PERCHÉ' GLI ARABI EMIGRANO IN EUROPA

di Fatima Mernissi, scrittrice e sociologa

 

Vi ringrazio per l'invito a partecipare, come scrittrice del Nordafrica, a questo Forum Civil Euromed: evento davvero inconsueto, sia pure soltanto perché fino a questo meraviglioso giovedì, 29 novembre 1995, l'Unione Europea si è comportata con me nello stesso, identico modo che con gli Stati arabi. Vale a dire, ignorando completamente che qualcuno come me possa avere qualcosa da dire. Ed è un vero peccato, perché devo dire che è di un interesse poco consueto. E visto che ho soltanto dieci minuti di tempo, lascerò da parte i Salamalek (saluti) arabi - di proverbiale lunghezza - per evitare di apparire troppo arcaica, e affronterò immediatamente il cuore del problema. Come si fa a farla finita con l'emigrazione degli arabi in Europa?

Prima ipotesi: gli arabi emigrano in Europa perché amano la democrazia!

Se lasciamo da parte l'ipocrisia, questo è davvero il punto che molti degli organizzatori e dei partecipanti di questo Forum hanno in mente, malgrado l'uso di formule educate come: la necessità di avviare un "processo di collaborazione fra l'Europa e il Mediterraneo, nel loro insieme" o di "creare un'associazione economica e finanziaria che genererà una prosperità comune", etc. In realtà, al di là di questi graziosi desideri, credo che gli europei siano terrorizzati dalla prospettiva di una invasione da parte di noi arabi nei loro paesi. Ed hanno ragione, perché tutti noi, giovani e meno giovani, ricchi e poveri, sogniamo di emigrare in Europa. Se non esistessero i visti per l'Europa e ci fosse un bel ponte tra Tangeri e Gibilterra (Ah! la liaison fixe!) mi domando quanti cittadini marocchini, algerini e tunisini se ne rimarrebbero nel Maghreb ancestrale. E così, il timore europeo di un'invasione araba non è di certo una fantasia ed è fondato sulla terribile disaffezione degli arabi nei confronti delle proprie società. Ma insomma, perché questi cittadini arabi sono tanto infelici nel proprio paese, al punto da prendere così spesso la decisione di lasciarlo e di emigrare al nord?

E' a causa della povertà del mondo arabo che i suoi cittadini emigrano? Ebbene, pare che non sia così: il mondo arabo è tra le regioni più ricche del mondo visto che comprende il "65% dell'intera riserva mondiale di petrolio e di gas", secondo Abdellatif al-Hamad, direttore della Fondazione Araba per lo Sviluppo Economico e Sociale. Se il mondo arabo possiede tanta ricchezza perché i suoi cittadini invadono la vicina Europa? Forse perché sono attratti dal clima freddo dell'Europa? La storia prova il contrario: in realtà, gli arabi detestano a tal punto il clima freddo che, quando conquistarono la Spagna nell'ottobre dell'anno 732, si fermarono nella città francese di Poitiers.

E allora, se gli arabi posseggono un favoloso tesoro petrolifero e non amano il clima freddo, che cosa li spinge  a scappare dalle proprie case per invadere l'Europa? Qual'è il misterioso "ingrediente assente" che manca nel sud? Mi piacerebbe poter suggerire che il misterioso "ingrediente assente" è la natura dello Stato arabo: gli arabi emigrano in Europa perché credono che i loro interessi di cittadini siano serviti meglio da uno Stato europeo straniero, fondato su principi democratici, che da uno Stato arabo-musulmano non democratico.

Seconda ipotesi: gli arabi emigrano all'estero perché nel loro paese sono negate la libera scelta e la partecipazione politica.

A che cosa mi riferisco quando parlo di Stato democratico e non democratico? Possiamo ridurre questo concetto di democrazia straordinariamente complesso a un paio di tratti specifici che possano aiutare l'Unione Europea ad investire in modo più fruttuoso i 4865 milioni di ECU stanziati per la promozione dello sviluppo del sud, di modo che gli arabi si trovino meglio dove stanno e si dimentichino dell'Europa? Io direi che una delle ragioni per cui gli arabi fuggono dal proprio paese è la mancanza di libera scelta. Credo che il motivo principale per cui gli arabi emigrano è il fatto che si sentono emarginati dagli Stati totalitari che vietano la libera scelta e la partecipazione politica. Userò la definizione di libera scelta di Dahrendorf, in opposizione al totalitarismo:

"Le ideologie totalitarie sono sempre ideologie di certezza che trasformano arbitrariamente una mera opinione in dogma e si fondano su un concetto unico di quello che è giusto, e di conseguenza inibiscono la critica, censurano il dissenso e sopprimono l'opposizione; il liberalismo sostiene che ogni individuo ha diritto alla propria opinione e quanti più punti di vista in conflitto ed in concorrenza permette la società, meglio sarà, perché l'incertezza è il principio fondamentale".

Gli arabi emigrano al nord perché ogni giorno devono costatare che gli Stati totalitari non difendono bene i loro interessi e creano più posti di lavoro in Occidente che nel mondo arabo. I cittadini arabi devono sopportare uno dei tassi più alti di disoccupazione ed analfabetismo nel mondo.

"Su una popolazione di circa 240 milioni di abitanti nel 1993 - segnala Al-Hamad, che è nativo del ricco Kuwait - soltanto il 28% è attivo economicamente, in confronto al 46% del gruppo dei paesi industrializzati." E uno dei motivi di questa situazione nasce dalla coartazione della libera scelta dei cittadini che porta i leaders politici a comprare armi e a creare più posti di lavoro a Los Angeles che a Casablanca. Quanto più diminuisce la libera scelta dei cittadini arabi nei propri paesi, tanto più aumentano il tasso di emarginazione, causato dalla cattiva amministrazione statale delle risorse, e la percentuale di emigrazione in Europa.

Terza ipotesi: gli arabi emigrano perché vedono che gli Stati musulmani non democratici creano più lavoro in Occidente che nel proprio paese.

Attualmente, il numero dei disoccupati in Medio Oriente e nell'Africa del Nord è pari a dieci milioni. Tuttavia, osservando i bilanci nazionali, ci si rende conto che gli Stati Arabi in generale e l'Arabia Saudita in particolare sprecano denaro in investimenti sterili come le armi e in questo modo creano più posti di lavoro a Los Angeles e in Francia che nel Cairo o a Casablanca.

- Primo esempio: "l'Arabia Saudita compra aerei a reazione statunitensi. Grazie alle energiche pressioni dell'amministrazione Clinton, Boeing e Mc Donnell Douglas venderanno cinquanta aerei commerciali, per un valore di 6.000 milioni di dollari, all'Arabia Saudita, procurando lavoro a decine di migliaia di nordamericani nelle grandi aree elettorali di Los Angeles e Seattle" (Time, 28 febbraio 1994).

I cittadini arabi vedono chiaramente che il presidente americano, che è stato eletto ed è responsabile di fronte ai suoi cittadini, difende meglio i propri interessi facendo sì che il re dell'Arabia Saudita, che si professa musulmano devoto ma non permette la partecipazione e la libera scelta dei suoi cittadini, crei più posti di lavoro a Los Angeles e a Seattle. Dunque, poiché l'abbondanza del petrolio arabo crea lavoro a Los Angeles e non al Cairo o a Casablanca, è naturale che i giovani disoccupati in Marocco o in Egitto sognino di emigrare in un luogo dove si creano posti di lavoro. Paradossalmente il regime Saudita, con la sua decisione di creare decine di migliaia di posti di lavoro a Los Angeles  dopo essersi proclamato difensore della fede islamica, si è guadagnato la condanna da parte dei dissidenti fondamentalisti scontenti, come nemico della Umma  musulmana (comunità), diventando così il primo bersaglio di una violenta opposizione interna che ha raggiunto dimensioni senza precedenti a partire dalla Guerra nel Golfo. Alcune delle ragioni per cui il dissenso nelle società arabe ha assunto una forma religiosa, e si esprime nel movimento islamista, sono: il disprezzo degli Stati arabi nei confronti della libera scelta dei cittadini, la manipolazione delle istituzioni democratiche classiche (falsificazione dei voti) e la soppressione della società civile. L'emergere di gruppi di dissidenza religiosa si deve intendere come una risposta ad una cattiva ed assurda amministrazione statale delle risorse.

- Secondo esempio: "La Francia venderà all'Arabia Saudita due fregate per diciannove miliardi di franchi (...) La conclusione di questo contratto, che significa milioni di ore di lavoro per le industrie francesi (...)" (Le Monde, 23 novembre 1994).

Questo tipo di notizia è annunciato dai media occidentali come un prodigioso successo della diplomazia occidentale e filtra fino alle case arabe che sono collegate con le tanto popolari antenne paraboliche, a dispetto dei tentativi del governo di conculcare il diritto dei cittadini all'informazione. Pertanto, è assolutamente normale che la gioventù araba sogni di emigrare in Francia, dove ha sentito che i dirigenti arabi creano posti di lavoro in un'epoca come questa che vede un drammatico calo dei posti di lavoro a causa di inevitabili cambiamenti tecnologici e strutturali. I giovani arabi disoccupati vedono chiaramente che i presidenti nordamericano e francese mettono sottosopra il pianeta per assicurare posti di lavoro ai cittadini davanti ai quali sono responsabili, mentre il dirigente arabo, che se ne sta seduto sulla più grande sorgente petrolifera del mondo e dichiara di difendere gli interessi della Umma musulmana, crea milioni di ore di lavoro nell'Occidente "cristiano".

Forse sarebbe più giusto non utilizzare lo stesso concetto di Stato per gli Stati democratici occidentali, che sono costretti dalla propria opinione pubblica ad essere razionali nelle decisioni che prendono (la razionalità si misura in base alla coerenza con i bisogni dei cittadini), e per gli Stati Arabi, la cui irrazionalità si deduce proprio dalla capacità che essi hanno di censurare l'opinione pubblica. Io suggerisco di chiamare i primi col nome di "Stati cow-boy", e gli arabi con quello di "Stati boy-scout".

I cow-boys si occupano delle proprie vacche, proteggendole e garantendo loro l'accesso all'acqua e ai prati verdi, mentre i boy-scout si occupano soltanto di se stessi. Risulta tutto molto più chiaro se decidiamo di chiamare gli Stati europei "Stati cow-boys", perché il cow-boy si occupa della mandria di vacche che gli è stata affidata. Gli Stati cow-boys sono obbligati, per effetto dell'opinione pubblica e della partecipazione dei cittadini, a curare gli interessi di questi. Così, i presidenti Chirac, Kohl e Clinton impiegano il loro tempo frugando il pianeta, allo scopo di controllare le risorse a beneficio dei propri cittadini. Saltellano dalla Cina a Djeddah in cerca di accordi economici, vendendo armi qui e controllando il petrolio lì. Nel frattempo, gli Stati boy-scout, come gli arabi, impiegano il loro tempo  occupandosi di se stessi. Il lavoro dei boy-scouts  è quello di sviluppare i muscoli ed irrobustirsi. Questo è quello che fanno gli Stati non democratici che reprimono l'opinione pubblica. Il loro obiettivo è la propria crescita: e infatti crescono, creando burocrazie immense e grandi eserciti. Ma tutto questo non viene utilizzato per aiutare i cittadini a produrre e vendere merci in tutto il mondo, bensì soltanto per vigilare su di loro ed assicurarsi che siano completamente paralizzati. Nel decennio a partire dal 1970, gli Stati boy-scouts esportavano soprattutto persone e materie prime. Non assistevano i cittadini nella produzione di merci da esportazione. L'invio di esseri umani per lavorare in Europa o nella regione del Golfo era la principale risorsa di molti Stati arabi non petroliferi: "Le esportazioni non petrolifere (pari a 260 milioni di persone) dal Medio Oriente e dal Nordafrica sono inferiori a quelle della Finlandia (pari a cinque milioni di persone)", riflettono gli esperti del Banco Mondiale.

La mancanza di libera scelta e di partecipazione politica dei cittadini è ciò che rende estremamente fragile la leadership dei paesi ricchi di petrolio, lasciandoli completamente alla mercé dei diplomatici occidentali fortemente motivati. In Politics of Diplomacy: Revolution, war and peace, 1989-1992, il segretario di Stato nordamericano James Baker ci offre un quadro devastante della facilità con cui riuscì a manipolare i leaders petroliferi che nutrivano particolare disprezzo per i diritti dei cittadini. Egli ci racconta che chiese al re dell'Arabia Saudita di rinchiudere tutti i ministri del suo governo e di tagliare loro le comunicazioni telefoniche con il mondo esterno. Ed in effetti, il re accettò: "Restavano da definire alcuni dettagli urgenti", scrive il signor Baker. "Ci accordammo che, in caso di un attacco, Bandar avrebbe informato il re Fahd con la seguente ambasciata: "Sta arrivando il nostro vecchio amico Suleimàn". Dunque, i Sauditi suggerirono che il re convocasse tutti gli ufficiali del governo in un centro di comando sotto terra. Una volta riuniti lì, sarebbero stati tagliati i contatti telefonici con il mondo esterno. I Sauditi erano nostri amici ed alleati, ma la sicurezza delle loro comunicazioni può definirsi - volendo essere generosi - almeno negligente. Dato che c'erano delle vite in gioco, nessuno voleva correre il rischio che qualche ministro troppo loquace compromettesse la sicurezza dell'operazione".

E' estremamente difficile immaginare la situazione opposta: per esempio, un ministro degli Affari Esteri saudita che intima al presidente degli Stati Uniti di rinchiudere il proprio governo in una stanza e di interrompere le comunicazioni telefoniche con il mondo esterno in un momento strategico tanto serio come l'inizio di una guerra. Politics of Diplomacy è pieno di descrizioni della diabolica capacità che ebbe il signor Baker, nei suoi rapporti con i leaders arabi, approfittando del fatto che questi non si sentivano responsabili di fronte ai propri cittadini. Purtroppo i leaders arabi non sono gli unici che si preoccupano più degli interessi dei motivati cow-boys occidentali  che degli interessi dei propri cittadini: anche i capitalisti arabi provano un'attrazione invincibile nei confronti dell'Occidente.

Quinta ipotesi: i paesi arabi ricchi di petrolio investono i propri capitali all'estero perché si sentono più sicuri in un ambiente democratico.

I capitalisti arabi preferiscono investire il proprio denaro nei paesi occidentali con un governo democratico, e non è raro che la gioventù araba pensi all'emigrazione per beneficiare proprio della ricchezza araba. Secondo la Banca Mondiale: "Tutti i paesi fanno a gara per ottenere l'attenzione del capitale privato, così importante per lo sviluppo. Ma con l'aumento della sua mobilità, il capitale privato è divenuto incostante. Insegue alti tassi di cambio e se ne va quando il clima si inasprisce. I paesi del Medio Oriente e del Nordafrica non sono stati capaci di mantenere il capitale nazionale all'interno del paese (il capitale di questa regione che si trova all'estero è pari a 350.000 milioni di dollari). Circa la metà del capitale all'estero appartiene al Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), per il quale investire all'estero è ottimale, dal punto di vista economico, a causa del suo bisogno di diversificare."

Lo spaventoso tasso di disoccupazione che raggiunge il 30% fra i giovani di molti paesi arabi è dovuto, tra le altre cose, al fatto che gli arabi ricchi non hanno fiducia nel proprio contesto locale e si sentono più sicuri ad investire nei paesi democratici. Non risulterà strano, allora, che gli europei non corrano ad investire il proprio denaro nel mondo arabo malgrado essi siano regolarmente corteggiati dai dirigenti arabi non democratici. Gli esperti della Banca Mondiale attribuiscono la scarsità del capitale nei paesi del Medio Oriente e del Nordafrica alla presenza di regolamenti burocratici assurdamente paralizzanti che rispecchiano l'allontanamento assoluto dello Stato dagli interessi dei suoi cittadini.

"Perché si registra un ritardo negli investimenti?... Il settore imprenditoriale è afflitto da norme gravose. Il processo di privatizzazione è stato lento. La qualità delle infrastrutture è inadeguata e i mercati finanziari rimangono sottosviluppati. Per esempio, gli imprenditori egiziani dedicano circa il 30% del loro tempo a risolvere i problemi per attenersi alle norme. Anche in Marocco, dove il regime degli investimenti è stato sostanzialmente liberalizzato, occorrono venti documenti e sei mesi per ufficializzare un affare. La percentuale delle comunicazioni telefoniche fallite è del 34% in Tunisia, del 46% in Yemen, del 50% in Libano, del 57% in Marocco e del 60% in Giordania" (Banca Mondiale, Claiming the future).

Perfino le banche, che in teoria sono spazi modernissimi e completamente governati dal raziocinio, assumono delle caratteristiche autoritarie in un contesto arabo non democratico. E ci troviamo di fronte a direttori che impongono prezzi ridicoli, molto più alti di quelli che il mercato consentirebbe in assetti statali più democratici: "La media dei margini di intermediazione - la differenza tra i prestiti delle banche e i tassi di deposito - nel 1991-93, è stata del 9% nei paesi del Medio Oriente e del nordAfrica che non fanno parte del Consiglio di Cooperazione del Golfo, contro circa il 3-4% in Asia e nell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCDE). Vantaggiosa per le banche, poco incoraggiante per gli affari. (Ibidem).

Se ci accorgiamo che gli arabi ricchi investono il proprio denaro in Occidente, perché ci appare tanto strano che le popolazioni arabe disoccupate emigrano in Occidente per raccogliere qualche briciola della torta?

Conclusione: gli arabi sono molto razionali ed hanno una visione universalista. Hanno smesso di credere nelle frontiere. Gli occidentali sono assolutamente irrazionali se promuovono il libero flusso del capitale e si oppongono al libero movimento dei cittadini del pianeta.

I mezzi di comunicazione occidentale presentano gli arabi e i musulmani come degli esseri ferocemente nazionalisti, superstiziosi e fanaticamente religiosi; gli occidentali, come esseri razionali dotati di una visione universale. Io direi che la decisione dei cittadini arabi di emigrare in Occidente costituisce, piuttosto che una dimostrazione di irrazionalità, l'attestazione più intelligente ed astuta di una dinamica di mercato globale molto complessa. Decidono di trasferirsi dove il denaro arabo crea più posti di lavoro per seguire da vicino il flusso del capitale arabo. Condividono sia l'immagine sofista dell'universo come un prato meraviglioso privo di frontiere, sia il messaggio del GATT che predica l'inconsistenza delle frontiere nazionali. L'islam, come visione del mondo, ha un approccio decisamente universalista; e ancora di più il sofismo, la tendenza mistica che sta assistendo ad una straordinaria rinascita in questi giorni, anche se i mezzi di comunicazione non la prendono in considerazione perché non privilegia la violenza e parla dell'amore universale. Una poesia come quella di Ibn 'Arabi, il sofista andaluso del secolo XII, è sufficientemente rappresentativa di questa visione universale dell'universo:

 

Vide la luce ad Est, e per questa ragione amò l'Est

E se la luce compare ad Ovest, egli anelerà l'Ovest

Il mio amore è per la luce e il suo splendore

Il mio amore non è per i paesi e i territori

 

Sono gli occidentali ad apparire totalmente irrazionali quando decantano i pregi del mercato globale, apprezzando il flusso del capitale arabo, e subito dopo vogliono frenare il movimento della gente e costruire un harem europeo con porte ben guardate ed eunuchi elettronici.

Disgraziatamente, gli harem sono passati di moda anche nel mondo arabo. Pertanto, vedo soltanto un'alternativa reale perché gli europei possano frenare l'emigrazione araba: cominciare subito ad investire nella costruzione della società civile nel mondo arabo. Ad esempio, perché non investire i 4.865 milioni di ECU per aumentare le capacità e le abilità delle ONG, invece di farli passare per i canali burocratici tradizionali? La società civile rimbomba nel mondo arabo. I politici e le imprese europee che cominceranno ad investire nella società civile e nella libera iniziativa individuale, invece di concludere le consuete trattative con i burocrati, non tarderanno a fare fortuna.

Gli europei che cominceranno a vedere gli arabi come potenziali consumatori invece di guardarli come dei parassiti, se ne andranno con le tasche piene.

Provateci! Vi piacerà!