella frustrazione politica che alimenta il terrorismo più di ogni altra cosa. Alla fine del percorso potrebbero anche emergere governi non necessariamente “alleati” degli Stati Uniti o dell’Occidente. Ma è una via che non ha alternative. La stagione dei regimi screditati e deboli, “clienti” dell’America o di qualche ex potenza coloniale europea è finita con l’11 settembre. In certi casi, come in Iraq, la strada è drammaticamente in salita. Tre guerre in venticinque anni anni, dodici anni di sanzioni durissime, decenni di regime baathista, il perdurare di un terrorismo sempre più barbaro e di forme di insorgenza che sfruttano la paura della minoranza sunnita di essere definitivamente estromessa da quel potere che aveva sempre gestito in via esclusiva: tutto complotta contro il successo della democrazia nell’Iraq del dopo-Saddam. E le motivazioni e le modalità con cui la guerra è stata condotta oltre agli errori commessi successivamente buttano benzina sul fuoco. Va però riconosciuto che a gennaio, in questo tremendo scenario, otto milioni di iracheni, cioè il sessanta per cento della popolazione, sono andati a votare nelle prime elezioni libere che il Paese abbia mai conosciuto nella sua tormentata storia. Otto milioni di persone hanno cioè deciso di resistere contro il terrorismo e di condurre il proprio personale jihad contro i terroristi di Al Zarkawi. Il sessanta per cento degli iracheni ha scelto di cogliere forse il solo frutto sicuramente positivo, per ora, di questa guerra: l’eliminazione del regime di Saddam Hussein, che impediva qualunque sviluppo democratico della situazione politica, per poterlo trasformare nel punto di avvio di una rinascita nazionale. Con il loro voto essi si sono appropriati della caduta del regime, hanno fatto proprio un evento fino a quel momento dovuto esclusivamente a cause esterne e l’hanno trasformato in una vittoria del popolo iracheno. E’ appena l’inizio di un processo difficilissimo che solo alla sua conclusione potrà avere come esito la democrazia. Ma è un inizio indispensabile. In gran parte del Medio Oriente, del resto, occorre attuare contemporaneamente e in fretta quei processi di State building e spesso anche Nation building, di liberalizzazione e democratizzazione, che per aver successo devono coinvolgere tanto le istituzioni dello Stato quanto quelle della società. Sono processi la cui realizzazione, in Europa, ha richiesto secoli e gradualità. Com’è ovvio, tale processo non potrà ripetersi in perfetta analogia nel Medio Oriente: ci mancano il tempo e lo spazio. Ma, come Osam Bin Laden ci ha dimostrato, non esistono alternative.: o sapremo procedere a rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo politico delle società del Medio Oriente, o i ceti più acculturati e politicamente deprivati di quelle stesse società avvertiranno come sola alternativa possibile quella del fondamentalismo e del jihadismo terrorista.
Il successo di questo processo, cruciale per la sicurezza dell’intero sistema politico internazionale, dipenderà da molte variabili. Alcune delle quali sono al di là del controllo occidentale, com’è giusto che sia. E però rientra nelle possibilità e nelle responsabilità dell’Occidente, in quanto area del mondo in cui la democrazia è maggiormente solida, antica e sperimentata, decidere se e quanto esso è disposto a investire, economicamente e politicamente, per concorrere alla sua realizzazione, nella consapevolezza che la stabilità del Medio Oriente è possibile solo a condizione della sua democratizzazione e che senza stabilità nel Medio Oriente non può esserci sicurezza per l’intero sistema politico internazionale.